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Il volto di Pasolini si erge, frontalmente, dinnanzi all’osservatore con la tagliente severità del poeta che guarda le cose e le trasforma in opera di poesia. Accattone, invece, interpretato da Franco Citti e ritratto alle spalle del regista, condensa nella sua triste posa l’immagine di un sottoproletariato senza speranza, in cui non si dà redenzione ma solo morte.

Il film, commenta Levi nella Prefazione alla sceneggiatura, «è, con chiara evidenza, l’opera di un poeta», in cui risalta un’«autenticità diretta», garantita non tanto dalla scelta di personaggi «veri» quanto «da una identificazione che non consente diaframmi estetizzanti». A ciò concorre un uso sapiente della «soggettiva libera indiretta» che mescola – come si evince dal saggio Il cinema di poesia, confluito poi in Empirismo eretico – lo sguardo dell’autore con quello del personaggio, al fine di sganciare dai moduli prestabiliti del cinema ‘classico’ il nuovo cinema di poesia, fondato sull’esigenza di unire la mimesi del personaggio alla libertà di stile propria dell’autore. Si effonde così nell’opera una vena espressionistica fatta di «rumore e furore» che scorre in modo sotterraneo lungo tutto l’arco della narrazione per affiorare nei suoi momenti più intensi. «Due volte – chiarifica Levi – scoppia, assurda e inattesa, una risata, che è il grido della vitalità pura nei momenti più neri di un mondo di solo bisogno».

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