Letteratura in quarta, ekphrasis rovesciata e leggibilità. Appunti per una semiotica della copertina editoriale

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The aim of this paper is to propose some reflections on the current theoretical debate about the image that has stemmed from disciplines such as Media Theory, Visual Studies and Semiotics. By tackling the relationship between the visual code and the verbal one, the author shall dwell on a specific double-sided object: book covers. Actually, covers as well as paratext can be considered as literary texts in themselves. They are not only individual phrases or visual stories that introduce the text, but also an integral part of a broader literary project, which includes book series, literary genres, back covers, and reviews.

Note introduttive

Obiettivo del saggio è quello di proporre alcune riflessioni riguardanti parte dell’attuale dibattito teorico sull’immagine, sviluppatosi intorno a scienze fra loro correlate come teorie dei media, studi di cultura visiva e semiotica del testo. Il filo del discorso teorico si concentrerà sulle interconnessioni fra aspetti figurativi e linguistici riguardanti uno specifico campo letterario-visivo: quello delle copertine editoriali dei testi di narrativa. La copertina e l’insieme dell’apparato peritestuale, non solo in quanto singoli sintagmi che introducono al testo, ma anche in quanto parti integranti di un più ampio progetto letterario, quello della collana di appartenenza ad esempio, o di genere, come testi brevi (affini alla recensione), possono essere considerati campioni testuali del letterario a tutti gli effetti.

D’altro canto essi sembrano offrire anche una postazione privilegiata per osservare nella ricca varietà delle forme iconico-figurative attraverso cui si manifestano – con funzioni diverse da quelle della saggistica o della letteratura scientifica – il rinvio agli aspetti verbali. Si stabilisce così tra la prima, la quarta e il contenuto del libro un fitto dialogo in cui le parole vengono illustrate dalle immagini, rovesciando la prospettiva retorica dell’ekphrasis, e in cui l’impianto visivo della copertina sembra essere in grado di contenere e riassumere dati di diversa natura, da quelli informativi a quelli narrativi, con richiami intertestuali al mondo delle arti, in una complessa sfera semiotica. Il saggio farà riferimento ad un ampio corpus di copertine di narrativa costruito in occasione della mostra Trenta anni di copertine alla Stranieri. Collane di narrativa in Biblioteca tra il 1950 e il 1980, che si è tenuta all’Università per Stranieri di Perugia nel 2010. Esso verrà poi integrato da esempi attuali.

Il lavoro si svilupperà dunque lungo tre direttive principali:

  • Apparato peritestuale di testi letterari di narrativa

  • Ipotesi teoriche riguardanti i rapporti verbo-visivi

  • Studio e analisi di campioni testuali esemplificativi

L’attuale dibattito sulle immagini offre un panorama particolarmente ricco e sfaccettato avendo ereditato, almeno a partire dagli anni ’80-’90, se vogliamo stabilire una data ab quo, e progressivamente incamerato riflessioni provenienti da ambiti diversi come quello filosofico (Wunenburger),[1] quelli delle Teorie dei media[2] e dei cultural studies, con degli apporti imprescindibili frutto di studi filologici (Pozzi, Segre, Bolzoni)[3] e infine linguistico-semiotici (Greimas, Barthes, compresa l’area della culturologia di Lotman e Uspenskij). Va tuttavia precisato che le immagini di cui qui intendiamo parlare sono quelle giustapposte al testo, che si trovano nello stesso spazio condiviso con il testo, non tanto quindi quelle evocate dal testo o a cui i testi inequivocabilmente rinviano. Anche se spesso, come si vedrà, il processo di lettura sfuma, almeno in parte, questa distinzione che segna qui, in ogni caso, un punto di partenza. L’altra doverosa precisazione è che l’area testuale su cui ci muoveremo è quella letteraria: questo naturalmente limita, mi pare, lo scenario teorico solo in modesta parte sopra accennato, ad esempio non essendo preso in considerazione (almeno in modo diretto, ma solo per eventuali confronti) un terreno d’indagine quale quello dei testi scientifici (dalla saggistica, ai manuali, alle mappe grafiche etc…) che pure ha alle spalle una storia ricchissima che, se assume contorni teoricamente definiti in alcune delle attuali linee di studio (Tufte, Bolter, Elkins McCandless),[4] retrodata la sua origine al periodo della nascita del libro, prima manoscritto e poi a stampa, e presenta dunque pari complessità rispetto alle combinazioni verbo-visive dell’area letteraria. Immagini giustapposte al testo, si diceva, in particolare qui ci si soffermerà, fra i molti, su uno specifico tipo di giuntura: quello che affiora nelle copertine editoriali, le cui forme visive si esprimono a livelli differenti, costituendo un tracciato tra il figurativo e l’astratto, e si manifestano anche come costruzione della pagina: formati, corpo e posizionamento del carattere, equilibri verbo-visivi, e così via. L’intero impianto grafico è, insomma, un potente strumento iconico attraverso cui il testo parla e trasmette informazioni. E le cui forme visive si imparentano alla scrittura, contenendola al loro interno, affiancandosi ad essa per contiguità fisica e contenutistica: la prima, la quarta, i risvolti, le fascette, si richiamano vicendevolmente stabilendo contrappunti di vario genere anche con il contenuto testuale. Ci siamo soffermati ad una porzione del peritesto, ma potremmo, a proposito di rinvii e indicalità, addentrarci anche nell’apparato critico interno, per poi trovare anche nella filiera comunicativa esterna al testo (recensioni, locandine, manifesti, pubblicità) dati interessanti sulle interferenze dei due statuti.[5] In sintesi due sono le strade che si è deciso di percorrere: da un lato la paratestualità editoriale come espressione letteraria e dall’altro come comunicazione mista, frutto di due strategie che da sempre (direi almeno fin dalla nascita dei primi sistemi grafici) si fronteggiano e si trovano a dialogare, e cioè la tradizione del carattere alfabetico, lineare, simbolico, astratto da un lato, dall’altro il versante iconico, che pur presentando aspetti simbolici importanti (come nella tecnica del rebus, ad esempio, in cui l’immagine vale per il suono che produce), sembrerebbe in modo più diretto rappresentare il mondo.

L’impianto peritestuale come documento letterario

Dedichiamo ora qualche riflessione al primo dei segmenti suggeriti, cioè alla letterarietà del peritesto editoriale per delinearne alcuni aspetti. A tal proposito prendiamo come punto di partenza il saggio di Popovič Testo e metatesto che indaga i collegamenti intertestuali con l’intento di cogliere i rapporti modellizzanti fra i testi. Ciò significa che lo studio dei contatti viene affrontato da un punto di vista semiotico, come rapporto tra modelli (‘modello’ del modello, ossia ‘segno’ del segno), facendo un passo in più rispetto al già impegnativo lavoro di descrizione di singoli tipi di relazione stabiliti in base al genere, intrapreso dalle scienze letterarie.[6] La premessa teorica si condensa in una complessa definizione di metatesto che qui, ai fini del nostro ragionamento, ci è utile riprodurre almeno in parte:

Consideriamo allora metatesto un testo tale che «avverta», rimandi a, valuti l’opera altrui. La citazione, la trascrizione, la traduzione ecc. sono un modello del loro prototesto. Il metatesto è un metasegno di un’opera già esistente. Si tratta di una specifica classe di testi intenzionali che «vivono» dell’arte ed esprimono il loro «rapporto» con testi precedenti dell’arte.[7]

Popovič porta come esempio il caso della traduzione, specificando che essa non nasce unicamente come riflesso dell’originale, ma per la sua costituzione risulta determinante il rapporto del traduttore e del creatore con la realtà di appartenenza. Ne deriva una sorta di bidimensionalità comunicativa: da un lato l’ontologia testuale dell’opera alla quale ci si collega e poi l’ontologia del complesso di esperienze dei soggetti creatori, che naturalmente si riflette nell’attività di traduzione. Ciò vale per la traduzione come per tutte le altre forme metatestuali: Popovič a questo punto si sofferma, e veniamo così alla parte che ci interessa ancor più da vicino, sulla seguente catena letteraria: testo  traduzione interlineare  rielaborazione del racconto  annotazione  indicazione bibliografica (titolo dell’opera). Ci sia consentita ancora una precisazione teorica riguardo al titolo: il titolo rappresenta semioticamente, come tiene a sottolineare l’autore, un metasegno che dispensa al lettore istruzioni riguardo al testo sia identificando specifiche informazioni contenute in esso, sia generando informazioni codificate nel testo. Il lettore durante l’attività della ricezione amplia le proprie conoscenze semantizzando anche il titolo nel contesto del messaggio e così esso non solo può essere considerato come una espressione metonimica del tema (pars pro toto), ma «risulta un modello in miniatura dell’opera, e l’autore lo sfondo della sua generazione».[8] Inoltre le altre diverse, più ampie, forme di metatesti, che vanno dall’annotazione fino al riassunto, a seconda del grado di condensazione, forniscono informazioni sul testo sostituendo la comunicazione diretta di esso, tanto che possono essere considerati come una versione abbreviata del protomodello, costruita in funzione dei bisogni del lettore. Essi, i metatesti, si presentano inoltre come «generi artistici autonomi», e Popovič cita a questo proposito come esempio le riduzioni artistico-letterarie illustrate delle opere dei classici per ragazzi, ma anche testi sulla sovraccoperta, o una nota su un’opera, come una pubblicità letteraria, che vivono una vita quasi autonoma. Questo seppur minimo bagaglio teorico acquisito ci consente di poter proiettare la visione semiotica di Popovič identificando nella quarta di copertina, nei risvolti, e, come vedremo nel paragrafo successivo, nella prima, delle forme letterarie metasegniche, che hanno cioè origine dal prototesto, e che ad esso rimandano. Ma come avviene il rinvio? In effetti la lettura del saggio di Popovič ci suggerisce, anzi ci autorizza, a vedere nelle quarte e nei risvolti, e non dimentichiamo, nel titolo, una forma abbreviata del protomodello, che da un lato produce informazioni sul testo, condensandole, e dall’altro si costituisce quasi come apparato critico-letterario autonomo, sintagma di una catena comunicativa che precede il testo, lo segue, a volte lo sostituisce: se studiamo i movimenti di un acquirente in libreria – o nei tanti altri luoghi dove oggi si vendono libri – come attante-soggetto di uno specifico programma narrativo, possiamo sicuramente annotare nel nostro taccuino che egli osserva la copertina, il titolo, soppesa il volume, giunge con l’occhio fino alla quarta e ai risvolti, magari sfoglia le prime pagine del volume, ma poi forse si ferma lì: è possibile che non arriverà mai a congiungersi in modo definitivo con l’oggetto di valore-libro, è possibile, in altre parole, che non arriverà mai ad affrontare il contenuto dell’opera. Ma la quarta, i risvolti, il titolo, l’organizzazione visiva della prima e l’intero impianto grafico sono elementi determinanti delle sue scelte, o delle sue non scelte. Non dimentichiamo infatti che essi spesso rappresentano tutto ciò su cui il lettore può contare, non presentando la narrativa un apparato critico come quello che ad esempio mette a disposizione la saggistica. Che cosa contiene la ‘condensazione’? La quarta e i risvolti non sono esattamente dei riassunti: sono delle rielaborazioni e contengono semmai qualche elemento della trama dei testi che annunciano e identificano, accompagnato dal punto di vista dell’editore, e poi da valutazioni, rimandi, citazioni. Insomma tutto ciò che può rendere appetibile il volume per il lettore. Possiamo far valere per gli spazi editoriali ciò che Borges attribuisce al prologo:

Nella triste maggioranza dei casi confina con l’oratoria del dopotavola o con i panegirici funebri e indulge a iperboli irresponsabili che la lettura incredula ammette come convenzioni del genere. Ma quando gli astri sono propizi non è una forma subalterna del brindisi; è una specie collaterale della critica.[9]

E gli astri spesso sono propizi, molto propizi, pensiamo a Vittorini, a Manganelli, a Calvino, a Sciascia, a Davico Bonino, a Calasso, fino al Borges critico, quando sono quarte, risvolti o recensioni (o altro, seguendo l’impostazione teorica di Popovič – se riteniamo di averne bisogno – come le note editoriali, le fascette, le presentazioni pubblicitarie, i segnalibri e tutto il circuito critico epitestuale); ma, oltre ai testi d’autore, pensiamo anche a quelli che sono frutto del lavoro redazionale i quali stringono un patto fiduciario con il lettore, rappresentano un atto di responsabilità rispetto al progetto letterario di collana da parte della casa editrice. Prendiamo nel vasto panorama, tra i tanti che potremmo citare, Il delitto di lord Arturo Savile di Oscar Wilde, il cui risvolto è curato da Leonardo Sciascia per la collana La memoria da lui stesso fortemente voluta:

Questa traduzione di Lord Arthur Savile’s Crime, pubblicata da Federigo Verdinois nel 1908, si ristampa, oltre che per l’umoristica e ironica sfaccettatura che offre di una credenza oggi in ritorno e in crescita, come pretesto a una rievocazione del soggiorno di Oscar Wilde a Napoli su cui finora nemmeno i biografi più attenti dello scrittore sembrano avere sufficienti informazioni.[10]

Il precipitato linguistico di poche righe suggerisce le coordinate spazio-temporali del testo, illustra l’obiettivo editoriale (la tematica è trattata con umorismo e coglie anche una tendenza di attualità), infine si sofferma sul topic centrale, vale a dire la presenza di Oscar Wilde a Napoli che trova ‘impreparati’ persino i suoi più attenti biografi. Poche parole di limpida chiarezza. Altri spostano di più l’accento sul commento critico:

Sarebbe difficile, per chi non ne è stato testimone, immaginare oggi la violenza dello scandalo internazionale, per oltraggiata pruderie, che Lolita provocò al suo apparire nel 1955. […] E tale è l’abitudine alla sciocca regola secondo cui ciò che fa chiasso è inevitabilmente sprovvisto di una durevole qualità letteraria, tanta era allora l’ignoranza dell’opera di Nabokov che solo pochi capirono quel che oggi è un’evidenza dinanzi agli occhi di tutti: Lolita è non solo un meraviglioso romanzo, ma uno dei grandi testi della passione che attraversano la nostra storia, dalla leggenda di Tristano e Isotta alla Certosa di Parma, dalle canzoni trobadoriche ad Anna Karenina. Ma chi è Lolita? Questa «ninfetta» (geniale invenzione linguistica di Nabokov, poi degradata nell’uso triviale, quasi per vendetta contro la sua bellezza) è la più abbagliante apparizione moderna della Ninfa, uno di quegli esseri quasi immortali che furono i primi ad attirare il desiderio degli Olimpi verso la terra e a invadere la loro mente con la possessione erotica.[11]

Al lettore viene offerta una valutazione sull’opera: Lolita è un romanzo d’amore – scrive Calasso – e rappresenta uno dei segmenti dell’asse passionale che ha attraversato la letteratura. Ciò che qui interessa rimarcare, tuttavia, non è solo la presentazione al lettore della grandezza di Nabokov, o la struttura compositiva della quarta, o dei risvolti, a seconda dei casi, in equilibrio tra informazione e commento, quanto piuttosto il fatto che essi mettano in atto una profonda solidarietà intertestuale (Lolita, Isotta, Anna Karenina), sulla scorta della quale l’opera viene letta alla luce di disegni più ampi: quello di collana, ad esempio, come anche quello del ‘sistema letteratura’. Il particolare dunque è traccia e testimonianza del generale, si potrebbe dire, oppure il generale si mostra attraverso il particolare. La letteratura è un insieme di relazioni: questo è il genere di lettura che l’apparato peritestuale suggerisce al lettore. Citavamo poc’anzi il Borges critico, ad esempio il Borges di Testi prigionieri (1996), una raccolta di recensioni, note informative, biografie sintetiche su libri e autori stranieri, che lo scrittore tra l’ottobre del ’36 e il luglio del ’39 aveva curato per la rivista femminile «El Hogar», molto diffusa presso la medio-alta borghesia della capitale argentina. Mai miglior testimonianza di dialogo intertestuale che, veicolato con energia, anche, dagli spazi editoriali del libro, concretizza il concetto di letteratura come sistema, e come ragnatela di riscritture. Citiamo almeno un esempio:

La signora trasformata in volpe, il primo racconto di Garnett, è del 1923. Rinnova totalmente il genere fantastico. A differenza di Voltaire e di Swift, Garnett evita ogni intenzione satirica; a differenza di Edgar Allan Poe, la réclame dell’orrore che sta proponendo; a differenza di H.G. Wells, le giustificazioni razionali e le ipotesi; a differenza di Franz Kafka e di May Sinclair, ogni contatto con l’atmosfera tipica degli incubi; a differenza dei surréalistes, il disordine. Il successo fu quasi immediato.[12]

La condensazione nella sua rapida e illuminante sintesi (interessante esempio anche dal punto di vista del giornalismo letterario) contiene un compendio di letteratura fantastica e conferma quello che è di già negli anni ’30, e sarà poi, uno dei grandi tratti della filosofia letteraria di Borges: ogni testo è metatesto e prototesto (torna insistente Popovič), è riscrittura e modello per successivi altri. È una scacchiera di contrappunti e corrispondenze, che pazientemente costruisce la competenza del lettore e stimola il suo orizzonte di attese. Borges è Borges si dirà. Eppure il sistema delle recensioni, delle biografie sintetiche, delle note editoriali costituisce un unico filone con le quarte, i risvolti, i segnalibri (santini laici, li definisce Salvatore Silvano Nigro, parenti volanti dei risvolti), tasselli diegetici della storia comunicativa del libro, del progetto editoriale che lo accoglie, che a dispetto del ristretto perimetro in cui si trovano collocati, sono in grado di attivare giunture tra presente e passato (ogni nuova lettura è un atto creativo), ma anche richiami interdiscorsivi sincronici: grammatiche alla luce delle quali leggere la poetica dell’autore. A questo proposito, tornando a Sciascia, si pensi a quanto l’incessante opera del critico per la amatissima casa editrice palermitana, con quarte, bandelle, segnalibri, e, non dimentichiamo, illustrazioni di copertina, sostenga e, passo dopo passo, sveli quella dello scrittore creativo, quella dell’editore per ‘hobby’-consigliere dei Sellerio, quella del lettore guidato dal plaisir du texte, e infine, quella dell’uomo impegnato nelle forti battaglie civili. In conclusione quindi gli spazi critici non solo danno luogo a echi e richiami letterari che travalicano lo spazio di scrittura a loro riservato, ma producono una dialogicità che avvolge interamente l’oggetto-libro, dalla prima alla quarta, compresi i risvolti, volanti o meno. Sciascia, come anche Vittorini o Manganelli, ad esempio, spesso hanno seguito l’intero processo indicando persino, più o meno tassativamente, la tipologia di immagine da apporre al volume. «Per il disegno di copertina potrei avanzare qualche proposta? (Mi piacerebbe un disegno di Maccari: se credi posso occuparmene)». Siamo nel 1957, in occasione della pubblicazione degli Zii di Sicilia di Sciascia presso Einaudi.

La veste editoriale è un sistema semiotico

Siamo giunti così con le illustrazioni di copertina al secondo dei punti su cui intendiamo soffermarci: gli elementi visivi del peritesto. Gli spazi editoriali del libro sono infatti composti da aspetti linguistici che s’incrociano con quelli plastici e illustrativi. Si tratta di due aggettivi che riguardano il visivo, ma che, (anche) parlando di libri, occupano uno spazio semantico diverso e sono, a volte, progettati da soggetti diversi: il primo ha a che fare con il grafico che si occupa della pagina e della regia visiva dell’intera veste editoriale e il secondo con l’illustratore di copertina, colui che si occupa di scegliere, suggerire, realizzare la tipologia di immagine da sistemare negli spazi liberi dalle scritture. La duplice aggettivazione offre l’opportunità di entrare nel campo iconico mostrando come le immagini, quelle che fanno di un libro anche un oggetto fisico, visivo, si manifestino sotto forme assai differenti. La pagina con la sua architettura è di già una forma visiva, che possiamo guardare prima ancora che leggere; l’uso, la distribuzione e il corpo dei caratteri grafici, dei cromatismi (non a caso diciamo il blu di Sellerio, il bianco di Einaudi, il grigio della BUR), e delle cornici all’interno di uno spazio generano anch’essi un effetto visivo, fatto di proporzioni, di equilibri e, ciò che conta, di corrispondenti significati. Ciascuno di questi elementi va infatti letto, lo vedremo, come segno facente parte di una sintassi più ampia. Poi ci sono le altre immagini, quelle che sembrerebbero presentare una più immediata e riconoscibile analogia con la realtà: le copertine ricorrono spesso a immagini pittoriche, fotografiche, o tratte dal mondo pubblicitario, o dal campo giornalistico ad esempio. Aggiungiamo che le lettere, i caratteri tipografici, le parole, nell’impianto peritestuale, sono spesso trattati pittoricamente, quando si manifestano sotto forma di collage o fotomontaggi nel senso utilizzato dai futuristi, dadaisti e altre avanguardie. Certo recuperando una tradizione antica di secoli, che vede la lettera farsi portatrice di immagine, contenendola al suo interno, come nei capilettera degli incunaboli illustrati e prima ancora nei manoscritti, assumendo essa stessa ‘gestalticamente’ i contorni e le forme di figure antropomorfe, di fiori, di animali e di altri oggetti di uso comune, come negli alfabeti figurati che hanno costruito percorsi paralleli a quelli della scrittura. La copertina, insomma, attira su di sé ogni tipo di esperienza grafica e tipografica, traducendola in esperienza visiva, tattile, plastica, sinestesica. Per questa prima distinzione individuata seguiamo sostanzialmente almeno due basilari filoni di studi semiotici sul visivo, e cioè Peirce e Greimas.[13] Diciamo allora che la peritestualità visiva si presenta a differenti livelli organizzabili lungo un asse i cui estremi vedono da un lato, elementi che Greimas definisce plastici (linee, forme, contorni, cornici, colori), e dall’altro figurativi: forme riconoscibili che mostrerebbero una distanza più raccorciata dal mondo. La distinzione è a nostro avviso importante perché permette di inserire in una operazione di lettura della copertina elementi che potrebbero essere collocati in posizione secondaria, come puro gioco decorativo. E che invece stabiliscono un interessante richiamo con gli elementi figurativi – dove presenti –, con gli aspetti linguistici – critici e contenutistici – e infine, con il progetto generale di collana. Portando subito in campo qualche campione esemplificativo, tra le collane italiane dedicate ai classici della letteratura, si pensi alla storica Medusa di Mondadori.[14] Qui si punta tutto sui caratteri i quali, circondati da una elegante cornice, emergono su un campo cromatico chiaro e libero. L’impianto grafico predisposto da Giovanni Mardersteig è costituito dalla ormai famosa cornice verde che racchiude tre spazi rettangolari: il primo in alto con il nome della collana, a seguire il secondo, che occupa gran parte della copertina con il nome dell’autore, il titolo dell’opera e in basso l’altrettanto famoso logo di Bruno Angoletta (una medusa dai tratti gentili), infine il terzo, con l’indicazione della casa editrice. Inaugurata nel 1933, con Il grande amico di Alain-Fournier, il progetto editoriale intendeva offrire agli italiani una panoramica sulla letteratura internazionale contemporanea, facendo uscire la traduzione italiana quasi parallelamente all’edizione originale. Ecco un esempio chiaro di copertine che mettono in scena opere di narrativa classica e che traducono il progetto culturale della collana marcando volutamente l’assenza dell’immagine e guidando così l’attenzione dei fruitori sul testo: la classicità narrativa viene interpretata e trasmessa attraverso una sobrietà di fondo, caratterizzata da una pulizia grafica e un silenzio iconico che facilitano l’accesso al contenuto evitando possibili ‘distrazioni’. Selezioniamo ad esempio il volume contenente l’Ulisse di James Joyce del 1960, anno in cui la direzione della collana è già di Vittorini. Che tipo di dialogo si instaura fra i vari segmenti peritestuali? L’apparato tipografico nella sua essenzialità stringe un chiaro collegamento con i risvolti, il primo dei quali illustra e contestualizza l’opera, e comincia così:

Ulisse è l’opera che, quarant’anni fa, ha completamente trasformato e rinnovato i moduli della prosa narrativa non soltanto inglese. In essa Joyce ha riscoperto che la forma del romanzo è l’equivalente e l’erede nell’era moderna dell’epica classica, con in più un costante e disincantato elemento di humour che ridimensiona il mito adeguandolo alla presente condizione umana.

Il secondo risvolto presenta un’accurata biografia dell’autore. Il titolo viene «semantizzato» (ricordate Popovič?) dai risvolti e il lettore dunque ha tutto ciò che serve per entrare nel testo, la cui complessità sembra essere compensata dall’equilibrio dell’impianto grafico. Il gioco di cornici riproduce metaforicamente, riprendendolo dai classici frontespizi, la funzione di porta che immette nel contenuto: si alzi il sipario, incomincia lo spettacolo. La quarta è verde e totalmente pulita, libera da segni grafici o linguistici. In sintesi dunque le linee, i bordi che danno luogo alle tre composizioni rettangolari non rappresentano unicamente una griglia decorativa, un puro estetismo, ma significanti che producono corrispondenti significati: l’equilibrio e la semplicità delle forme aniconiche sono predisposte per la comunicazione della letteratura classica mondiale; classicità delle forme versus classicità letteraria.

Dialoghi intertestuali in copertina

Ma facciamo ora un passo in avanti per capire come funziona l’organizzazione visiva del libro e la varia tensione fra testo e immagine che esso presenta. Nell’ampio panorama di studi che caratterizza oggi il dibattito sulle immagini, che va sotto il nome di cultura visuale (associato all’iconic turn, visto soprattutto in relazione di contrasto con il linguistic turn, e si citano in genere Mitchell e Rorty come i loro rispettivi propulsori),[15] si va incrementando una linea molto interessante intorno alle immagini cosiddette ‘informative’ (informational images), che si trovano all’estremo opposto rispetto a quelle figurative, pittoriche, di cui si è parlato poco fa. Si tratta di un’area iconica che si situa nel terreno dei grafi, dei diagrammi, delle mappe, delle carte, degli atlanti, delle proiezioni statistiche, degli schemi e così via. Immagini scientifiche vengono definite, che accompagnano testi scientifici, ma oggi sempre più spesso persino giornali o riviste.[16] Alla luce della recente proposta di McCandless[17] che attribuisce ai progetti di visualizzazione della information graphics la capacità di riassumere e fissare una smisurata quantità di dati anche complessi di diversa provenienza (ma vogliamo ricordare che già Eco nel ’73 suggeriva di individuare nei diagrammi-icone di Peirce dei segni in cui la forma grafica traduce visivamente i concetti), siamo in grado di identificare con maggior consapevolezza nella copertina editoriale un organismo iconico in grado di assorbire, filtrare ed esprimere dati differenti e di assolvere ad una pluralità di funzioni comunicative. La copertina diventa allora una mappa, un luogo strategico che fornisce al lettore istruzioni e informazioni che facilitano la lettura del testo. E che indica i possibili spostamenti tra le porzioni del peritesto: da quelli di collana, a quelli autoriali, a quelli critici. Ma la veste editoriale assume anche le sembianze di uno spazio in cui transitano e si depositano esperienze culturali e visive, di volta in volta selezionate, e adatte ai temi trattati. In sostanza sulla scorta dell’information graphics potremmo definire la copertina uno spazio planare (cioè fatto di immagini fisse) che tuttavia incorporando la bi-tridimensionalità dell’oggetto libro, si trasforma in spazio a più dimensioni. Ad esempio quello derivato dai movimenti geometrici, tipografici, iconici, quali primi piani e sfondi, centro e periferia, verticalità e orizzontalità dei tratti e dei formati, che in sintesi, richiamandoci anche alla prospettiva greimasiana, definiamo l’organizzazione plastica della pagina. C’è di più naturalmente. Nella prospettiva che qui stiamo indicando di peritesto come spazio ‘accogliente’ che si apre alle esperienze culturali e le rappresenta visivamente, un ruolo importante è anche quello svolto dalle traduzioni – trasmigrazioni audio-visive dei testi (digitali, cinematografiche, televisive, teatrali): dalla carta ai media e poi di nuovo alla carta. Anzi a volte è proprio la sfera mediatica a decidere del successo editoriale dei testi, ad esempio attribuendo tratti e caratteristiche fisiche (cioè narrative) ai personaggi che poi la veste grafica filtra, rilegge e ricrea. Un caso particolarmente interessante a questo proposito, tra i tanti possibili, è dato dalle copertine italiane, e non solo, di Lolita di Nabokov (1955) che, a partire dalla prima edizione mondadoriana per la Medusa del 1959, quindi nel rispetto delle regole della collana, come si è visto, senza soggetto figurativo rappresentato, ha subito successive trasformazioni affiorando in superficie con la sua personalità proprio a partire dal film di Stanley Kubrick del 1962 (che seppe catturare magistralmente la forza ‘letteraria’ della protagonista) tanto nella traduzione visiva che, parallelamente, in quella verbale delle quarte. La versione per Adelphi (1996), a tutt’oggi rimasta immutata, mostra nell’immagine al centro della pagina un fotogramma filmico di Kubrick, con James Mason e Sue Lyon. In quarta Pietro Citati, subito dopo lo scintillante incipit del romanzo, scrive:

Dopo trentasei anni, rileggo Lolita di Vladimir Nabokov [...]. Trentasei anni sono moltissimi per un libro. Ma Lolita ha, come allora, un’abbagliante grandezza. Che respiro. Che forza romanzesca. Che potere verbale. Che scintillante alterigia. Che gioco sovrano. Come accade sempre ai grandi libri, Lolita si è spostato nel mio ricordo. Non mi ero accorto che possedesse una così straordinaria suggestione mitica.

Il frame della copertina sottolinea la fisicità dei protagonisti traducendo visivamente il legame tra il professore e Sue, e, in sintonia con le parole di Citati, prepara l’accesso del lettore all’universo letterario del testo. In questo caso la dialogicità intertestuale (libro-film) trova una resa immediata in copertina con il rinvio a una immagine conosciuta. Altre volte il rinvio è meno diretto, pur facendo ricorso a tratti consolidati della nostra enciclopedia visiva: nella versione ancora per Adelphi del 1993 troviamo un dialogo tra letteratura e pittura. La scelta delle immagini (pitture, disegni, fotografie, mai commissionate, ma prelevate dal bacino esistente) è sempre stata in Adelphi un lavoro compiuto con grande accuratezza, con l’obiettivo di richiamare il contenuto del testo, anzi di più, di rispecchiarlo in modo da offrire al lettore una sintesi visiva. Una chiara rappresentazione visiva del romanzo. Qui l’immagine selezionata costruisce una triangolazione semiotica perfetta con la quarta che sottolinea la violenza dello scandalo prodotto al suo apparire, ma al tempo stesso, come si è visto, la straordinaria forza del romanzo che si inserisce nella trama passionale della nostra storia letteraria, e, infine, punta l’obiettivo su Lolita, abbagliante apparizione moderna della Ninfa che ha stregato Humbert Humbert. Se osserviamo infatti l’immagine, di Jean-Jacques Henner del 1879, un particolare femminile di rappresentazione pastorale (Églogue), essa mostra una delicata immagine femminile che nella sua nudità può richiamare lo scandalo, ma si allontana in modo netto dalla rappresentazione banale dell’erotismo spesso volgare che è stato attribuito alla protagonista[18] e di cui, ma è ovvio ricordarlo, non si trova traccia nel romanzo. La pittura suggerisce una modalità di lettura del testo, la modalità più profonda e ricca. Lo capiamo dalle parole di Calasso che qui di seguito riportiamo:

Perché chiunque sia «catturato dalle Ninfe», secondo i Greci, è travolto da una sottile forma di delirio, lo stesso che coglie l’indimenticabile professor Humbert Humbert per la piccola, intensamente americana Lolita. America, Lolita: questi due nomi sono di fatto i protagonisti del romanzo, scrutati senza tregua dall’occhio inappagabile di Humbert Humbert e di Nabokov. Realtà geografica e personaggio sono arrivati a sovrapporsi con prodigiosa precisione, al punto che si può dire: l’America è Lolita, Lolita è l’America. E tutto questo, come solo avviene nei più grandi romanzi, non è mai dichiarato: lo scopriamo passo per passo, si potrebbe dire miglio per miglio, lungo un nastro senza fine di strade americane punteggiate di motel. Lolita apparve per la prima volta in inglese nel 1955 e solo dodici anni più tardi nella versione russa dello stesso Nabokov.
Copertine delle varie edizioni di Lolita: Mondadori (Medusa), 1959; Mondadori (Gli Oscar), 1970; Anagrama (Compactos), 1991; Adelphi (Biblioteca Adelphi), 1993; Penguin (Modern Classics), 2000

Per la costruzione del personaggio Lolita l’influenza cinematografica è stata, direi, molto importante. Se l’attenzione dedicatale negli apparati critici è condivisa alla pari con il protagonista maschile, nelle rappresentazioni visive è decisamente lei che prende il sopravvento, istituendo una continuità, si direbbe, tra libro e film. Ad osservare con attenzione la galleria di immagini composta dalle copertine di Nabokov nella loro totalità, dalla nascita fino ai nostri giorni, vediamo che dal ’62 in poi Lo, Dolly, Dolores, Lola, Lo. Li. Ta., sono via via tutte rappresentate e in grande maggioranza ricorrono ai dettagli filmici declinati in varie versioni: i calzini con cui tanto Nabokov che Kubrick annunciano la sua presenza e il comporsi della storia, e poi gli occhiali a cuore. Dalla prima italiana del ’59 per la Medusa (che è molto vicina graficamente a quella apparsa a Parigi nel ’55) il romanzo guadagna la sua grandezza (Mondadori l’aveva del resto individuata con grande intuito) e Lolita, la ragazzina intensamente americana, esce da una sorta di anonimato figurativo per entrare nell’universo letterario.

Per concludere. Parole che illustrano l’immagine o immagini che illustrano le parole?

Le copertine dunque ricostruiscono una seconda storia, quella per immagini che passo dopo passo si dipana dal momento dell’uscita del romanzo fino ai nostri giorni. Ed esse possono funzionare, nei casi studiati funzionano, in qualità di sintesi visive dei testi: dei risvolti o delle quarte, come del contenuto, insomma un ulteriore modo a cui affidare e comunicare il romanzo. Come possiamo vedere parzialmente anche dagli esempi sopra riportati, il rinvio allo scritto è prodotto per dettagli metonimici, o per sintesi a volte metaforiche, in ogni caso attraverso una prospettiva diegetica: si seleziona un frame che ‘sta per’ la narrazione, come richiede il perimetro spaziale a disposizione. La farfalla della Penguin, che campeggia sullo sfondo grigio chiaro, costituisce ad esempio un elemento metaforico rinviando sicuramente a Lolita, ma anche a Nabokov, appassionato entomologo; gli occhiali a cuore della casa editrice spagnola riprendono più da vicino l’aspetto filmico e sintetizzano Lolita tramite un suo particolare; in Adelphi la scelta pittorica costruisce un rimando metaforico al romanzo, e al contempo illustra molto bene la quarta; la rappresentazione colorata degli anni ’70 per Mondadori, di Bruno Binosi, si lascia più influenzare dal linguaggio pubblicitario, e restituisce Lo in modo fresco e sgargiante con le sole gambe in primo piano; infine con la Medusa non abbiamo la ricostruzione visiva dei personaggi, ma si punta piuttosto alle assiologie della collana, con un’operazione intelligente che include Nabokov nella classicità letteraria. Ma come leggere questi frammenti di immagini in copertina rispetto alla scrittura? Si direbbe che sia ancora la retorica ad indicarci la strada per dipanare i fili peritestuali che legano i due sistemi.

Proponiamo qui tuttavia una breve sintesi del percorso fino ad ora compiuto per poi tornare alla prospettiva retorica. Siamo partiti dalle quarte e dai risvolti e si è visto che, a dispetto dello spazio ridotto a loro disposizione, sono documenti letterari molto spesso di grande respiro, luoghi dove si è esercitata la grande scrittura. Guidati dalla teoria dei metatesti ne abbiamo evidenziato alcune funzioni: essi (quarte e risvolti) annunciano, riassumono, rispecchiano il contenuto. Si è poi notato come le immagini siano legate agli aspetti scrittori e anzi facciano parte imprescindibilmente dell’apparato. Abbiamo allora cercato di contenere le infinite varietà di esperienze visive che compaiono in copertina incanalandole soprattutto in prospettiva semiotica: da un lato con Peirce che amplia il campo di indagine segnica, mostrando come le icone presentino aspetti fortemente convenzionali, e quindi superando il concetto di immagine che stringe un rapporto di pura analogia con la realtà, e dall’altro con Greimas, il quale si interroga sugli aspetti plastici dell’immagine, evidenziando come l’intelaiatura composta di linee o tratti o colori sia un sistema semiotico a tutti gli effetti. Dunque le immagini sono segni e in quanto tali sono leggibili e interpretabili. Sono esse soggetti attivi, e richiedono soggetti attivi: qui non possiamo non citare il volume di Mitchell What Do Pictures Want?[19] che va espressamente in tale direzione. Ne derivano per l’impianto iconico di copertina conseguenze importanti: le immagini non sono una presenza estetica che strizza l’occhio al lettore subdolamente, quanto piuttosto un campo segnico dove ogni elemento produce significato e dove anche contributi grafici quali cornici, porte, finestre, linee, tratteggi e aspetti tipografici rispondono a precisi obiettivi testuali e rappresentano un tassello di una sintassi più generale, quella del volume e della sua leggibilità. Le immagini, inoltre, richiamano altre immagini, così dalle copertine editoriali (oggi anche le trasmissioni televisive sono dotate di una loro ‘copertina’) si passa ad altri eventi visivi, quelli del cinema, ad esempio, della televisione, quelli insomma della iconosfera in cui siamo inseriti: si compete con essi, si stabiliscono richiami fra le forme figurali e si intensifica il loro rapporto con le arti linguistiche. La copertina dunque può essere studiata come un organismo in grado di accogliere e filtrare esperienze iconiche e scrittorie di vario tipo, e qui abbiamo inserito per una possibile pista di lettura del peritesto, l’area di ricerca che ruota intorno alla information images di McCandless, tra gli altri.

Infatti così come i procedimenti grafici, intendiamo l’infografica, di cui si è accennato nei paragrafi precedenti, anche il trattamento grafico editoriale, o illustrativo producono parole: non tanto nel senso che per essere spiegati hanno bisogno di parole, quanto piuttosto per il fatto che sostituiscono le parole, come nella antica, antichissima tecnica del rebus (presente nei sistemi egizi o mesopotamici, ad esempio) e oggi nei media digitali. Questo aspetto che abbiamo, in modo più o meno esplicito, trattato in più punti nel corso del presente lavoro, e che risulta ora più evidente alla luce dei dialoghi multipli che l’apparato peritestuale intrattiene con il mondo artistico, potremmo senz’altro definirlo come ‘ekphrasis rovesciata’. Infatti se per ekphrasis si intende quel procedimento per mezzo del quale con le parole si tenta di ricostituire l’immagine, proponendo ciò che è legato al senso della vista e alle altre esperienze sensoriali, nei campioni qui analizzati si verifica esattamente il processo contrario: le immagini stanno per le parole.[20] La fascia peritestuale, come una finestra di grafica informativa, parla (descrive e narra) producendo informazioni, al posto di, e di concerto con le parole. Se ad esempio riprendiamo la pittura di Jean-Jacques Henner, la presenza della figura femminile lavora proprio così. La raffigurazione rende ragione della nota critica di Calasso (la spiega) e poi del contenuto testuale. La Lolita-Musa-Ninfa funziona prima e dopo la lettura del romanzo: funziona per l’acquirente in libreria (lettore virtuale) che si orienta sugli spazi ‘esterni’ a disposizione, ma funziona anche per il lettore reale, quello che ha letto il libro e può tornare così al titolo (Popovič) e all’immagine (McCandless, Mitchell) con maggior consapevolezza. Anche quando la peritestualità si esprime rinunciando all’immagine e l’iconicità è data dai soli contorni grafici, come nella Medusa, anche in questo caso è presente, in modo più sottile forse, lo stesso espediente retorico: la composizione grafica trasmette al lettore il contesto progettuale e culturale in cui il volume, quel volume, è stato inserito e ne determina inequivocabilmente una lettura. Dunque se la parola dipinge, l’immagine racconta i molti fili narrativi che densi e consistenti fluttuano in copertina.


1 Cfr. J.J. Wunenburger, La vita delle immagini [1995], trad. it. di R. Castoldi, Milano, Mimesis, 2008; Id., Filosofia delle immagini [1997], trad. it. di S. Arecco, Torino, Einaudi, 1999.

2 Si veda il recente R. Simone, Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Milano, Garzanti, 2012.

3 Cfr. G. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, Milano, Adelphi, 1993; C. Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985; L. Bolzoni, La rete delle immagini, Torino, Einaudi, 2002. Per una ricognizione sul tema riguardante il rapporto fra letteratura e visualità si veda inoltre M. Cometa, Parole che dipingono. Letteratura e cultura visuale fra Settecento e Novecento, Roma, Meltemi, 2004.

4 Cfr. E. Tufte, Visual Explanations. Images and Quantities, Evidence and Narrative, Cheshire CT, Graphics Press LLC, 1983; Id., Beautiful Evidence, Cheshire CT, Graphics Press LLC, 2006; Y.D. Bolter, Lo spazio dello scrivere. Computer, ipertesto e la ri-mediazione della stampa [2001], trad. it. di S. Galli, Milano, Vita e Pensiero, 2002; J. Elkins, Visual studies: a skeptical introduction, New York, Routledge, 2003; D. McCandless, Information is beautiful. Capire il mondo al primo sguardo, trad. it. di D. Didero, Milano, Rizzoli, 2011.

5 Facciamo qui ricorso alla nota distinzione di Gérard Genette tra peritesto, composto dagli elementi paratestuali che circondano il libro ed epitesto, che consiste invece negli elementi esterni al libro (interviste, recensioni, lanci pubblicitari, ecc.). Cfr. G. Genette, Soglie: i dintorni del testo [1987], trad. it. di C. Cederna, Torino, Einaudi, 1989.

6 A. Popovič, Testo e metatesto [1973], in C. Prevignano (a cura di), La semiotica nei paesi slavi. Programmi, problemi, analisi, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 526. Si dirà forse datato il riferimento a Popovič. Se lo è cronologicamente non lo è dal punto di vista dei contenuti ancora ‘energici’, né da quello della metodologia di pronta efficacia applicativa. Il testo di Popovič ha dato inoltre luogo ad una serie di successivi e importanti studi tra cui ricordiamo L. Doležel, Heterocosmica. Fiction e mondi possibili [1998], trad. it. di M. Botto, Milano, Bompiani, 1999.

7 A. Popovič, Testo e metatesto, cit., p. 526.

8 Ivi, p. 533.

9 J.L. Borges, Prologhi [1975], trad. it. di L. Lorenzini, Milano, Adelphi, 2005.

10 L. Sciascia, Risvolto a O. Wilde, Il delitto di lord Arturo Savile, Palermo, Sellerio, 1979, in S.S. Nigro (a cura di), Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di fare libri, Palermo, Sellerio, 2003, p. 52.

11 R. Calasso, Cento lettere a uno sconosciuto, Milano, Adelphi, 2003, pp. 198-199.

12 J.L. Borges, Testi prigionieri [1996], trad. it. di M. Daverio, Milano, Adelphi, 1998.

13 Cfr. C.S. Peirce, Collected Papers of Charles Sanders Peirce, VIII, a cura di C. Hartshorne, P. Weiss, A. Walter Burks, Cambridge MA, Harvard University Press, 1931-1958 (soprattutto II e III); A.J. Greimas, Sémiotique figurative et sémiotique plastique, «Actes sémiotiques-Documents», 60, 1984, pp. 1-20.

14 Gli esempi di editoria ‘classica’ a cui facciamo riferimento nel saggio, fanno parte – nella quasi totalità – dell’archivio raccolto in occasione di una mostra sulle copertine editoriali dei testi di narrativa, Trenta anni di copertine alla Stranieri. Collane di narrativa in Biblioteca tra il 1950 e il 1980, che si è tenuta all’Università per Stranieri di Perugia nel 2010 e i cui materiali ora sono stati pubblicati nel volume Letteratura in copertina. Collane di narrativa in biblioteca, Bologna, Fausto Lupetti Editore, 2012.

15 Cfr. W.J.T. Mitchell, Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, a cura di M. Cometa, Palermo, :duepunti Edizioni, 2009; R. Rorty, The linguistic turn: recent essays in philosophical method, Chicago, University Press of Chicago, 1981.

16 In particolare ci riferiamo agli studi di Elkins, Tufte, Bolter, McCandless che, se pure con prospettive diverse, sono accomunati da uno stesso interesse al ‘riequilibrio’ del visivo.

17 Cfr. D. McCandless, Information is beautiful, cit.

18 Si vedano i giudizi critici sul romanzo pubblicati in appendici all’edizione inglese Corgi, del 1961, molti dei quali orientati a dare una smentita a qualsiasi giudizio di volgarità. Ad esempio, Vittorini aveva affermato: «Only illiterate bigots or dimwits could find anything offensive or scandalous in this novel».

19 Cfr. W.J.T. Mitchell, What Do Pictures Want? The Lives and Loves of Images, Chicago, University of Chicago Press, 2005.

20 Sulla definizione di ekphrasis in questo contesto si è tenuto conto degli studi di J.D. Bolter, Writing Space. Computer, Hypertext and the Rimediation of Print, cit. e di K. Murray, Ekphrasis. The illusion of the natural sign, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1992.