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Arabeschi ha riservato negli anni un’attenzione costante al rapporto tra Sciascia e i linguaggi visivi e, tra le iniziative e i libri che in questi giorni rendono omaggio alla memoria e alla produzione dello scrittore in occasione del centenario della sua nascita, non può mancare di segnalare l’uscita del volume curato da Paolo Squillacioti «Questo non è un racconto». Scritti per il cinema e sul cinema (Adelphi, 2021), che fa il punto sulla relazione tra Sciascia e il cinema regalando ai lettori e alle lettrici di oggi contributi inediti e scritti sparsi. In concomitanza con la pubblicazione di questa silloge proponiamo qui la Nota al testo, firmata da Paolo Squillacioti, da cui emerge, grazie anche al riferimento a testi non ancora noti come i soggetti inediti di Sciascia, l’inesauribilità – nonché la fecondità critica – del ‘discorso continuo’ condotto dallo scrittore sul filo delle ibridazioni tra parole e immagini. Si ringraziano, per avere concesso la pubblicazione del contributo, Adelphi edizioni e Paolo Squillacioti, già curatore per la stessa casa editrice delle Opere di Leonardo Sciascia.

«Che cosa fosse allora, per un ragazzo di sedici anni, il mito del cinema americano (il mito del cinema francese stava per sorgere), è difficile immaginarlo, per chi non lo ha vissuto. Era, si può dire, tutto. Vi si intravedevano i libri che non si potevano leggere, le idee che non potevano circolare, i sentimenti che non si dovevano avere».[1]

 

Ma la passione dello spettatore va di pari passo con un piglio critico militante di cui Sciascia dà prove precoci: è del 1947 un articolo apparso sul giornale siciliano «Chiarezza» in cui si denuncia che «Il film americano viene a noi come un genere UNRRA»:[3][4]

Qualche anno prima Sciascia aveva persino vagheggiato un futuro strettamente legato al cinema («fin oltre i vent’anni sognai di fare il regista, il soggettista, lo sceneggiatore»),[5] ma nei regressivi anni Cinquanta l’evoluzione della società italiana, e quindi del cinema nazionale, provvede a disilluderlo: «Non ritengo che l’apporto degli scrittori, oggi come oggi,» scrive nel 1957 «possa esser tale da risollevare la qualità della produzione filmistica: ci vuol altro per fare dei films che siano al livello di quelli dell’immediato dopoguerra – ci vuole, per esempio, l’effettiva libertà che allora c’era. Ma gli scrittori possono, comunque, aiutare a produrre dei “compitini pulitini”, per lo meno senza gli errori di grammatica e le offese al più elementare buon gusto».[6]

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

La fisicità di Mariangela Melato è subito stata categorizzata per la sua anomalia nel panorama divistico italiano, strumento di costruzione di personagge che rompono vistosamente i confini delle femminilità convenzionali (Formenti 2016). Quel corpo relativamente malleabile e magro e quel volto enigmatico, che Fellini definì «una via di mezzo tra una divinità egizia e un extraterrestre», la avvicinano alle «muse della modernità» che negli anni ’60 avevano punteggiato gli schermi europei (Pravadelli 2014). Le sue personagge sono però spesso proletarie, sempre provinciali: uno dei suoi ruoli più famosi – la Raffaella Pavone Lorenzetti di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto (1974) – fa il verso proprio alla Claudia interpretata da Monica Vitti in L’avventura (Michelangelo Antonioni, 1960) che Veronica Pravadelli prende a esempio di diva moderna [figg. 1-2].

 

1. Performances sartoriali di femminilità possibili

Con i tre film diretti da Wertmüller fra il 1972 e il 1974 Melato esplora i confini di figure proposte come maschere, pienamente calate nel momento della rappresentazione: la femminista emancipata, la prostituta ribelle, l’industriale edonista. Donne le cui scelte estetiche e vestimentarie sono parte integrante della configurazione soggettiva, suturando le personagge nella narrazione (Gaines 1990). Il rifiuto del realismo e della sobrietà a favore di una caratterizzazione forte, che però non si inabissa mai nel grottesco che pure connota tutte le altre scelte estetiche nei tre film proposti, permette un particolare rapporto delle spettatrici con le tre personagge di Melato. Questa scelta consente di rendere imprevedibile lo stereotipo, perché il costume diviene una rete che trattiene una fisicità altrimenti troppo fluida e sfuggente. Ma una rete è anche intreccio, struttura di sostegno, possibilità di significazioni nuove, come le trame di lana colorata intessute da Fiore: e le donne portate sullo schermo da Melato in collaborazione con Wertmüller tengono in costante equilibrio la dialettica fra maschera e soggetto, fra superficie e tridimensionalità, scoprendo e rendendo espliciti i meccanismi della configurazione identitaria.

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