Negli anni Trenta, a Hollywood, legare il lancio di un film alla promozione di un altro tipo di bene di consumo era una pratica abituale. L’industria americana si lasciava volentieri coinvolgere in iniziative di questo genere, nella consapevolezza che il cinema potesse ottenere un effetto trainante sui consumi. Anche in Italia, tra le due guerre, nonostante le potenzialità del sistema industriale fossero più limitate, ci fu qualche tentativo di legare l’uscita in sala alla vendita di altre merci. Spesso erano le stesse agenzie americane a organizzare la promozione dei film. Ad essere maggiormente sfruttate erano le immagini delle star diffuse sulla stampa femminile, che le mostravano in pose sorridenti pubblicizzare prodotti di bellezza, come il sapone Lux o la crema Ponds. Nel 1936 in occasione della distribuzione in Italia di un film con Shirley Temple, i magazzini Rinascente ospitarono una linea di vestiti per bambine ispirata al look della piccola star (Gundle 2006, pp. 175-96). Il tema dello sfruttamento del cinema a fini promozionali non è stato ancora del tutto affrontato. È stato Stephen Gundel ad offrire un rilevante contributo alla riflessione sulle dinamiche di produzione della Ê»pubblicità del cinemaʼ, indagando i meccanismi di promozione dei film, come le campagne di lancio e le pubblicità. Eppure il discorso andrebbe esteso anche alla rilevanza della pubblicità Ê»attraverso il cinemaʼ, ossia all’apporto che l’apparato audiovisivo ha dato al sistema industriale promuovendo nuovi modelli identitari e stili di vita, dunque nuovi desideri e bisogni indotti. In Italia, per la prima volta proprio negli anni Trenta, alcune attrici iniziarono a dare il loro sostegno personale alle case di moda o a promuovere prodotti fabbricati nel Paese, come accadde a Silvia Jachino, ritratta sulle pagine di Cinema a bordo di una Fiat 500, Ê»la vettura delle stelleʼ. L’intenzione autarchica del fascismo, alla fine del decennio, non riuscì ad esprimersi a pieno nel campo della moda e del design, poiché questi settori anche grazie alla funzione assolta dalla cultura cinematografica nell’economia discorsiva dei messaggi pubblicitari, si rivolgevano ad un pubblico d’élite le cui aspirazioni si proiettavano verso stili di vita eleganti, la ricchezza e l’agio, piuttosto che verso la gloria della nazione fascista. L’economia italiana non era sufficientemente dinamica per permettere al cinema di agire a fondo sull’immaginario collettivo, a differenza di quanto accadrà nel secondo dopoguerra. Eppure fu proprio in quegli anni, e attraverso il coinvolgimento di gruppi ristretti di spettatori, che il cinema iniziò ad agire come orientatore di gusti e desideri.
1. Immagini di una nuova bellezza: le dive nel/del neorealismo
Queste note su Anna Magnani fanno da corollario a un progetto di ricerca dedicato al divismo neorealista e all’identità femminile, che mi ha visto impegnata a indagare il ruolo svolto dalla pubblicistica popolare cinematografica italiana nell’immediato secondo dopoguerra. All’interno di questo scenario ho cercato di analizzare come i rotocalchi abbiano contribuito alla promozione di volti ma soprattutto di corpi femminili ‘nuovi’; in che modo abbiano operato una cesura rispetto al passato, e che relazione abbiano stabilito con la stagione neorealista nonché con le immagini successive del femminile, quelle prodotte a ridosso degli anni del boom (Pierini 2017).
Attraverso lo spoglio di alcune delle principali testate – Star (1944-1946), Film d’oggi (1945-1947), Hollywood (1945-1949), Film rivista (1946-1948), Fotogrammi (1946-1949), Cinelandia (1946), Cinestar (1946-1947) e Bis (1948-49) – ho potuto individuare alcune linee di tensione che riguardano l’esistenza di forme plurime di divismo in epoca neorealista, ciascuna segnata da caratteristiche proprie. Si tratta di uno stardom che in parte assimila (superficialmente) alcune istanze del neorealismo e in parte invece le nega o le contraddice, in dialettica con il cinema hollywoodiano – e che per di più si muove in uno spazio autonomo ed eccentrico rispetto alla produzione cinematografica vera e propria.
All’interno di un panorama sfaccettato – che qui riassumo attraverso due collage di immagini [figg. 1-2] – sono emersi, sul versante propriamente iconografico, due paradigmi per certi aspetti complementari, che rivelano la centralità della donna come dispositivo e motore di imagery. Le copertine dei rotocalchi offrono una variegata galleria di volti, tra cui si riconoscono grandi dive del passato tornate a nuovi onori, attrici di secondo piano sospinte alla ribalta e dive esordienti: in ciascuno di questi casi stupisce l’attenzione per i dettagli, la sottolineatura di toni ora glamour ora naïf, ad assecondare diverse temperature di sguardo e di racconto. I corpi di stelle famose, o di interpreti pressoché anonime, campeggiano invece soprattutto nelle pagine interne o nel retro di copertina; si distendono su superfici insolite, in pose che disegnano geografie del desiderio piuttosto esplicite. In una stagione «di frenesie e di improvvisazioni, […] di fondazioni sistematiche o totalizzanti o di vacue divagazioni» (Pellizzari 2003, p. 469), il corpo femminile gioca un ruolo cruciale: funge da richiamo e, ovviamente, da stimolo e da appagamento di una generica pulsione voyeuristica, ma è anche l’espressione concreta di uno scenario, divistico ma non solo, che è in mutamento e in via di ridefinizione (Pierini 2017).