Nel 2004 e nel 2012 Charlotte Rampling torna a recitare per il cinema italiano con Le chiavi di casa di Gianni Amelio e Tutto parla di te di Alina Marazzi. I film rendono omaggio al suo carisma, ma sembrano soffrire di poca audacia immaginativa nell’utilizzare le sue doti. Nel primo è madre di una ragazza disabile: silenziosa e dolente, esce dal film senza aver impresso alcun segno di rilievo. Nel secondo è una misteriosa antropologa, che indaga nel mondo delle madri che soffrono di depressione post partum. Parrebbe nascondere il coup de théâtre del film, che finisce invece deludendo le aspettative, anche quelle legate al suo personaggio. Sembrerebbe che entrambi i lavori vogliano stigmatizzare con la sua presenza la qualità intellettuale dell’operazione, ma finiscano col sottrarsi all’approfondimento oneroso che da un portato come quello di Rampling inevitabilmente si attende. Difatti in entrambi la sua partecipazione finisce per essere un’occasione mancata, quasi la nostra autorialità contemporanea scelga di accostarsi a una presenza attoriale così specifica e preziosa in modo anodino: non significativamente inedito e, allo stesso tempo, dimostrando molta attenzione (forse troppa) a evitare qualunque dialogo con la sua identità cinematografica, frutto di una storia quarantennale la cui origine è tutta italiana.
È il nostro cinema infatti ad aver creato Charlotte Rampling. Basterebbero due film: La caduta degli dei (1969) e Il portiere di notte (1974) [figg. 1-2]. Oltre a Visconti, che le imprime il segno dell’attrice di rango, e Cavani, che la lega a un film che è da subito un classico (facendo di lei addirittura un’icona la cui potenza permane tutt’oggi), ci sono anche altri registi italiani cui Rampling deve l’identificazione del suo specifico. Sergio Mingozzi, Giuseppe Patroni Griffi e Giuliano Montaldo dimostrano infatti attenzione nei confronti di questa nuova idea di femminile, che trova incarnazione nella giovane attrice. Spia di un nuovo gusto cosmopolita, dotata di una sensibilità speciale, attratta da inquietudini che vengono captate da certo nostro cinema, che tanto ha utilizzato attrici straniere (star, grandi interpreti già affermate nei paesi d’origine, soprattutto francesi), ma anche dive-meteore legate a un solo grande film (un nome: ad esempio Anita Ekberg), ibridandosi significativamente con esiti spesso non banali.
Ma Rampling propone qualcosa di diverso: c’è nell’utilizzo di questa ragazza inglese la spia di altro. L’esplorazione permette di illuminare il suo specifico e i motivi che ne hanno fatto il segno di una corrispondenza (estetica, quindi emotiva e sociale) con la cultura del nostro Paese tra anni Sessanta e Settanta.
È sempre una questione di sguardi: chi guarda e chi riceve lo sguardo, attirandolo, seducendolo, rilanciando intese, intensificandosi vicendevolmente. Sguardi tra regista e interprete, che si riflettono a sullo spettatore. La personalità e l’esperienza dei cineasti che hanno fermato lo sguardo su Rampling sono decisamente eterogenei. Alcuni quasi al debutto (Mingozzi), altri al tramonto di magnifiche carriere, come Visconti, altri ancora più giovani ma affermati e certo non ortodossi (Patroni Griffi, Cavani); accanto a loro Montaldo, sicuramente più integrato, che tuttavia scegliendo Rampling per Giordano Bruno (1973) non fa che sottolinearne lo specifico: che sa di eresia.
Espressione di una potenza erotica nuova, morbide, sembra una figura uscita da un quadro di Klimt (la definizione è di Liliana Cavani). Incarnazione dello Zeitgeist dell’Italia di allora, di un sentimento che prende corpo mettendo in discussione l’istituzione familiare e i valori borghesi che hanno al centro la donna (fedeltà, verginità, matrimonio, maternità). Lei, con le linee affilate di un coltello, lo sguardo sofisticato della miscredente nei riguardi di tutto, è quanto di più anatomicamente diverso da qualsiasi tipologia femminile (non solo italiana) che abbia fin lì abitato i nostri schermi. È certo la negazione della mediterraneità, ma anche della femmina appariscente di tipo americano o nordico; allo stesso tempo non propone la tipologia di donna borghese tormentata e sensuale. È un corpo costituzionalmente estraneo, apparentemente androgino ma soprattutto eterosessuale, manifesto di un desiderio pericoloso, dissidente. Un corpo istintivamente politico, che sottraendosi a qualunque possibilità di allineamento si fa segno dell’urgenza di indisciplina, psichica e sessuale, restituita da un cinema italiano inquieto, sofisticato, che vede in Rampling il segno grafico cui affidare il senso del discorso.
Al centro la presenza costante della morte: anche della stessa idea di femminile fin lì più frequentato. Le sue ʻpersonaggeʼ sono sempre in dialogo con la morte, di cui sono sovente portatrici, quasi l’attrice sia segnale di un pericolo imminente. Pensiamo a Sequestro di persona (1967) di Mingozzi, ambientato nella Sardegna contemporanea tra rapimenti e faide, in cui la prima azione che l’attrice (bellezza dirompente che si ribella alle dinamiche primitive del brigantaggio) svolge è addirittura empia: trascina la carcassa di una pecora sul ciglio della strada. Se a Mingozzi spetta la sua scoperta, è Visconti che due anni dopo ne illumina il talento, affidando a lei, appena ventiduenne, la parte della trentaseienne Elisabeth ne La caduta degli dei. Il film ne stigmatizza la vocazione destinale alla morte, cui si incammina occupando lo schermo con la «forza di un geroglifico». La definizione è di Russell Taylor in Sight and Sound a proposito di Addio fratello crudele. L’opera del 1971 di Patroni Griffi, in cui lei è protagonista di un amore massimamente deviato (ama, riamata, il fratello, fino alla morte di entrambi) è di un formalismo estremo e sospeso, popolato da presenze maschili dalla bellezza quasi irreale [fig. 3]. Una perfezione da favola, che entra intenzionalmente nella maniera e che si riflette nella costruzione del film e nel suo andamento onirico. La virilità risulta come sublimata e, così svuotata, si riflette nel femminile di Rampling, la cui bellezza trova tangenze con la ricerca artistica di quegli anni dominata dall’arte concettuale.
Astrazione che tuttavia non nega la potenza erotica dell’attrice, come dimostrano i dettagli del suo corpo nudo che già irrompevano nel film di Mingozzi. In Addio fratello crudele, come nel film sardo, è concreta la forza allarmante della sua presenza, anche nei riguardi dell’idea stessa di normalità di coppia: nei film italiani che la creano, Rampling è costantemente segnale di una irregolarità del legame tra uomo e donna, portatrice di una nuova idea di potere all’interno del binomio inevitabile maschile-femminile, e di qui nella società. Le ʻpersonaggeʼ che interpreta sono sempre donne intelligenti, determinate, non allineate, che non solo si pongono sullo stesso piano intellettuale dell’uomo, ma sono in grado di provocarlo affrontandone le conseguenze. Pensiamo a Fosca, la cortigiana del film di Montaldo, che calamita lo sguardo di Giordano Bruno, che solo a lei sembra davvero voler esporre il suo pensiero [fig. 4]. Fosca, nuda e in piedi di fronte al filosofo, parla di potere e di cosa è il potere per le donne. Infine è lei l’unica a rendersi conto della meschinità del Senato veneziano che consegna Bruno al Papa.
Lo specifico fin qui emerso esplode e si sedimenta sotto lo sguardo di Liliana Cavani, che crea con Rampling – campione di amore di perdizione, nevrotica, astratta e insieme dotata di una disperata e vigorosa animalità – il personaggio di Lucia, con cui raggiunge fama mondiale. La sua performance nel Portiere di notte è ancora oggi luogo inevitabile da attraversare per parlare dell’attrice (non a caso nel documentario franco-tedesco a lei dedicato, The Look, diretto nel 2011 da Angelina Maccarone, il capitolo Taboo è incentrato sul film). Abitatrice di tenebre, Rampling esce dall’Hotel zur Oper internazionalmente conclamata grande attrice e presenza carismatica: un portato che le viene dal cinema italiano, che ancora ne sfrutta la carica con Yuppi Du di Adriano Celentano. Film sgangherato ma non del tutto privo di interesse (come attesta parte della critica che lo vede a Cannes nel 1975), a cominciare da Rampling, chiamata ancora a interpretare una frequentatrice del sottosuolo: entra nel film in fotografia (appesa a quella che si crede essere la sua tomba), quindi diventa una presenza fantasmatica che sprigiona una poderosa carica sessuale, celebrata dalla danza a seno nudo che fa con il ʻMolleggiatoʼ. Di qui in poi Rampling esce dal nostro cinema per una carriera clamorosa tra Europa e Stati Uniti, in cui il suo specifico (enigmatico, tendente alla deviazione) cresce in varie declinazioni (si pensi ad esempio a Stardust Memories, The Verdict, Max mon amour e ai film di François Ozon). Nel frattempo il dialogo con il nostro cinema si interrompe. Assenza forse sintomatica di sopravvenuto rifiuto per una tipologia di donna il cui portato di ambiguità, irregolarità ed erotismo finisce per essere considerato qualcosa di così estraneo, addirittura ʻanti-femminileʼ, da non avere trovato più spazio neanche nella nostra immaginazione.
Bibliografia
F. Brignoli, Liliana Cavani. Ogni possibile viaggio, Genova-Recco, Le Mani, 2011.
F. Faldini, G. Fofi, Il cinema italiano d’oggi 1970-1984. Raccontato dai suoi protagonisti, Milano, Mondadori, 1984.
A. Fittante, Questa è la storia. Celentano nella musica, nel cinema e in televisione, Milano, Il Castoro, 1997.
F. Francione, La morte della bellezza. Letteratura e teatro nel cinema di Giuseppe Patroni Griffi, Alessandria, Falsopiano, 2002.
T. Kezich, Il Millefilm. Dieci anni al cinema 1967-1977, Milano, Mondadori, 1983.
E. Lancia, F. Melelli, Le straniere del nostro cinema, Roma, Gremese Editore, 2005.
J. Russell Taylor, ʻTis Pity She’s a Whoreʼ, Sight & Sound, Autunno, 1973.