Io ho fatto tutto questo, spettacolo intermediale dedicato a Goliarda Sapienza. Trame performative della memoria tra letteratura, video e scena

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Il saggio, attraverso lo spettacolo intermediale Io ho fatto tutto questo (Catania, 2009-2010) della regista Maria Arena intorno agli scritti autobiografici Lettera aperta (1967) e Il filo di mezzogiorno (1969), offre uno sguardo sull’eredità artistica e memoriale della scrittrice e attrice Goliarda Sapienza nel contesto contemporaneo.

This essay, through the intermedial show Io ho fatto tutto questo(Catania, 2009-2010) by the director Maria Arena about the autobiographical writings Lettera aperta (1967) and Il filo di Mezzogiorno (1969), looks at the artistic heritage in the new millennium of the writer and actress Goliarda Sapienza.

 

Il soggetto individuale è sempre un evento sociale, e ogni singolo è come una cavità teatrale che riecheggia i diversi motivi e linguaggi della società.

Giacomo Marramao, Passaggio a Occidente

 

 Locandina di Io ho fatto tutto questo, spettacolo dedicato a Goliarda Sapienza, Zo Centro Contemporaneo, Catania, 2009/2010

Questo pensiero di Giacomo Marramao racchiude in sé il carattere di fondo della scelta di Maria Arena di portare in scena, nel 2009 a Catania, con lo spettacolo intermediale Io ho fatto tutto questo, la complessa formazione della scrittrice/attrice Goliarda Sapienza, partendo dal lavoro sugli scritti autobiografici Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno.[1] Al di là dell’impellente necessità testimoniale, negli anni della sua riscoperta in Italia, per la regista era necessario andare oltre l’istantaneità del ricordo per intercettare la memoria di una trasformazione vitale emblematica per la sua «stra-ordinarietà», l’esemplarità di «un percorso a ostacoli, una ricerca di autenticità».[2] Per questo Maria Arena sceglie di mettere in scena non solo il racconto ma anche l’esperienza di una condizione di crisi esistenziale partendo da un un momento preciso della sua biografia legato alla profonda crisi vissuta intorno ai quarant’anni che la portò a due tentati suicidi. Il primo dopo il crollo depressivo seguito alla morte della madre, per cui fu sottoposta a degli elettroshock che ne causarono uno stato di paurosa instabilità e la perdita della memoria. Il secondo fu dato dal fallimento del recupero della riappropriazione di sé attraverso i propri ricordi dopo l’abbandono della professione del suo terapista. Il recupero narrativo attraverso la scrittura si rivelò però il miglior strumento terapeutico per recuperare la molteplicità delle immagini della propria identità. La regista ripercorre quindi il viaggio a ritroso percorso dalla scrittrice nei due testi autobiografici del ’67 e del ’69 Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno, in cui racconta la riscoperta e la rinascita come scrittrice attraverso un itinerario interiore: dalla vivacità formativa della propria infanzia, vissuta tra le strade del quartiere popolare San Berillo di Catania, sino alla deludente esperienza d’attrice teatrale e cinematografica a Roma.

Io ho fatto tutto questo è stato messo in scena a Catania nel 2009 e nel 2010. Il lavoro della regista è nato, dopo la lettura del suo capolavoro L’arte della gioia, dall’approfondimento e dallo studio del percorso biografico-produttivo dell’attrice, cineasta e scrittrice. Nonostante il successo internazionale e la pubblicazione del romanzo da parte di Einaudi in Italia nel 2009 la figura di Goliarda Sapienza era ancora poco conosciuta, soprattutto nella sua città natale. L’ideazione dell’opera parte dall’urgenza della sua riscoperta ma soprattutto dal desiderio di dare spazio all’attualità dell’eredità delle sue visioni, troppo inattuali secondo Maria Arena per essere riconosciute mentre era in vita. Al di là della conoscenza della vita e delle opere dell’autrice, lo spettacolo è il frutto di un’ulteriore ricerca, parallela all’inizio della scrittura del lavoro scenico, per la realizzazione di un documentario. Abbandonato il progetto, il materiale girato è diventato parte integrante del prodotto teatrale. La partitura multimediale è stata prodotta grazie al sostegno dell’organismo multidisciplinare catanese Zō Centro Culture Contemporaneo in collaborazione, per la seconda messa in scena nel 2010, con il Teatro Stabile di Catania. La regista, che ha curato i testi e la drammaturgia, è stata affiancata nel lavoro dalla partecipazione di un insieme di figure avvicinatesi in quegli anni agli scritti dell’autrice. Hanno preso parte e contribuito alla realizzazione la performer Daniela Orlando, nelle vesti di Goliarda Sapienza, la poetessa Rosaria Lo Russo ed Emanuela Villagrossi per i reading in scena e le voci off. La dimensione sonora è stata curata da Stefano Ghittoni e arricchita dalla musica in scena dell’arpa della dodicenne figlia di Daniela Orlando, Lucia Scalia nei panni anche di Goliarda-bambina, e dalle musiche originali di Carmen Consoli. Tra i video, curati dalla regista, compaiono le video-testimonianze del regista Citto Maselli, compagno di Goliarda per diciannove anni, e i manoscritti della stessa scrittrice messi a disposizione dal marito Angelo Pellegrino.

L’analisi del lavoro, che si concentra sulla seconda versione del 2010, è tratta dallo studio svolto sul percorso produttivo intermediale tra teatro e audiovisivo della regista Maria Arena per l’elaborato finale della tesi magistrale. L’approccio metodologico scelto per l’approfondimento delle relazioni tra la peculiare dimensione visuale degli scritti di Goliarda e la rielaborazione drammaturgica di Io ho fatto tutto questo è il frutto del riadattamento di un procedimento proposto da Fabio Raffo.

1. Crisi formali vitalistiche

Nelle due opere da cui è stato tratto lo spettacolo, pubblicate nel ’67 e nel ’69, Goliarda Sapienza iniziò a raccogliere i frammenti sparsi di quella che definiva complessivamente come un’Autobiografia delle contraddizioni: un anomalo scavo interiore tra elementi biografici, ricostruzioni immaginarie e riflessioni contestuali. In questi testi rievocava la propria (quasi) morte come attrice e la rinascita attraverso la scrittura come forma di «automedicamento»[3] dopo la depressione, i due tentativi di suicidio, la perdita della memoria per gli elettroshock subiti e l’abbandono della professione del proprio psicoanalista. Condensava così il faticoso riemergere, discontinuo e caotico, della propria soggettività attraverso la stratificata proiezione di un viaggio a ritroso.

Per dar conto di questo magmatico tappeto di ricordi e inserti diegetici Maria Arena sceglie una forma ibrida, che trova nell’intermedialità la soluzione drammaturgica più azzeccata. La partitura scenica a più voci tra reading, performance, installazione e video riflette specularmente un senso vicino alla complessità espressa dalla scrittrice. Come ricorda Paolo Ruffini del resto:

[…] nel concetto di live arts si raggruma il nuovo impegno a parlare di morte, di crisi […] attraverso la lente d’ingrandimento della precarietà di un parlato dell’adesso, vicino, prossimale allo spettatore.[4]

Nello spettacolo, quindi, prima di tutto bisognava farsi carico della contemporaneità della sua Storia. Goliarda rimase, dopo quella prima rinascita, una voce inascoltata: troppo inattuale grazie alla conquistata maturità riflessiva della necessità di ‘tornare indietro per andare avanti’, lasciarsi alle spalle la novecentesca esposizione soggettiva, la fine ideologica delle grandi narrazioni e aprirsi alle possibilità dialettiche reali di una rappresentazione fondata sulla propria (in)fallibilità lirica, poetica.

L’intreccio progettuale tra opera, generi, pratiche artistiche, discorsi storici e culturali non restituisce quindi soltanto un’affinità aisthetica rispetto al trasversale re-enactment performativo della parola e del corpo, come veicoli memoriali degli scritti di Goliarda, ma anche la capacità di Maria Arena di rendere visibile in scena la sua precoce riflessione sulla profondità delle trame dei suoi testi.[5]

 

2. Narrare la scena

Il continuo scavo sui testi di Sapienza si è tradotto in selezioni, prelievi e innesti dentro un copione crossmediale, in cui le parole sono accompagnate parallelamente, in una suddivisione verticale, dalle indicazioni sulle azioni performative, sulla musica, i video e le luci. Ma l’impianto va oltre la semplice interpretazione e presentazione palinsestica di citazioni per estrapolare una riflessione formale e discorsiva intorno ai processi e ai motivi narrativi inscritti nell’opera. Scrive a tal proposito la regista:

 

Quanto intendo mettere in scena non è il racconto della crisi depressiva di Goliarda intorno ai quarant’anni, ma la crisi stessa. Non è mia intenzione rappresentare i fatti che sono accaduti, ma partire dai testi dove non si raccontano solo episodi ma emergono emozioni contraddittorie. L’obiettivo non è descrivere un’emozione ma suscitarla nel pubblico, tentare di innescare sulla scena gli stessi conflitti, tentare di “non separare il pragma dall’enigma” (Pasolini).[6]

 

Arena sceglie di partire da una domanda («quale visione comunicano i libri di Goliarda?»)[7] per portare in scena, attraverso una drammaturgia visuale, l’esperienza estetica sottesa al «nucleo scoperto»[8] dei testi di Sapienza.

 

Scelto il fulcro tutto vi ruota attorno come cerchi concentrici dopo il lancio di un sasso. Le parole lette in scena nascono da un lungo lavoro di selezione di brani estratti dal testo originale intorno a un nucleo significante.[9]

 

Per individuare i livelli e gli incroci intermediali di questa partitura è utile considerare il metodo che Fabio Raffo[10] elabora a partire da alcune revisioni recenti degli studi tra teatro postdrammatico e narratologia post-classica. Tale impianto consente di evidenziare, in spettacoli con una strutturazione eminentemente visiva come Io ho fatto tutto questo, un ‘fondo narrativo’ attraverso la rimediazione di processi di narratività letterari e visivi, già inscritti a volte, come in questo caso, nei testi di partenza.

 Copione de Io ho fatto tutto questo, spettacolo dedicato a Goliarda Sapienza, ©Maria Arena

Procederemo attraversando quattro modalità che rievocano il testo dal senso letterale di superficie fino al livello più profondo. Il primo riguarda la sintassi formale della struttura della partitura, ovvero l’organizzazione di unità narrative minime sotto forma di sequenze che traducono stilisticamente atmosfere e ritmi emotivi. Nel secondo livello le tracce narrative, attraverso la costruzione drammaturgica, si traducono in una gamma di segni, figure che lo spettatore può attivare attraverso la propria visione. Al terzo livello si pone il filo di raccordi analogici tra le sequenze che sono separate: un movimento non verbale di immagini narrative che sintetizzano visualmente il tema dell’itinerario memoriale, accompagnando la percezione dello spettatore-lettore lungo la stratificazione temporale e l’attraversamento di spazi diversi da un frammento di vita all’altro. L’ultimo livello, infine, è quello in cui lo spettatore viene posto fenomenologicamente davanti al proprio riflesso attraverso un re-enactment memoriale che investe la dimensione discorsiva socioculturale di corpo, parola, spazi e forme di rappresentazione. L’esplicitazione dei livelli serve a tracciare una mappa che, pur risultando necessariamente approssimativa, restituisce il piano dell’intreccio e consente di cogliere i nessi di reciprocità fra i diversi piani di intelaiatura diegetica. Il carattere ellittico e performativamente circolare dei testi di Sapienza si riflette, infatti, specularmente nella struttura dello spettacolo. Per ogni elemento si può però tentare di cogliere la sua collocazione, i rimandi al metodo compositivo che per la sua intermedialità ha una natura concettuale e il carattere pragmatico delle rievocazioni nell’interazione finale. A partire dal testo e dalle relazioni con gli spettatori-lettori gli elementi narrativi si traducono, come suggerisce Fabio Raffo, in un insieme di topoi visivi che riguardano la ricezione della struttura drammaturgica, i leitmotiv plastici (oggetti, corpi, ecc.) o l’insieme delle immagini e figure attivate in scena. Questa «archiscrittura»[11] dello spettacolo, come direbbe Fabio Tommasini, permette di riflettere anche il carattere macrotestuale[12] evidenziato a proposito dei testi di Goliarda Sapienza.

La partitura del testo spettacolare è definita dal montaggio di quattro scene (Coma, Preghiera alla luna, Essere uomo essere donna e Ricordare), che recano nelle indicazioni registiche diverse atmosfere. Ognuna di esse modella sinesteticamente le stagioni che si susseguono nei testi di Goliarda. Questi ambienti sensibili proiettano il pubblico, un po’ come accadeva a quell’ideale «lettore-spettatore»[13] di Goliarda, dentro le diverse immagini di un corpo immerso in un paesaggio interiore. La trama narrativa dello spettacolo scaturisce, così, per lo più dal movimento dinamico tra stati d’animo espressi esteticamente dalle suggestioni visive, dalle linee di colore scelte e dalle componenti sonore con la loro carica simbolica.

 

3. Coma

In un’atmosfera quasi completamente buia il prologo autunnale del Coma anticipa, come negli scritti di Goliarda che rompono del tutto ogni patto di linearità autobiografica, il momento della crisi, legato al trauma della rielaborazione del lutto della madre. A cui seguiva il successivo stato di afasia depressiva fino agli elettroshock.

Con voice off e il proprio corpo fisso a terra al centro della scena, Daniela Orlando incarna spazialmente lo stato di blocco e regressione fisica di Goliarda, descritto nelle sue opere come una caverna senza confini, dalle pareti mobili, nel susseguirsi del buio e della luce. Resta, così, al centro di un piano rettangolare bianco, leggermente inclinato verso gli spettatori, quasi a rappresentare il carattere speculare e sensibilmente cocreativo dei racconti di Goliarda per il suo pubblico. Tale specchio-base, nel corso dello spettacolo, diventa come un enorme tappeto dentro una stanza, vero e proprio deposito memoriale per le performance, cornice per le installazioni live o vetrata schermica per alcune videoproiezioni. L’idea del potere fenomenologico di questo primo dispositivo visuale nella drammaturgia dello spettacolo emerge, forse, in nuce in una descrizione de Il filo di mezzogiorno della stessa regista Maria Arena:

Durante il percorso analitico Goliarda ritrova e rilegge il suo passato: i volti, i profumi, i colori rivivono nel volto stesso dello psicoanalista come su uno schermo bianco su cui si materializzano le emozioni. L’operazione analitica consiste nel ritrovarle, riviverle, interpretarle, e lasciarsele alle spalle per volgersi in avanti. La sua memoria si ricompone e diviene organica coinvolgendo tutti i sensi, come a ripercorrere un incontro col mondo tipico dell’infanzia.[14]

 

Per mettere in scena la ripresa del filo memoriale la scenografia viene ideata come uno spazio d’immagini mentali fatto di oggetti fuorimisura. Lo sguardo dello spettatore può così ricostruire lo spazio rappresentato: come un’invisibile «stanza-cassapanca»,[15] per usare uno dei dispositivi cari a Goliarda; un cassetto pieno dei sogni con cui da bambina si immaginava il proprio destino tra le storie della casa a Catania e la soglia del cortile del palazzo; o ancora «stanza della memoria»,[16] come nel periodo trascorso nella casa romana o nella clinica, nel tempo presente della scrittura rievocata dal reading in scena.

 

Non sarebbe necessario a rigore chiamare in causa Bachelard con la sua poetica dello spazio per affermare che cassetti e cassapanche sono «immagini del segreto […] veri e propri organi della vita psicologica segreta». Al contatto con il tempo reale e col divenire delle stagioni, dai cassetti – scrigni dell’indimenticabile all’interno dei quali il tempo era fermo – si dischiude anche la memoria.[17]

 

L’attraversamento della stratificazione visuale di questi spazi quindi, come approfondiremo, lega con il loro movimento ritmico il susseguirsi dei frammenti temporali in un andamento non lineare ma disordinato, capace di restituire però quegli stessi processi della memoria delle contraddittorie autobiografie di Goliarda:

 

Rappresentazione mimetica del suo distorto e sofferente sguardo sul mondo, una realtà solo vissuta e non oggettiva. Spostando costantemente l’azione nella sua interiorità la scrittrice scappa dal tempo e dallo spazio reale condiviso, chiudendosi nello spazio dell’anima, del delirio, che è un non-luogo dove la materia si sfalda e i confini sono mutevoli.[18]

 

Il rimando simbolico e pragmatico più evidente alla sovrimpressione spaziale e temporale delle immagini memoriali è forse rappresentato da uno schermo bianco, nella parte frontale della scena, assemblato come un insieme di pagine giganti, poste in modo sparpagliato l’una sull’altra. Ognuna di queste, sovrapponendosi, sfrangia leggermente le immagini delle proiezioni (tra visioni oniriche, flashback, ricostruzioni, inserti documentaristici e immagini delle parole tratte dai testi), oppure, viene illuminata con un’intensità diversa, ricomponendole singolarmente come pagine. Su questo sono proiettati alcuni frammenti tratti dalle videointerviste al regista Citto Maselli, compagno per diciotto anni della scrittrice e angelus-testimone in scena della crisi vissuta da Goliarda, realizzate da Maria Arena durante la fase di ricerca visuale. Tali frammenti sono inseriti a intervalli bruschi, in bianco e nero, smarginati da quelle ‘pagine bianche’ illuminate in modo sfalsato, tra un intertitolo didascalico e l’altro, con passaggi marcati sonoramente. Lo schermo composto da più pagine, al di là del richiamo al ricorrente motivo delle pagine sparse presente negli scritti di Goliarda, rievoca con forza lo scarto percettivo costitutivo nei suoi testi che stimola nello spettacolo l’attivazione di un’«immaginazione intermediale»[19] di carattere riflessivo sulle funzioni mediali degli elementi coinvolti.

A sinistra della pedana viene costruita una seconda stanza cilindrica dal soffitto altissimo, senza pareti, realizzata in cellophane. Da un lato, rimanda a quella stanza dal soffitto deformato con cui si identificava Goliarda nel flusso di coscienza dei suoi pensieri riportati all’inizio dello spettacolo, e, dall’altro, a «quel pozzo di quegli anni senza memoria»[20] di cui invece parla nei suoi testi (un topos visivo in realtà molto diffuso letterariamente a partire da Pirandello per esempio). Si trasforma, poi, in una lampada multicolore contribuendo a definire le varie atmosfere sceniche o in un supporto per alcune videoproiezioni. Davanti a questa ‘lampada’ viene posto il leggio per la lettrice-spettatrice che nella prima versione era la poetessa Rosaria Lo Russo. Nella seconda del 2010, invece, l’attrice Emanuela Villagrossi che rispetto alla prima interagiva con la scena, amplificando lo sfasamento legato alla voice off prestata nell’anno precedente.

Il nero dominante nel prologo dello spettacolo viene interrotto dall’accensione nel video dello schermo frontale di una torcia che illumina un dedalo di gallerie. Nelle immagini Daniela Orlando procede con un foulard e un cappotto come in una delle foto che ritraggono iconicamente Goliarda adulta ‒ materiale visuale da cui la performer era partita durante la fase di studio ‒ lasciando il posto, nel racconto a ritroso, alla Goliarda bambina. Questo elemento scenico è stato realizzato da Maria Arena nei sotterranei romani di Catania per richiamare lo scavo memoriale dell’infanzia tra i labirintici spazi urbani, descritti in questo modo da Goliarda, riferendosi soprattutto alle strade e ai vicoli di San Berillo. Ma per ricordare anche i racconti dell’infanzia, attraverso la voice off, delle gallerie sotto la città che portano tra i tesori e i teschi degli eroi morti per recuperarli, alla pancia del gigante Tifeo, rannicchiato e imprigionato sotto l’Etna, come il corpo di Daniela Orlando in scena. Lo sguardo retrospettivo apre quindi lo spazio scenico fino al racconto mitico, scandito dalla cadenza da cantastorie della voce fuori campo della performer. È bene ricordare che dopo il percorso di psicoanalisi, interrotto per l’abbandono della professione di Ignazio Majore, Goliarda, che aveva già affrontato il difficile recupero della memoria, tentò per la seconda volta il suicidio, prima di rinascere attraverso le ricostruzioni narrative affidate ai propri lettori. Per questo le stratificazioni spaziali e temporali tra scena e video vengono ‘illuminate’ dal pubblico, interpellato dalla voice off come nell’invocazione rivolta da Goliarda nei suoi testi. Gli spettatori infatti transitano osmoticamente con lo sguardo tra interno ed esterno, spazi e temi diversi, realtà e finzione immergendosi con lei verso le immagini del fondo narrativo. Le voci fuori campo di Emanuela Villagrossi e Carmen Consoli rievocano l’invito dei fantasmi del passato (ricordi figurativamente traslati dei tanti divieti-richiami nei racconti dell’infanzia) a non accendere la luce quando si fa notte; a non coprire lo specchio al tramonto con lo scialle nero; a non andare ‒ in un’immagine di Goliarda vicina ai topoi visivi montaliani ‒ tra gli sterpi secchi. Dopo la corsa tra i cunicoli l’ombra fantasmatica di Nica-Arianna, amica d’infanzia ma anche amante e poi sorellastra, bambina come lei nel video, le ricorda da musa e «guida infera»[21] di stare attenta, per non perdere il filo della memoria.

Mentre si spegne anche l’ultimo fiammifero nel video, la voice off di Goliarda sente di essere tirata sul fondo buio: sette terribili ‘curaro shock ad annichilimento’, sette scariche di luci blu musicalmente elettriche, illuminano lo spazio scenico, numerate dalle voci fuori campo dei medici. Così erano definiti in una cartella gli elettroshock a cui fu sottoposta, come racconta Citto Maselli nel primo intermezzo documentario che compare immediatamente dopo. Attraverso la sua testimonianza si viene a sapere che Goliarda Sapienza non riusciva più neanche a riconoscersi nell’immagine della sua carta d’identità e il regista-compagno dovette portarla via a forza dalla clinica mentre era ancora in stato completamente confusionale.

Dopo questo lungo prologo, lo spettacolo continua ad intrecciare le visioni della protagonista nel tempo perduto di una sua possibile ricostruzione memoriale.

 

4. Preghiera alla luna

La lettrice-spettatrice-attrice apre questo itinerario intersoggettivo, nella seconda sequenza, attraverso il più immediato dispositivo di enunciazione performativa – il reading – con la rievocazione dai suoi scritti della ‘contraddizione’ insita in quell’«Io» e nel suo nomen omen, ereditato dopo la morte del fratello Goliardo.

Le metafore cronotopiche, a cui abbiamo fatto già cenno a proposito degli spazi-contenitore della memoria, legano analogicamente il passaggio del filo sequenziale da Coma a Preghiera alla luna. Qui si condensa anche, come accade nei testi di Goliarda, un insieme di oggetti che vengono disposti da Daniela Orlando, in vestaglia, nel corso di un’azione performativa di tipo installativo sul tappeto bianco della ‘stanza’. Tali oggetti feticcio della «rievocazione caleidoscopica del suo mondo passato»[22] vengono geometricamente disposti e riattivati nella cornice bianca del dispositivo narrativo. Daniela Orlando, immersa in una luce lunare, cerca di muoversi performativamente tra un cumulo di cose secondo un piano di equilibrio instabile, al pari di Goliarda in quella «stanza della memoria che racchiude carte, oggetti, fotografie, tutti dispositivi anamnestici che l’io deve imparare a maneggiare per non restare schiacciato dal loro peso».[23]

 

Il cassetto è aperto, la cassapanca è aperta, la porta è aperta. Dentro al cassetto ci stanno le vecchie foto e le lettere; in fondo alla cassapanca lo scialle di Maria Giudice; fuori dalla porta ci sta la città, la “Civita”, Catania, labirintica metafora del disordine creativo. Mondo pre-nominale, pre-cognitivo, il mondo del prima – là dove si originano gli eventi, le parole e la loro mistificazione – dove ricercare, provare a rintracciare un ordine più genuino e naturale.[24]

 

Il cantabile di Casta diva, tratto dalla Norma di Bellini, una delle opere più amate da Goliarda durante l’infanzia, riattiva in scena la preghiera alla luna della sacerdotessa, rievocata in Lettera aperta.

Sullo schermo, nel frattempo, scorrono i frammenti testuali dei ricordi delle proprie corse dalla casa fino alle vie di San Berillo (tra le prostitute, quelle donne mezze affacciate tra la porta e la strada e gli sguardi sospettosi d’allora, fino al cinema Mirone) o quelli della difficile eredità dei modelli familiari. Tra l’integrità tutta d’un pezzo della madre Maria Giudice che vedeva leggere ‘sgranando’ i suoi scialli, intelligente più d’un uomo, e il padre Giuseppe Sapienza, avvocato antifascista come la madre, prima sindacalista donna. Della loro attività da socialisti nei primi anni del fascismo restavano, murati nel corridoio di casa, i numeri del loro giornale per i lavoratori (L’Unione), ricordi preziosi che la performer apticamente riattiva toccando ogni volta il punto di quell’interstizio della memoria. Gli schermi, gli oggetti ma anche tutta la scena quindi si trasforma in soglia della proiezione del percorso memoriale di Goliarda. La parola ‘recitata’ torna a richiamare le visioni del suo passato, i momenti della sua formazione ed episodi reali filtrati dalla finzione.

Portando alle estreme conseguenze la dialettica fra aperture e chiusure propria della scrittura di Goliarda, lo spettacolo non fa che costruire soglie e varchi, nel tentativo di visualizzare le intermittenze della scrittura. Fra le tante soluzioni interessanti è giusto ricordare il ‘modo’ con cui in scena si rievocano le storie narrate dalla madre sul vetro della finestra del cortile, qui sostituito da una lampada-schermo in cellophane su cui sono proiettate le figure di Goliarda e della madre. O ancora la stratificazione temporale e lo sdoppiamento fra la Goliarda adulta, incarnata dai movimenti coreografici di Daniela Orlando, e la Goliarda bambina, che appare in video e sul palco grazie alla presenza della piccola Lucia Scalia.

 Estratti da Io ho fatto tutto questo, spettacolo dedicato a Goliarda Sapienza, ©Maria Arena

È nel segno della ripetizione che si incastrano e si susseguono i frammenti dello spettacolo, dando vita a un montaggio di segmenti ora astratti e poetici ora invece realistici e dissacranti. La ripetizione che più di tutte fa emergere il senso della differenza non poteva che essere naturalmente, come rievoca la lettrice mentre Daniela Orlando manovra un pupo, quell’arte della recitazione appresa sperimentando tutte le parti, secondo gli insegnamenti del puparo Insanguine al Teatro Garibaldi.

Così Daniela Orlando rompe il suo silenzio performativo per la prima volta rivolgendosi direttamente al pubblico, al quale indirizza alcuni brani di repertorio, recitati con voce impostata e rigida. Scusandosi con gli spettatori per quella performance così ‘accademica’, Orlando varia poi significativamente l’uso del proprio registro vocale, modulandolo dal parlato piano fino alla sublimazione del dolore con un recitar cantando di impostazione lirica nei momenti più traumatici di retrospezione del passato.

In questa sezione di Io ho fatto tutto questo si assiste al susseguirsi frenetico e concitato di diverse azioni sceniche, che tentano di mimare gli anni della vorticosa formazione di Sapienza. Daniela Orlando non si risparmia, portando in scena la consapevolezza della sua fibra corporea, la qualità di gesti solo apparentemente improvvisati, il rapporto con gli oggetti (tra cui spiccano dei gomitoli arrotolati e srotolati con insistenza), che restituiscono il confronto vivo con i simboli e i modelli dell’apprendistato artistico di Goliarda.

Alcune video-testimonianze di Citto Maselli sull’attività dei Sapienza rievocano circolarmente le parole tratte dagli scritti di Goliarda, lette o proiettate fino a quel momento, dedicate indirettamente ai temi del femminismo, della storia e della politica negli anni del socialismo e dei primi anni del fascismo. Ogni immagine che tenta di far ordine nella memoria, come quello a cui sembra dar vita la proiezione di queste video-testimonianze, si rivela in realtà, come nei testi di Goliarda, un percorso pieno di scarti, ripensamenti e di accettazioni difficili. Per questo i video si interrompono bruscamente e l’atmosfera lunare della seconda scena viene rapidamente sterzata verso tonalità di ghiaccio per rievocare un inverno interiore. Daniela Orlando sgombera in modo violento l’intero tappeto bianco degli oggetti della memoria perché, come ricordavano le parole in scena della scrittrice, per fare ordine bisogna prima tirare fuori tutto, toccare il fondo del disordine.

 

5. Essere uomo essere donna

L’origine del disequilibrio di Goliarda era legata, prima di tutto, al contrasto tra la sperimentazione libera della visione della propria soggettività e le convenzioni, i rifiuti del mondo degli adulti, soprattutto della madre. Questa esperienza si traduceva in una rielaborazione negli scritti autobiografici della percezione fenomenologica della non coincidenza delle immagini del proprio sé, come soglia immersa in un contesto plurale. Qualcosa di analogo avviene anche nella terza sequenza dello spettacolo, Essere uomo essere donna, nella quale ritorna il segno della mutevolezza e dell’inafferrabilità espresso dalla scrittrice.

 

Possiamo pensare ai testi di Sapienza, e ai suoi sé testuali, come a delle eterotopie, definite da Michel Foucault come luoghi aperti su altri luoghi, che si aprono virtualmente al di là della superficie del “reale”, dove il “vero” viene invertito e contestato. Le eterotopie sono come degli specchi che mettono a fianco temporalità e luoghi lontani, e versioni molteplici di noi; esse sconvolgono le concezioni normative del sé coerente e del tempo cronologico.[25]

 

Qui è l’intero spazio della rappresentazione a farsi soglia visibile e mediale autoriflessiva dello specchio, tramite il corpo a corpo tra le molteplici immagini, figure e cornici attivate riflessivamente dallo spettatore. Attraverso lo schermo bianco di base (con una videoproiezione) si vede Goliarda, vestita da uomo, in camicia e cravatta ma con il seno nudo, emergere da un fondo buio urtando contro la vetrata, restando immobile e fissa nella sua immagine bloccata per qualche secondo prima di ripetere lo schianto. Nello schermo frontale, invece, un uomo travestito con gli abiti feticcio della sua immagine, più volte usati nello spettacolo durante l’installazione, cantava Ne me quitte pas, ma nella versione del 1965 dell’attivista nera per i diritti civili Nina Simone. Daniela Orlando nel frattempo, richiamando quel passaggio del racconto di Goliarda in cui indossava spesso i vestiti da box del fratello Carlo, al buio quasi come una silhouette in contrasto rispetto alla ‘lampada’ illuminata dietro di lei, fa a pugni con i guantoni contro le sue stesse immagini proiettate sugli schermi.

 Estratto da Io ho fatto tutto questo, spettacolo dedicato a Goliarda Sapienza, ©Maria Arena

 

6. Ricordare

Il precedente ricordo dell’incontro/scontro con la visione della madre riemerge, nel passaggio all’ultima sequenza intitolata significativamente Ricordare, dentro la cornice del ricordo del suo stesso racconto all’infermiera Giovanna. Questa è uno dei primi visi spettatoriali ‘dischiusi ad ascoltare’, incarnata significativamente in scena dalla lettrice-spettatrice, che la invitava a riprendere il ricordo-racconto dal trasferimento a Roma. In una videotestimonianza Citto Maselli ricorda le difficoltà della sua vita tra le ristrettezze e il freddo, la difficile ammissione all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’amico, dopo la ripetizione infinita d’esercizi per togliere l’accento siciliano (riferimento anticipato poco prima da un video proiettato sulla lampada con la locuzione in loop di tre bocche stilizzate), e i primi saggi quando prese tutti in contropiede con il suo stile ‘sussurrato’.

Al di là di un possibile rimando pirandelliano, questo processo di rielaborazione memoriale fa in realtà di Goliarda un’attrice-performer ante litteram, anche qui corpo forse troppo inattuale per lo star system di quel tempo. Questa doppia performatività memoriale, ripresa e amplificata nello spettacolo, si traduce in un continuum graduale d’embodied knowledge tra letteratura, scena (multimediale) e pratiche quotidiane all’incrocio tra corpo, spazio, parola ed esperienze. Tenendo conto di questi processi è possibile forse comprendere meglio gli effetti catartici della rievocazione del trauma, del ricordo e della testimonianza della crisi condivisa.

 Estratto da Io ho fatto tutto questo, spettacolo dedicato a Goliarda Sapienza, ©Maria Arena

Per questo simbolicamente Daniela Orlando, in una stratificazione tra la vita di Goliarda e le sue rappresentazioni, entra dentro quel ‘pozzo dello stomaco’, rappresentato in scena dalla struttura in cellophane, in cui si sedimenta la memoria attoriale di un sapere quotidiano da rievocare e incarnare nelle immagini del proprio corpo. In un denso intrico di segni performativi, la voice off, i gesti della performer Orlando, gli inserti video, si recuperano alcuni episodi della carriera teatrale di Sapienza nel tentativo di accordare la messa in abisso della crisi psichica con la profondità della sua ricerca artistica. Accade allora che Daniela Orlando, immersa dentro questa stanza nel ricordo-racconto dei momenti di quasi follia, continui a ondeggiare in modo sempre più visibile sbattendo le braccia contro le pareti mentre sullo schermo frontale viene proiettato un video realizzato con Emanuela Villagrossi, nel quale il dettaglio di una bocca emette con un registro vocale deformato alcuni brani del primo saggio di Accademia di Goliarda Sapienza, tratto da La Pesca di O’Neill. Tra intertesto, contenuto e forma lo spettacolo mette in scena Sapienza alle soglie di un punto di non ritorno (rappresentato poi dal secondo tentativo di suicidio) in questo viaggio a ritroso fra la perdita della memoria, il blocco legato alle ristrettezze della vita romana e la paura della perdita di sé. La scelta di far recitare Daniela Orlando dentro quel claustrofobico ‘pozzo della memoria’ attoriale, presente alla fine di Lettera aperta, rivelava quindi l’incompleta liberazione nei primi testi autobiografici, descritta acutamente da Maria Rizzarelli:

 

La compenetrazione fra spazio e corpo, che come si è visto attraversa tutte le tappe del memoir di Sapienza, agisce anche nel riferimento all’acting training a diversi livelli, soprattutto nelle brevi notazioni dell’ultimo capitolo, che introducono però immagini topologiche tutt’altro che liberatorie, a dimostrazione che la funzione catartica affidata alla scrittura ha solo parzialmente adempiuto al suo compito.[26]

 

In un altro segmento dello spettacolo, di poco successivo alla sequenza appena descritta, c’è spazio per la rimemorazione del devastante rapporto con la madre, che Sapienza si trova a dover accudire in un drammatico ribaltamento di ruolo. Per dar modo a chi guarda di cogliere il riverbero di tale condizione di madre della propria madre sulla stanza della memoria in cellophane viene proiettato un video in silhouette con la figura di una donna che pettina i capelli a una bambina. Al di là del rimando al transfert, qui emerge soprattutto il recupero del passato in forma di immagini fantasmatiche da rielaborare nel hinc et nunc del presente scenico. Come accade tra le pagine dei suoi scritti, solo riandando alla radice del rapporto fra vivi e morti è possibile comprendere una forma di ‘rinascita’ che viene ‘recitata’ nello spettacolo attraverso questo fondo memoriale d’immagini ancestrali:

 

Le figure […] quasi del tutto estranee l’una all’altra nella narrazione, sono vincolate dalla morte in un rapporto figurale in cui riaffiorano continuamente l’una nell’immagine dell’altra. I legami tra i morti rivelano l’esistenza di una dimensione ancestrale in cui è possibile l’annullamento delle leggi gerarchiche della causalità in nome della coincidenza degli enti.[27]

 

 Estratti da Io ho fatto tutto questo, spettacolo dedicato a Goliarda Sapienza, ©Maria Arena

Si spiega così l’immagine concentrica della spirale, ‘mortale’ e salvifica al tempo stesso, sottesa ai suoi testi e scelta come immagine-guida dell’opera teatrale. Questa metafora è, già a partire guarda caso dalla raccolta di poesie intitolata Ancestrale, «cronotopo del tormento memoriale»,[28] che Maria Arena prima dell’ultima emblematica scena finale estende a tutto lo spettacolo:

 

Avevo steso sulla scena una spirale di segni intorno alla sua morte e rinascita attraverso la scrittura lasciando che emergesse dalle parole scritte da Goliarda il lavorio silenzioso legato alla discesa nell’abisso di sé che la scrittrice compie in solitudine.[29]

 

Dopo la rievocazione del secondo suicidio, Daniela Orlando cade nel sonno del coma al centro di questa spirale, avvolta in scena dalla Goliarda-bambina, che srotola simbolicamente il ‘filo’ di quel gomitolo già usato e più volte richiamato letteralmente e metaforicamente. Si torna così al momento che aveva aperto lo spettacolo. Vengono proiettate di nuovo altre immagini della caverna iniziale, quel paesaggio immerso nel buio della memoria, per rappresentare nel tempo presente della scrittura (scenica) condivisa il ciclico riavvolgersi della memoria:

 

Con Nica accanto ripercorre la trama di tutte le ferite aperte dall’analisi, per fermare un’emorragia che rischia di lasciare il suo corpo secco come uno sterpo privo di vita. Il romanzo si avvolge in spire attorno ad esse e l’ultima ferita, infertale dall’inspiegabile interruzione dell’analisi, le riassume tutte. La voce dello psicoanalista torna dal passato e diviene il luogo in cui risuonano le voci di altri passati.[30]

 

Ecco perché Goliarda-bambina, dopo aver riavvolto il gomitolo di lana, avvicinandosi al corpo di Daniela Orlando inizia a recitare per la prima volta una sua poesia fino a risvegliarle il ricordo della sperimentazione catartica della scrittura, della rinascita dell’io come forma di rappresentazione culturale collettiva: «Io sono poesia», «Io ho fatto tutto questo».

Un videoclip di Carmen Consoli accompagna il finale dello spettacolo. Vestita di nero canta canzone Ognunu havi n’ sigretu, canzone scritta per lo spettacolo ispirandosi alle ultime pagine de Il filo di mezzogiorno che la regista le aveva fornito all’inizio della loro collaborazione. Lo spettacolo si chiude lasciando un segno forte che richiama la carica espressiva dei libri di Sapienza: tutto l’ambiente viene invaso da pagine sparse fisicamente in scena e virtualmente sullo schermo delle retroproiezioni, dove compaiono le immagini di alcuni manoscritti de L’arte della gioia, mostrati a Maria Arena dal secondo marito Angelo Pellegrino nella fase di ricerca visuale. La traccia delle parole è il seme di un ritorno in vita.[31]

 Estratto da Io ho fatto tutto questo, spettacolo dedicato a Goliarda Sapienza, ©Maria Arena

 

7. Epica intermediale

Gli inserti documentaristici con le video-testimonianze di Citto Maselli sono forse la cifra stilistica peculiare della regia di Maria Arena. Con la loro capacità di farsi percepire riflessivamente come scarti e soglie condensano, infatti, tutto il lavoro processuale, performativo e pragmatico sulla memoria in senso antropologico attivato attraverso immagini, forme e figure presenti nei testi e nello spettacolo. Del resto il progetto di Arena reca in sé un chiaro riferimento a Brecht che determina un effetto di straniamento performativo sia dei materiali che della partitura gestuale di Daniela Orlando. Io ho fatto tutto questo sembra muoversi, allora, nel solco di un’«epica intermediale»,[32] capace di sintetizzare la singolare incarnazione performativa del sapere attoriale di Goliarda Sapienza nella sua scrittura e il lavoro di reenactment condotto da Daniela Orlando su e attorno al corpo della stessa Goliarda.

 

Dall’idea che il soggetto attoriale costituisca il fuoco, la manifestazione figurativa di un’energia centripeta che investe gli elementi sparsi della cultura costringendoli a rinegoziare il proprio statuto sul palcoscenico, si sviluppa la riflessione sull’efficacia politica e didattica del teatro epico.[33]

 

Il montaggio fenomenologicamente dialettico, in senso benjaminiano, alla base di tutta la costruzione dello spettacolo esplicita le innumerevoli possibilità di configurazione visiva di sé, dell’altro e del mondo. L’intreccio di relazioni, aporie, paradossi e collisioni delle immagini documentarie si mostra allora capace

 

[…] non tanto di fissare oggetti e contenuti del ricordo, quanto al contrario di registrare queste fughe, questi ritorni alla realtà vissuta, queste aderenze con la vera organicità del sangue e dei rilievi delle cicatrici, questi vuoti che risucchiano o lasciano cadere nel silenzio e nella cecità il sostrato più profondo della memoria dei secoli e degli uomini. Nel pieno rispetto della memoria dell’Altro.[34]

1 Cfr. G. Sapienza, Lettera aperta, Torino, Einaudi, 2017; G. Sapienza, Il filo di mezzogiorno, Milano, La Tartaruga, 2003.

2 M. Arena, ‘Andare indietro per andare avanti. Quasi un diario’, Arabeschi, 9, gennaio-giugno 2017, p. 12.

3 M. Rizzarelli, Goliarda Sapienza. Gli spazi della libertà, il tempo della gioia, Roma, Carocci editore, 2018, p. 63.

4 P. Ruffini, ‘Ultimo novecento e ultra’, Culture teatrali, 24, 2015, p. 16 [dossier La terza avanguardia. Ortografie dell’ultima scena italiana, a cura di S. Mei].

5 Cfr. Sui rapporti tra nuova teatrologia e performance studies si veda M. De Marinis, R. Ferraresi (a cura di), ‘Pensare il teatro. Nuova teatrologia e performance studies’, Culture teatrali, n. 26, 2017; sullo spettacolo Io ho fatto tutto questo e i testi di Goliarda come esempi di ‘reti performative’ tra opere, pratiche e discorsi si veda C. M. Laudando (a cura di), ‘Reti performative. Letteratura, arte, teatro, nuovi media’, Intersezioni/Intersections, 14, 2015.

6 M. Arena, ‘Andare indietro per andare avanti’, p. 15.

7 Ivi, p. 13.

8 M. Arena, ‘Andare indietro per andare avanti’, p. 13.

9 Ibidem.

10 F. Raffo, ‘Topoi visivi, modalità narrative e residui testuali nel teatro contemporaneo: alcuni casi spettacolari’ in M. De Marinis, R. Ferraresi (a cura di), Pensare il teatro, pp. 249-265.

11 Questo concetto elaborato da Derrida può forse permettere di gettare un ‘ponte’ polidimensionale tra il progetto testuale e i processi performativi in esso inscritti della scrittura scenica, come suggerisce un caso di studio di Fabio Tommasini a proposito di alcuni libretti di ballo. Cfr. V. Di Bernardi, ‘Le funzioni dello spettacolo’ in M. De Marinis, R. Ferraresi (a cura di), Pensare il teatro, p. 164.

12 Riprendiamo qui il concetto di ‘macrotesto’ proposto da Maria Rizzarelli proprio a partire dai rapporti tra i due testi autobiografici alla base dello spettacolo che motivano il senso più ampio della loro scelta da parte di Maria Arena e le ricadute sulla strutturazione dello spettacolo. «Definiscono le coordinate spazio-temporali, le tematiche e il personalissimo stile di Sapienza, tanto da poter essere riconsiderati, pur nella peculiarità delle scelte formali, di ciascuna opera, il capitolo seminale di un macrotesto che si è strutturato in un arco di tempo più ampio rispetto alla cronologia di composizione delle singole opere, per lo più, dunque, in una dimensione postuma, confermando pertanto l’anomalia e forse l’anacronismo di una parola e di una voce sempre fuori dal coro, controcorrente rispetto al contesto in cui è vissuta» Cfr. M. Rizzarelli, Goliarda Sapienza, p. 21.

13 A. Langiano, ‘Lettera aperta: il ‘dovere di tornare’’, in G. Providenti (a cura di), «Quel sogno d’essere» di Goliarda Sapienza. Percorsi critici su una delle maggiori autrici del Novecento italiano, Roma, Aracne Editrice, p. 134.

14 M. Arena, ‘Il filo di mezzogiorno. Morte e rinascita attraverso la scrittura’, in G. Providenti (a cura di), «Quel sogno d’essere» di Goliarda Sapienza, corsivo mio, p. 150.

15 M. Rizzarelli, Goliarda Sapienza., p. 44.

16 Ibidem.

17 A. Carta, ‘Finestre, porte, luoghi reali e spazi immaginari nell’opera di Goliarda sapienza’, in G. Providenti (a cura di), «Quel sogno d’essere» di Goliarda Sapienza, p. 266, corsivo mio.

18 M. Arena, ‘Il filo di mezzogiorno, p. 150.

19 Cfr. P. Montani, L’immaginazione intermediale.

20 G. Sapienza, Il filo di mezzogiorno, Palermo, Sellerio, 2007, pp. 77-78.

21 A. Langiano, ‘Lettera aperta’, p. 139.

22 M. Andrigo, ‘L’evoluzione autobiografica di Goliarda Sapienza’, p. 118.

23 M. Rizzarelli, Goliarda Sapienza, p. 44.

24 A. Carta, ‘Finestre, porte, luoghi reali e spazi immaginari nell’opera di Goliarda sapienza’, p. 261.

25 C. Ross, ‘Identità di genere e sessualità nelle opere di Goliarda Sapienza: finzioni necessariamente queer’, in G. Providenti (a cura di), «Quel sogno d’essere» di Goliarda Sapienza, p. 226, corsivo mio.

26 M. Rizzarelli, Goliarda Sapienza., p. 52.

27 A. Langiano, ‘Lettera aperta, p. 138.

28 M. Rizzarelli, Goliarda Sapienza, p. 23.

29 M. Arena, ‘Il filo di mezzogiorno, p. 155.

30 Ivi, p. 153.

31 Nella prima versione del 2009 – poco prima del videoclip finale di Carmen Consoli - Daniela Orlando e Goliarda-bambina si reimmergevano nel pozzo della memoria, disvelato ora al pubblico. In un’atmosfera e scenografia ancestrale la prima, nei panni della madre, a volto scoperto, indossava lentamente una maschera bianca. L’apertura al pubblico di quel fondo rappresentava così la liberazione simbolica di Goliarda dalla figura della madre, nella presa di coscienza fluida e libera del proprio corpo dietro la maschera vitale pirandelliana della rappresentazione della nostra vita.

32 Cfr. F. Zucconi, ‘Epica intermediale. L’attore brechtiano e lo straniamento dei materiali’ in La sopravvivenza delle immagini nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità, Milano-Udine, Mimesis, 2013, pp. 151-156.

33 Ivi, p. 153.

34 A. Cati, Immagini della memoria. Teorie e pratiche del ricordo tra testimonianza, genealogia, documentario, p. 28.