Palpitava un debole rumore, dolce come la brezza delle piante; era il respiro delle Ninfe addormentate, che sognavano la giovinezza del mondo, il tempo in cui non esisteva ancora l’uomo, e dove la terra non dava vita che agli alberi, alle bestie e agli dei.
Marguerite Yourcenar, Nostra Signora delle Rondini
La geometria dei generi cinematografici si basa su una serie di assiomi formali incontrovertibili. Uno di questi riguarda l’universo diegetico dei modelli melodrammatici: tutto ciò che rientra nel dominio del ‘due’ è, di fatto, inconciliabile con la struttura del melodramma ed è destinato a regredire, a disperdersi, a frammentarsi, a subire una metamorfosi di natura scettica all’interno della quale i confini tra identità e alterità – tra integrità e separazione, tra singolarità e molteplicità – perdono consistenza, lasciando il posto a un complesso nucleo prismatico che investe tutte le tipologie di relazione tra i personaggi (la coppia di coniugi, gli amanti, i genitori e i figli, i fratelli, le sorelle). Quali sono le conseguenze di un simile presupposto, nel suo essere poco più di una mera provocazione, in un discorso che invece tende a privilegiare le modalità con cui è possibile relazionarsi al ‘due’, e dunque a un paradigma simbolico forte di soggettività?
Una delle declinazioni dell’‘essere due’ sviluppate dalla filosofa Luce Irigaray nella sua opera omonima del 1994 riguarda la questione della genealogia: il primo incontro con il corpo dell’altro è quello che ognuno di noi intrattiene con la propria madre (il cosiddetto ‘altro parentale’). Tale incontro non è sempre uguale, né tantomeno neutrale, ma varia a seconda che io sia una bambina o un bambino ed ha un ritorno sulla costituzione dell’identità: «Nel mio corpo presente sono già intenzione verso l’altro, intenzione fra me e l’altro, dapprima nella genealogia». Si tratta di una tematica che l’autrice riprende anche in altri testi, come ad esempio Sessi e genealogie (1989) e Il respiro delle donne (1996), in cui viene posto l’accento sull’importanza delle genealogie femminili in relazione all’ordine del sacro:
La Dea, intesa soltanto come Madre, è già un paradigma patriarcale: essa raffigura la madre del figlio, dei figli, al massimo la sposa legittima e feconda del patriarca. Ciò che auguro è che le donne riscoprano la loro divinità, in quanto donne. Non se ne trovano forse alcuni elementi in certe “apparizioni” della Vergine? Chiedetevi perché la Vergine appare spesso a delle ragazze. Che ritorno c’è qui delle tradizioni dimenticate? Delle culture madri-figlie? Il maggior crimine della cultura patriarcale consiste nell’aver separato la figlia dalla madre. Le tracce del dramma di questa separazione tra figlie e madri sono iscritte nei miti. Così, per assicurare il suo impero celeste, Giove negozia sua figlia. Egli rapisce la figlia alla madre, e la “vende” al dio degli inferi. La colpa del patriarcato si trova qui in modo esemplare; essa è ripetuta da Freud, e ripetuta da noi se non vi prestiamo attenzione. Infatti ci mancano rappresentazioni culturali per sostenere le relazioni tra madri e figlie.
Tornando alle suggestioni da cui siamo partiti, l’interruzione della genealogia femminile, parafrasabile in termini di ‘orfanità’, è un qualcosa che appartiene geneticamente alla diegesi del genere melodrammatico, in letteratura e al cinema, e che si rifà a quel reame franco di trascendenza riscontrabile in tanti piccoli mondi al femminile: quei world of women o demi-monde in cui le donne protagoniste riescono a trovare espressione, l’unico spazio-tempo in cui per esse diventa possibile la ricerca della propria madre e il racconto della propria storia. Essendo la relazione con l’uomo basata sulla prevaricazione e sul dominio, spesso le eroine melodrammatiche conformano il proprio senso di alterità sulla base di comunità femminili di riferimento (figlie, sorelle, madri, zie, suore) all’interno delle quali aleggia un senso irrisolvibile di orfanità e di sacrificio. Né completamente fuori né mai pienamente dentro, escluse a partire da un’inclusione, segregate dagli altri e scisse nell’animo, queste donne non riescono ad essere parte di qualcosa e, men che meno, ad appartenersi fino in fondo, scivolando in un limbo sacrificale silenzioso che interrompe la catena della genealogia e, al contempo, sopprime l’espressione naturale della propria idiosincrasia. Il loro isolamento è associabile alla relazione con il trascendente e si esprime attraverso un apparato immaginifico che attinge direttamente alla sfera del sacro, all’iconografia religiosa, alle figure mariane, alla sottomissione, al martirio e alla clausura.
Ma non è sempre così. Esistono, infatti, dei casi narrativi virtuosi in zone ibride, non ascrivibili ad un genere preciso, in cui i personaggi femminili si confrontano su un piano orizzontale mettendo in pratica quell’etica dell’amore – teorizzata da Irigaray – che concepisce il due tramite un pensiero d’intersoggettività in grado di salvaguardare il luogo di una trascendenza del ‘fra noi’, di un mistero di irriducibilità che appartiene all’essere femminile fin nella sua costituzione ontologica: al contrario dell’uomo, che concepisce la generazione solo all’esterno (fuori da sé) come manifestazione del sapere tecnico e che tende a dominare (il mondo, la natura, l’altro), la donna genera in se stessa l’altro ed è, per questa ragione, più incline al ‘dominarsi’, al fare di sé un mondo e al riconoscersi nell’altro, favorendo un passaggio culturale di energie, sotto forma di educazione, di trasmissione genealogica, una fonte di crescita identitaria e di rinascita a carattere primaverile. Secondo Irigaray, la pratica genealogica tra donne deve essere duplice: si deve intendere una genealogia femminile in senso verticale (ovvero la linea concernente la procreazione, il rapporto madre-figlia) e una in senso orizzontale (basata sulla conoscenza e sulla storia delle altre donne, una genealogia della sorellanza) che devono potersi integrare reciprocamente al fine di ricostituire un ordine simbolico femminile in grado di contrastare il determinismo sotteso alle logiche edipiche e di riaffermare l’autonomia divina delle donne.
Uno dei film da prendere in considerazione, sotto questo aspetto, potrebbe essere Un garibaldino al convento (1942) di Vittorio De Sica, in cui si racconta la storia di un’amicizia, sbocciata nel convento di Santa Rossana in pieno Risorgimento, tra due giovani donne allieve del collegio femminile, la nobile Mariella (Maria Mercader) e la ribelle Caterinetta (Carla Del Poggio) [fig. 1]. Si tratta della quarta regia di De Sica (dopo Rose Scarlatte, 1940, Maddalena… zero in condotta, 1940, Teresa venerdì, 1941) e segna il passaggio da una prima fase prettamente commedica del suo cinema a quella più drammatica che sfocerà poi nei capolavori del neorealismo. Un garibaldino presenta, infatti, una struttura piuttosto sui generis, in cui atmosfere e toni commedici si innestano su un perno melodrammatico, che si manifesta sia nell’epilogo tragico della storia d’amore tra Mariella e il famoso garibaldino del titolo (il conte Franco Amidei, interpretato da Leonardo Cortese), sia nell’espediente diegetico del flashback a partire dal quale si mette in moto tutta la vicenda.
Sono passati moltissimi anni e Caterinetta, ormai anziana, si reca a far visita alla sua compagna di collegio Mariella portando con sé due nipoti. La scena iniziale del film, in cui vi è uno scambio tra Caterinetta e un domestico, rappresenta in sé una piccola celebrazione della potenza genealogica femminile: «Le vostre nipotine?... Sì, la marchesina desiderava conoscerle. Gliene ho portate due, ma ne ho altre otto!... Otto?!... Otto. Due già sposate, tra poco sarò bisnonna!... Beata voi, signora!». Attraverso l’asse verticale di una genealogia – il rapporto tra una nonna e le sue nipoti – viene trasmesso il racconto di un altro asse genealogico, quello orizzontale della sorellanza ideale tra (almeno) due donne che hanno condiviso una storia. Storia che viene narrata da Caterinetta alle giovani nipoti, mentre attendono Mariella in salotto sotto il suo ritratto [fig. 2].
Ciò che colpisce maggiormente del film, al di là della natura del legame che si sviluppa tra le due donne, prima nemiche giurate e poi complici leali e appassionate nella rischiosa gestione di un segreto (la presenza all’interno del convento di un garibaldino ferito, fidanzato di Mariella) [fig. 3] e delle conseguenze del suo successivo svelamento (scoperto dalle suore, ad Amidei viene concesso di restare nascosto, ma giungono a reclamarlo sia i soldati borbonici sia l’esercito di Nino Bixio ingaggiando un vero e proprio scontro a fuoco), è piuttosto l’atmosfera edenica che incornicia, in generale, il passato e, in particolare, la comunità femminile del convento di Santa Rossana, lontanissima da quella dei topoi melodrammatici più ricorrenti: la vita delle protagoniste è immersa in una sorta di tempo sospeso, una dimensione paradisiaca, verginale, armonica, festosa, gloriosa, un giardino lussureggiante di fiori e uccelli, in cui le giovinette si muovono come ninfe a passo di danza, tra canti e giochi [figg. 4-5-6-7]. È la culla della sorellanza, descritta da Irigaray come prerogativa spirituale dell’‘essere due’:
Il riso della gioia si sgrana come delle perle. L’iridescenza di questo mattino lascia la comunione casta: in noi, fra noi. Si ascoltano note pure e cristalline, scoppi di risa dei bambini, canti degli uccelli. Si immaginano anche bisbigli di angeli, palpiti di anime, mentre crescono foglie e fiori per divenire mazzi viventi. I fiori sono leggeri, senza pretesa: aerei, colorati o solo bianchi. Sorrisi della Primavera, testimoniano di una speranza muta. La vita fa il suo rumore. La terra come un gran nido, ci ospita, cova la nostra rinascita.
Il sorriso della Primavera è quello della terra morta che torna a fiorire, della dea Demetra che ritrova la speranza e si immerge negli inferi per riprendersi sua figlia Persefone, della regina Ermione che si sveglia alla fine del Racconto d’inverno e si ricongiunge a Perdita, di due giovani orfane, Mariella e Caterinetta, che scelgono di rispettare il mistero delle proprie soggettività e di rimanere due [fig. 8].
Bibliografia
L. Cardone, Il melodramma, Milano, Il Castoro, 2012.
R. De Gaetano, ‘Amore’, in Id. (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Volume I, Udine, Mimesis, 2014, pp. 41-105.
L. Irigaray, Donne divine, in Ead., Sessi e genealogie [1987], trad. it. di L. Muraro, Milano, La Tartaruga, 1989, pp. 145-171.
L. Irigaray, Essere due, Torino, Bollati Boringhieri, 1994.
L. Irigaray, Il respiro delle donne [1996], trad. it. di P. Calizzano, Milano, il Saggiatore, 1996.
S. Socci, ‘Le mélodrame italien’, in Panorama des genres au cinéma, CinémAction, 68, 1993, pp. 112-120.