Il volto di Pasolini si erge, frontalmente, dinnanzi all’osservatore con la tagliente severità del poeta che guarda le cose e le trasforma in opera di poesia. Accattone, invece, interpretato da Franco Citti e ritratto alle spalle del regista, condensa nella sua triste posa l’immagine di un sottoproletariato senza speranza, in cui non si dà redenzione ma solo morte.
Il film, commenta Levi nella Prefazione alla sceneggiatura, «è, con chiara evidenza, l’opera di un poeta», in cui risalta un’«autenticità diretta», garantita non tanto dalla scelta di personaggi «veri» quanto «da una identificazione che non consente diaframmi estetizzanti». A ciò concorre un uso sapiente della «soggettiva libera indiretta» che mescola – come si evince dal saggio Il cinema di poesia, confluito poi in Empirismo eretico – lo sguardo dell’autore con quello del personaggio, al fine di sganciare dai moduli prestabiliti del cinema ‘classico’ il nuovo cinema di poesia, fondato sull’esigenza di unire la mimesi del personaggio alla libertà di stile propria dell’autore. Si effonde così nell’opera una vena espressionistica fatta di «rumore e furore» che scorre in modo sotterraneo lungo tutto l’arco della narrazione per affiorare nei suoi momenti più intensi. «Due volte – chiarifica Levi – scoppia, assurda e inattesa, una risata, che è il grido della vitalità pura nei momenti più neri di un mondo di solo bisogno».
Nell’atto creativo di Accattone Pasolini ricerca conseguentemente un linguaggio che non è ancora «parola espressiva», ma «pre-espressione», nonostante sussista una veste verbale che si ammanta di una consolidata tradizione dialettale. Secondo Levi, come ha magistralmente chiarito in Paura della libertà (1946), primo saggio teorico dedicato alla morfologia del nazifascismo, la parola poetica risplende solamente in un mondo libero e cosciente di sé, in cui il soggetto, svincolatosi dalle forme oppressive della religione, si apre alle calde forme del rapporto amoroso con l’alterità nel nome di una sacra informità prenatale. Per questo egli intravede nel film di Pasolini un mondo dominato da un fluire vitale che non si è ancora articolato e organizzato in forme compiute. È questo l’aspetto che colpisce maggiormente l’attenzione dello scrittore torinese in sintonia con le sue elaborazioni teoriche e il suo incontro con i contadini lucani durante il confino ad Aliano tra il 1935 e il 1936. A Levi, difatti, interessa quanto di arcaico e originario risiede nella vita degli uomini perché solo laddove risplende il sacro fulgore dell’antico risuona la voce di una potenziale e concreta libertà. In Accattone tutto questo trova una sua coerenza particolare nell’informe fluidità della lingua di quel mondo che si tinge di una feroce animalità che ha il sapore della «rabbia» e il colore «grigio del fango, della miseria, della malattia»; e insieme possiede «una sua energia vitale, anarchica e desolata, non mai spenta nella destituzione, nell’uso strumentale del corpo; irrazionale e pura, a volte esplosiva».
Analizzando il primo film di Pasolini, Levi non intravede all’interno della vicenda una vera e propria forma di liberazione; la conferma infatti proviene dagli stessi tentativi di Accattone «che – suggerisce il critico Ugo Casiraghi – non ha nemmeno la struttura antropologica per poter lavorare». Nella sua parabola da pappone a ladro egli tenta di guadagnarsi onestamente da vivere trasportando ferro; tuttavia la redenzione dura poco e viene segnata dalle parole ineludibili del ricordo di Buchenwald che suggella, insieme ai numerosi rimandi, l’esito di un impossibile riscatto. È infatti solo la morte, voluta e bramata fin dalle prime battute del film, a permettere la liberazione di Accattone. Tuttavia esiste, secondo Levi, una forma di «liberazione poetica, che si sente correre in tutto il film» e che risiede nella forza assoluta della poesia. Accanto all’icastica rappresentazione della violenza nelle borgate romane, formulata nei modi di una sacralità liturgica, Pasolini si specchia narcisisticamente nell’immagine di Accattone e salda il lirismo alla ritualità della morte lungo la direttrice del sacro e dell’arcaico che solennemente affiorano nella scena del sogno finale.
Secondo il linguaggio dell’inconscio che si manifesta nei sogni, come teorizzato da Freud, Pasolini raffigura Accattone immerso in una dimensione allucinata in cui le figure e i paesaggi appaiono e mutano velocemente. In un altrove senza tempo, segnato da uno spazio rarefatto e spoglio, egli assiste, sotto il ritmo fuori campo dei suoi stessi lamenti, all’immagine della propria morte. Soggetto e oggetto della visione, Accattone perviene insieme con gli amici alle soglie del cimitero cui gli è precluso l’accesso. «Ma al di là del muro, oltre la fossa, si apre – osserva Levi – un paese di paradiso: il paradiso dei poveri, un paesaggio meridionale nudo e squallido, ampio, solitario e silenzioso». La placida distesa, accompagnata ora dal cinguettio degli uccelli, è tagliata in due dal gioco della luce con l’ombra. Accattone desidera un posto in paradiso e pertanto chiede che la tomba gli venga scavata sotto il caldo rischiarante del sole: «A sor mae’ – confessa al becchino – perché nun me la fate un pochetto più in là? Nun lo vedete ch’è tutta scura qui, la tera?». La forza espressivo-espressionistica della poesia travalica i confini della morte fisica incarnandosi nella pura vitalità di questi personaggi sui cui volti compare la scintilla della vita anche laddove essa sta per estinguersi: «Mo’ sto bene!» confessa Accattone morente.
I suoi occhi neri e intensi che Levi dipinge nella copertina della sceneggiatura sono gli stessi occhi neri dei contadini lucani la cui arcaica natura viene trasformata nel fondo archetipico di ciascun individuo (La Lucania – afferma ne Il contadino e l’orologio nel 1950 – «è dentro di noi»). Certamente non accostabili al sottoproletariato urbano sotto il profilo sociale in senso stretto, perché sono lavoratori instancabili seppur di una terra improduttiva, i contadini lucani hanno tuttavia in comune con gli «uomini non ancora entrati nell’esistenza e nella coscienza» la medesima natura. Reietti dalla storia e dalla civiltà occidentale, posti al bando dalla politica nazionale, essi permangono in uno stato di natura, ultimo simbolo libertario e retaggio di una società che velocemente scompare sotto il serrato incedere del fascismo neocapitalistico. Pur vivendo in un «mondo squallido di destituzione, di afasia, e di estremità assoluta», i personaggi di Accattone risultano «simpatici»: non li si può odiare perché in essi sopravvive quello stesso fondo arcaico, violento e primigenio della terra lucana.
Pasolini allo specchio di Levi è dunque un doppio al quadrato. L’autore del Cristo ha certamente voluto creare nell’immagine della copertina una forte identificazione speculare tra Accattone e Pasolini, sottolineandone i tratti di continuità. Tuttavia in controluce, aiutati dalle parole della Prefazione, si avverte che Levi in realtà ha dipinto se stesso: se stesso come Pasolini dietro a cui si stagliano silenziosi, dallo sguardo dimesso e passivo, migliaia di contadini lucani.
Bibliografia:
M.A. Bazzocchi, I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema, Milano, Mondadori, 2007.
R. Galvagno, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 2010.
C. Levi, Paura della libertà, Torino, Einaudi, 1946.
C. Levi, Prefazione a P. P. Pasolini, Accattone, Roma, Edizioni F. M., 1961; ora in P.P. Pasolini, Accattone, Mamma Roma, Ostia, introduzione di U. Casiraghi, Milano, Garzanti 2006, pp. 23-26.
C. Levi, Prima e dopo le parole. Scritti e discorsi sulla letteratura, a cura di G. De Donato e R. Galvagno, Roma, Donzelli, 2001.
S. Parigi, Pier Paolo Pasolini. Accattone, Torino, Lindau, 2008.
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1967.