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L’œuvre de Valérie Mréjen se caractérise par la présence d’un espace autobiographique diffusé et très discret. La trace de l’expérience intime se réverbère d’un récit écrit à l’autre, d’une vidéo à l’autre et parmi les créations développées sur supports différents. La remémoration est l’un des fondements des narrations où la parole dite et rapportée rend compte des expériences personnelles et de la vie vécue. Cette étude prendra en compte l’intense circulation des biographèmes à partir de l’analyse croisée des ouvrages et par la prise en compte des témoignages de l’autrice sur sa pratique créative.

The work of Valérie Mréjen is characterized by the presence of a diffused and very discreet autobiographical space. The trace of the intimate experience reverberates from one written story to another, from one video to another and among the creations developed on different media. Recollection is one of the foundations of narratives where spoken and reported words reflect personal experiences and life lived. This study will take into account the intense circulation of ‘biographèmes’ from the cross-analysis of the works and by taking into account the author’s testimonies on her creative practice.

Valérie Mréjen est une écrivaine, artiste plasticienne et vidéaste française qui parsème ses ouvrages de bribes de son histoire personnelle. Cette perspective permet de situer sa démarche artistique dans le champ des pratiques contemporaines d’autres artistes tels quel Sophie Calle, Christian Boltanski et Edouard Levé pour n’en citer que quelques-uns parmi les plus représentatifs du courant de la narration de soi par l’art. Pourtant, dans mon étude je me pencherai sur la création de Mréjen pour en mettre en lumière les spécificités intrinsèques.

La petite note de présentation, que l’on peut lire dans la page qui elle est consacrée sur le site de la galerie parisienne Anne-Sarah Bénichou, résume les grandes lignes de sa démarche artistique :

 

 

Les « souvenirs », les « détails de l’existence », les récits « vécus ou rapportés » seront parmi les mots clé de cette étude sur la relation entre la création artistique et l’autobiographie chez Valérie Mréjen. Vu l’hétérogénéité de ses pratiques, pour rendre compte de la présence du moi et du souvenir dans ses œuvres, on peut évoquer la métaphore de l’archipel, empruntée à l’écrivain, photographe, vidéaste Alain Fleischer. Il a utilisé cette image pour désigner sa propre démarche créatrice dans le texte liminaire publié en introduction au roman L’Ascenseur :

 

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Pisa/Torino, agosto 2016

Eleonora Manca (Lucca, 1978), artista visiva nell’ambito del video e della fotografia, sta sviluppando da diversi anni una ricerca sulla metamorfosi, la memoria e la memoria del corpo. Il fitto dialogo che intrattengo da tempo con lei si è recentemente definito in questa intervista.

 

D: Hai studiato Storia dell’Arte all’Università di Pisa e successivamente Teatro e Arti della Scena a Torino. Come ti sei avvicinata alla fotografia e al video? Ci sono stati degli input culturali o delle fascinazioni che ti hanno guidata in quella direzione? Perché hai scelto proprio questi mezzi espressivi?

R: Fin da bambina il mio interesse è stato prevalentemente rivolto all’immagine, alla parola e alla loro compenetrazione. Nel mio percorso di studi, dunque, ho sempre cercato di assorbire e coniugare più informazioni possibili al fine di creare una specie di compendio che potesse guidare ogni interesse che andavo maturando. Chiamavo questo atteggiamento – da spugna un po’ sconclusionata – ‘la mia lista della spesa’. Contemporaneamente disegnavo, dipingevo, creavo collage unendo immagini ritagliate e versi dei poeti che mi parlavano. Il tutto era già ‘poesia visiva’, anche se non lo sapevo. Mio padre è un fotografo, mia madre una pittrice e mi piace pensare che mi abbiano dato – seppur nella lontananza – un imprinting per certi versi atavico e inevitabile. Dopo una lunga ricerca pittorica c’è stata una stagione molto intensa di poesia visiva. Utilizzavo carta giapponese, frasi mie o cut-up di versi di poeti, scrittori. Mi piaceva, ad esempio, unire un verso di Dylan Thomas con uno di Janet Frame creando quindi piccoli ibridi poetici. Fu in questa stagione di parola per immagine (e viceversa) che presi a fotografare più intensamente di quanto facessi negli anni precedenti (ho impiegato molto per accettare l’esigenza di prendere una macchina fotografica in mano; schivavo questo richiamo, ma alla fine non ho potuto far altro che lasciarmi sedurre). Presi confidenza con il mezzo e cercai di sintetizzare tutto ciò che fino ad allora mi aveva riempita, formata. Ciononostante – e lo ricordo ancora, quasi come un fatto fisico – ero sempre più frustrata dalla parola. Una parte di me tornava prepotentemente agli anni universitari pisani, a quando seguivo i corsi di Sandra Lischi che tanto affascinavano il mio immaginario e la mia voglia di creare poesia in movimento (a lei devo, veramente, la voglia incessante di fare video). Non sapendo da che parte iniziare mi limitavo, però, a realizzare micro-narrazioni con la fotografia. Una specie di bobina dipanata. Lavoravo molto sull’esigenza di fermare un attimo, un gesto reiterato. Fotografavo foglie mosse dal vento, lenzuola stese ad asciugare, tende in movimento e poi le univo sperando che il solo occhio potesse dare loro il movimento che cercavo. Da lì passai ai movimenti del mio corpo. Decine e decine di gesti congelati che però mi lasciavano sempre insoddisfatta. Risolutivo fu l’incontro con Alessandro Amaducci. Guardavo con un misto di circospezione e fascinazione la sua postazione video, parlavamo molto della mia esigenza di tornare all’immagine, all’archetipo e un mattino – era il giugno del 2012 – gli dissi che volevo realizzare un video nel quale mi spellavo. Avevo già tutto in mente. Sapevo come volevo il risultato finale. Disseminai il mio corpo di colla vinilica, gli chiesi di aiutarmi nelle riprese e nel montaggio. Istintivamente – pur non sapendo niente di post produzione – iniziai a fare dei tagli alle riprese, cercando di spiegargli cosa volevo dall’esito finale. Chiesi inoltre ad Alessandro di farmi vedere più video possibili. Lui intuì la mia tendenza a preferire un certo cinema sperimentale. Mi ‘presentò’ Maya Deren ed io sentii una profonda appartenenza. Avevo dunque trovato una ‘madre’ da assorbire e poi da dimenticare per fare me stessa. Quell’estate realizzai altri quattro video. E da lì non mi sono più fermata. Da qualche anno nei miei lavori – sia fotografici sia video – è tornata anche la parola. [fig. 1] Difficilmente riesco a definirmi fotografa e/o videoartista. Spiego sempre che per me – foto e video – sono solo mezzi per restituire un’immagine. Non ho la presunzione di conoscere tutto di questi mezzi, ma so di loro – almeno ad oggi – quanto basta per la ricerca che sto portando avanti sulla memoria e la metamorfosi. Non sono ancora certa di avere scelto unicamente foto e video – ma anche perché non mi precludo mai nessuna possibilità ‘altra’ – diciamo che per adesso (anche se è un ‘adesso’ che dura da un bel po’ di anni) sono loro ad aver scelto me.

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