Le performance di Tomaso Binga: una rilettura attraverso le fonti

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Abstract: ITA | ENG

L’articolo analizza le performance e le video azioni realizzate da Tomaso Binga agli esordi del suo percorso, attraverso lo studio incrociato di fonti fotografiche, scritte e orali, spesso inedite, al fine di rileggere un capitolo importante nel suo lavoro e di allargare lo sguardo ai nessi tra pratiche performative, linguaggi verbo-visivi e pensiero femminista nello specifico contesto storico-artistico e culturale dell’Italia degli anni Settanta. Le performance di Binga, riesaminate alla luce dei nuovi documenti rintracciati, vengono poste a confronto con le sue coeve opere verbo-visive e con il panorama più generale delle esperienze performative e comportamentali diffuse nell’orbita della poesia visiva e tra le artiste italiane della sua generazione che con lei condividono l’urgenza di lavorare sulle relazioni tra arte, azione e identità di genere.

This paper analyzes the performances and video performances made by Tomaso Binga at the beginning of her career, through the study of photographic, written and oral sources, often unpublished, in order to reread an important chapter in her work and to widen the view to the connections between performative practices, verbo-visual languages and feminist thought in the specific historical, artistic and cultural context of Italy in the seventies. Binga’s performances, re-examined in the light of the new documents found, are compared with her verbo-visual works and with the panorama of performative experiences diffused in the orbit of visual poetry and among the Italian women artists of her generation who shared the urgency of working on the relationships between art, action and gender identity.

 

 

 

Tramite la collega Irma Blank[1] nell’ottobre del 1976 Tomaso Binga, nom de plume di Bianca Pucciarelli, propone una mostra dei suoi ultimi lavori all’allora direttore della Biblioteca dell’Università di Amburgo, Rolf Burmeister. L’artista si dice pronta a realizzare «qualcosa di simile»[2] all’ambiente presentato alcuni mesi prima nella mostra Carte da parato, inaugurata il 17 maggio a Roma presso l’abitazione privata Casa Malangone.[3] In quell’occasione Binga aveva tappezzato per intero i muri della casa con rotoli di carta da parati a motivi floreali, sulla quale era intervenuta tracciando i segni grafici della sua scrittura ‘desemantizzata’, comparsa per la prima volta nel 1972 in alcune sculture appartenenti alla serie dei Polistirolo. In una lettera inedita spedita il 4 ottobre 1976 a Burmeister, Binga fa una breve ma efficace descrizione dell’opera:

 

Je travaille sur la parole et la phrase en les transformant en micro-écriture et je obtiens le résultat d’une dé-sémantisation. Je vous expédie en autre quelques photos d’une performance que j’ai fait à Rome, tapissant les parois d’une maison avec cartes d’ornement sur lesquelles j’ai tracé mon écriture.[4]

 

La scelta di Binga di definire l’opera con il termine performance, a questa data, può apparire singolare: a Casa Malangone, infatti, l’artista non aveva ancora animato l’ambiente con l’azione Io sono una carta, come avrebbe fatto invece nelle successive riproposizioni dell’opera nel luglio del 1977 nell’ambito dell’esposizione Distratti dall’ambiente alla Prima Biennale d’Arte Contemporanea di Riolo Terme o nel 1978 nella seconda tappa della rassegna al Museo Comunale d’Arte Moderna di Bologna. Più che riferirsi all’azione, concepita in un secondo momento, l’uso della parola performance si spiega quindi con il carattere contingente e transitorio dell’intervento stesso, progettato per uno spazio domestico destinato a essere vissuto e modificato, e con le componenti gestuali e corporee legate alla sua realizzazione. Data la natura effimera dell’opera, Binga avverte la necessità di documentarne anche il processo esecutivo, facendosi ritrarre al lavoro in una serie di fotografie scattate dall’architetto e fotografo Antonio Niego, confluite nel libro d’artista …& non uscire di casa[5] pubblicato a causa di ritardi editoriali soltanto nel 1977, ma già in cantiere nel 1976 grazie al supporto del poeta visivo Magdalo Mussio,[6] direttore artistico della casa editrice La Nuovo Foglio di Giorgio Cegna. Il volume, spesso trascurato dagli studi, fornisce chiavi di lettura utili per comprendere l’intervento a Casa Malangone e soprattutto per chiarire il perché Binga lo considerasse al pari di una performance. Definite da Binga come «un’analisi interpretativa dell’architetto Antonio Niego»,[7] le fotografie restituiscono infatti le componenti performative che caratterizzano l’opera. L’artista è colta in un incalzante corpo a corpo con lo spazio domestico: mentre traccia i segni della sua ‘scrittura silenziosa’ sui lunghi rotoli di tappezzeria distesi sul pavimento; in piedi su una scala mentre stende la colla sulle pareti; quando infine applica sui muri, rotolo per rotolo, la carta da parati. L’installazione, nella sua impermanenza, sopravvive attraverso la ripresa fotografica che, oltre a generare una nuova dimensione esperienziale e conoscitiva dell’opera, è anche un mezzo indispensabile per la sua storicizzazione. Da questo punto di vista l’ambiente a Casa Malangone pone dunque questioni interpretative non dissimili da quelle sollevate dalle numerose performance realizzate da Binga sin dagli esordi del suo percorso. Benché manchi a tutt’oggi una mappatura sistematica e a largo raggio sul contributo delle artiste italiane nel campo della performance, è indubbio che nella scena artistica degli anni Settanta Binga spicchi per la continuità e l’originalità con cui ha operato in questo ambito, nel segno di un’aperta adesione alle istanze del neofemminismo. La critica è concorde nell’assegnare un’importanza cruciale a questa fase del suo percorso,[8] ma alcuni episodi restano da chiarire. Anzitutto in che rapporto stiano le prime azioni video realizzate da Binga nel 1973 in occasione della mostra personale allo Studio Pierelli con le sue opere verbo-visive e con le più conosciute performance svolte nella seconda metà del decennio. Un interrogativo ancora aperto riguarda inoltre la direzione intrapresa dall’artista rispetto al panorama più generale delle esperienze performative e comportamentali diffuse nell’orbita della poesia visiva e tra le artiste italiane della sua generazione che, al pari di lei, operano sulle relazioni tra arte, azione e identità di genere. Condurre una ricognizione sulle prime performance di Binga attraverso lo studio incrociato di fonti fotografiche, fonti orali e scritte, tra cui molte lettere inedite, consente dunque di rileggere e approfondire una vicenda importante nel suo lavoro e di allargare lo sguardo ai nessi tra pratiche performative, linguaggi verbo-visivi e pensiero femminista nello specifico contesto artistico e culturale dell’Italia degli anni Settanta.

Tomaso Binga mentre lavora all’installazione Carta da parato a Casa Malangone, Roma 1976, foto Antonio NiegoTomaso Binga mentre lavora all’installazione Carta da parato a Casa Malangone, Roma 1976, foto Antonio Niego

 

1. Tre azioni videotape

Se l’ambiente a Casa Malangone è ben documentato attraverso le fotografie e la stampa dell’epoca, lo stesso non accade per le prime azioni realizzate da Binga all’alba del decennio, la cui documentazione è più frammentaria e lacunosa. Della prima video performance Vista Zero, eseguita il 24 settembre del 1972 in occasione della pionieristica mostra di video arte Circuito chiuso-aperto/Video Tape Recording nell’ambito della sesta edizione della Rassegna Internazionale d’Arte Contemporanea Acireale Turistico Termale, resta traccia in alcuni videogrammi e fotografie che, in assenza del videotape oggi disperso, ci hanno permesso di condurre un’analisi dell’azione.

Tomaso Binga, Vista Zero, fotografia della performance, Acireale 1972

Su questa vicenda ci si è concentrati in altra sede,[9] ma qui è utile sottolineare come l’opera sia particolarmente significativa non soltanto perché costituisce uno dei rari esempi di video performance realizzati da un’artista italiana nei primi anni di diffusione del mezzo nel nostro Paese, ma anche perché fa da ponte tra le prime sculture appartenenti al ciclo dei Polistirolo (il titolo e l’iconografia sono infatti tratti dall’omonimo polistirolo Vista Zero, datato 1971) e le performance svolte da Binga nel 1973 presso lo studio romano dello scultore Attilio Pierelli.[10] Benché i riferimenti alla cultura di massa e la pratica del collage tipici dei Polistirolo ritornino anche in Vista Zero (in particolare negli occhi spalancati tratti dalla réclame che l’artista s’incolla sul volto), l’opera segna una svolta verso la dimensione gestuale e performativa: dalla rappresentazione del corpo, soprattutto femminile, riprodotto nei Polistirolo mediante il montaggio di immagini prelevate dalla stampa, con Vista Zero l’artista passa all’uso diretto del suo corpo, ripreso in azione dalla tecnologia a circuito chiuso, che trasmette le immagini simultaneamente all’interno e all’esterno dello spazio espositivo. Vista Zero viene riproposta l’anno successivo, insieme alle performance Nomenclatura e L’ordine alfabetico, nella già ricordata mostra allo studio di Attilio Pierelli, coinvolto nelle attività della VideObelisco AVR (Art VideoRecording),[11] coordinate dalla primavera del 1971 dal fotografo e regista televisivo Francesco Carlo Crispolti, curatore insieme a Italo Mussa della mostra Circuito chiuso-aperto/Video Tape Recording ad Acireale. Diversamente da quanto si è pensato fin qui, dalle fonti documentarie sappiamo che anche in queste azioni l’artista fa ricorso alla ripresa video: in un elenco mostre inviato nel 1975 alla redazione di Giulio Bolaffi Editore, Binga indica infatti la personale allo Studio Pierelli come “Tre azioni” Videotape.[12] Alcune fotografie inedite della mostra, conservate nell’archivio dell’artista, mostrano inoltre la presenza di una videocamera in funzione, collocata su un treppiede in posizione centrale di fronte allo spazio destinato alle azioni. In questa fase, dunque, il video è per Binga un medium più congeniale di quanto si sia sinora pensato a causa della mancanza dei nastri. La perdita di tutti i videotape anni Settanta, tuttavia, non sorprende se la si guarda alla luce del più ampio panorama europeo dell’epoca, dove i video realizzati dalle artiste sono andati smarriti o distrutti in misura maggiore rispetto a quella dei loro colleghi uomini.[13] In assenza dei nastri è difficile stabilire se Binga si sia servita del mezzo in senso prevalentemente documentario, come supporto alla memoria e alla circolazione dell’evento, o se invece abbia condotto una sperimentazione più penetrante e più attenta alle specificità linguistiche dello strumento. Sebbene limitata a un novero ridotto di immagini, che restituiscono le performance in modo parziale e prive della loro dimensione fonetico-sonora, l’analisi delle fotografie d’archivio consente ulteriori riflessioni. Anzitutto, la presenza in alcune immagini di una lente deformante che inquadra la scena lascia supporre un’attenzione speciale rivolta alle modalità di ripresa dell’azione. Le fotografie, insieme ai ricordi dell’artista, sono inoltre fonti essenziali per ricostruire lo svolgimento delle performance. In uno dei pochi scatti che documentano Nomenclatura Binga si allontana dalla scena con indosso la tunica bianca già usata in Vista Zero; accanto a lei, un performer a torso nudo dà le spalle alla telecamera e al pubblico. In una seconda fotografia, l’artista è di nuovo al centro della scena, in abito scuro, mentre scrive su un cartellone il titolo della performance; alla sua destra, il performer è ancora in piedi con il corpo rivolto verso il muro, ma a braccia alzate. In un’altra immagine il performer, voltatosi verso la telecamera, distende il braccio, mentre l’artista gli tocca la mano.

Tomaso Binga, Nomenclatura, fotografia della performance, Studio Pierelli, Roma 1973

In una video intervista raccolta nel 2019,[14] Binga ricorda di avere tracciato a pennarello sul corpo del giovane i nomi dei muscoli in corrispondenza di quelli reali (bicipite, grande deltoide, cucullare ecc.) e di averli via via trascritti sul cartellone, dove era disegnata la sagoma di un uomo. L’artista ha inoltre annotato alcuni passaggi assenti nelle fotografie, che chiariscono il carattere sinestetico dell’azione: «Il ragazzo si gira lentamente, indico i sensi: occhi-vista, orecchie-udito, naso-olfatto, bocca-gusto, mani-tatto. Aggiungo il cuore che continuo a pronunziare ad alta voce e a trascrivere sul cartellone. Poi lentamente cancello tutto. Lascio solo la parola cuore che circoscrivo con la sua immagine».[15] Con un’attitudine tassonomica di marca concettuale, l’artista enuncia dunque una nomenclatura della muscolatura umana, che si richiama alle tavole di anatomia artistica alla base della formazione pittorica occidentale. Rispetto alle mappature corporee proposte negli stessi anni da artisti come Giuseppe Penone (Svolgere la propria pelle, 1970) o Enrico Job (Il Mappacorpo, 1974), dove a prevalere è l’interesse per lo statuto di soglia dell’epidermide, nell’azione di Binga l’accento si sposta sulla tautologia e sullo iato tra disegno, parola e corpo. Da questo punto di vista l’opera è vicina ai video della serie Transfer Drawings di Dennis Oppheneim, diffusi in Italia dal centro art/tapes/22, dove tuttavia la relazione tra i performer si carica di risvolti intimi (Oppeheneim coinvolge nell’azione i figli, Erik e Chandra) e più robusta è l’attenzione rivolta alle implicazioni temporali e fenomenologiche del contatto tra i corpi. Nomenclatura è l’unica tra le performance realizzate da Binga negli anni Settanta a prevedere la presenza di un performer di sesso maschile, a cui l’artista attribuisce una funzione passiva, più da modello che da attore: nell’azione viene dunque ribaltata la tradizionale divisione sociale dei ruoli uomo-donna, riconfermata invece in diverse performance svolte negli stessi anni nella scena artistica italiana, come ad esempio Lo scorrevole (1972) di Vettor Pisani, dove le donne assumono ruoli statici e dove «la nudità, in alcuni casi, non fa che accentuare la natura passiva di tali figure, anodine, impersonali, sottomesse a pratiche inutili, se non sgradevoli e umilianti».[16] Nel progetto iniziale di Nomenclatura il performer avrebbe dovuto essere completamente nudo, ma all’ultimo l’artista decide altrimenti.[17] Binga è infatti frenata da una forma di pudore che non è insolita tra le artiste italiane di questa generazione, più restie, come ha notato Francesca Gallo, a esibire senza mediazioni il proprio o l’altrui corpo nudo rispetto alle colleghe attive negli stessi anni nel panorama internazionale.[18] Differenza, quest’ultima, che salta all’occhio dal confronto delle azioni incluse nei primi repertori sulla performance pubblicati nel corso del decennio in Italia.[19] Cresciute in un contesto sociale condizionato dai precetti di una rigida educazione religiosa, le artiste italiane sembrano infatti faticare di più a liberarsi dal tabù del nudo, ma ciò non impedisce loro di condurre una critica serrata nei confronti delle rappresentazioni del femminile diffuse nella cultura cattolica. Nel farlo scelgono altre vie, dove il corpo della donna è spesso mediato dalla fotografia e posto in relazione alla parola: opere come Sana come il pane quotidiano (1964-1965) di Ketty La Rocca o LUCA, II – 49 (1977) di Libera Mazzoleni sono soltanto due esempi importanti tra i molti che si potrebbero fare. Su posizioni simili si orienta Binga: «Ho affrontato il pubblico con un lavoro femminista sulla dissacrazione dei miti. Questa volta è toccato alla religione»,[20] scrive l’artista a proposito dei lavori esposti alla mostra Litanie lauretane, in una lettera inedita inviata nel gennaio 1977 alla collega Giulia Niccolai, fondatrice insieme ad Adriano Spatola della rivista e collana editoriale di poesia d’avanguardia Tam Tam. Dalla lettera di Binga emerge di nuovo un certo imbarazzo nei confronti della nudità: «Ho fatto quindi un alfabeto base con il mio corpo… nudo (non ti scandalizzare troppo) e ora vado componendo le parole».[21] Nella serie delle Scritture viventi, cui si riferisce Binga, il corpo nudo non si presenta nella flagranza dell’azione, ma è filtrato attraverso le fotografie scattate in studio a Firenze da Verita Monselles, artista che in questi anni le è molto vicina. La nudità è inoltre priva degli accenti erotico-pulsionali che connotano molte tra le più radicali esperienze internazionali di Body Art e Art corporel, disseminate tempestivamente in Italia da riviste, libri e gallerie. Nelle performance di Binga, come in quelle di Ketty La Rocca, la dimensione corporea è infatti concepita nei suoi aspetti simbolici e riportata alla sfera codificata del linguaggio: il corpo è agito in relazione alla parola o, nello specifico delle Scritture viventi, si fa esso stesso parola. Non fa eccezione L’ordine alfabetico, l’ultima video performance allo Studio Pierelli, la più intessuta di riferimenti autobiografici e richiami al suo lavoro di insegnante e di vigilatrice scolastica: seduta a un tavolo con indosso un grembiule da insegnante, l’artista fa l’appello, pronunciando nomi e cognomi contenuti in alcune schede sanitarie usate all’epoca nella scuola per registrare le vaccinazioni degli alunni.[22]

Tomaso Binga, L’ordine alfabetico, fotografia della performance, Studio Pierelli, Roma 1973

L’artista rilegge poi i nomi in ordine alfabetico e suddivide le schede in due gruppi, uno per i nomi maschili, l’altro per quelli femminili; infine, una volta riunite, le impacchetta «con una carta da confezione, con perfezione» e «con fare molto sacrale»[23] le getta nell’immondizia. Al pari di Ketty La Rocca, maestra elementare, o di Carla Accardi, docente di educazione artistica alle scuole medie (da cui viene destituita nel 1971 per avere discusso di sessualità in classe),[24] Binga individua nella formazione scolastica un momento cruciale durante il quale i ruoli identitari vengono appresi e interiorizzati. Negli anni Settanta, in Italia, si sviluppa una decisa azione di contrasto alle forme autoritarie dell’istituzione scolastica, che trova un primo importante canale di diffusione nel volume L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola, edito da Einaudi nel 1971 a cura di Elvio Fachinelli, Luisa Muraro e Giuseppe Sartori, e nell’omonima rivista fondata dallo stesso Fachinelli con Lea Melandri, pubblicata a Milano tra il 1971 e il 1977. Il dibattito su «scuola e prassi femminista»[25] in questi anni è acceso: l’esperienza delle classi miste, pensate nell’ottica della coeducazione dei sessi, è un’acquisizione recente, sancita con la legge sull’Istituzione e l’ordinamento della scuola media statale (dicembre 1962), ma affermatasi pienamente soltanto nel decennio successivo, dopo una lunga stagione di classi separate e percorsi di studio distinti in base alle presunte inclinazioni ‘naturali’ e ai ruoli professionali tradizionalmente destinati alle donne e agli uomini. Scardinare l’ordine alfabetico per porre in discussione la distinzione binaria maschile/femminile è quindi per Binga un gesto politico, che si pone in continuità con la scelta di adottare uno pseudonimo maschile compiuta al suo esordio espositivo nel 1971. Scelta, quest’ultima, che inizialmente viene travisata o sottovalutata da una parte della critica e che l’artista nel 1975 si sente ancora in dovere di chiarire: «Vorrei aggiungere una piccola dichiarazione chiarificatrice a proposito del mio nome d’arte maschile, scelto non per rinnegare la mia condizione di donna ma per affermarla con più forza mediante lo spiazzamento e l’ironia»,[26] scrive Binga a Valentina Berardinone, in occasione dell’uscita della cartella di litografie realizzata nel 1975 da nove artiste per promuovere l’apertura della Libreria delle donne a Milano, progetto in cui Binga viene coinvolta da Accardi.

 

2. La dimensione performativa nella scrittura desemantizzata

L’opposizione binaria e la componente classificatoria presenti nell’Ordine alfabetico ritornano l’anno successivo nella performance Parole da distruggere/parole da conservare, ma l’uso della parola si fa ora più complesso e il carattere gestuale è rafforzato dal processo di desemantizzazione della scrittura dove, scrive Giulio Carlo Argan, «la regressione della parola a segno (ma la parola è data come già letta e recepita) conserva e comunica, anzi intensifica, il senso della comunicazione».[27]

Intervistata da Italo Mussa nel 1976, Binga fa risalire l’origine della scrittura desemantizzata a due polistirolo datati 1972, Attesa e Silenzio, nei quali la parola, reiterata «come un ammonimento ripetuto per secoli»,[28] è giustapposta alle immagini di volti femminili, l’uno collocato «dietro una finestra-prigione»,[29] l’altro reso muto dall’assenza della bocca. Questi lavori, insieme ad altri risalenti allo stesso periodo come Dissolvenza o Malinconia, sono gli antecedenti più diretti delle Lettere liberatorie, opere in cui Binga testa il limite tra comunicazione verbale ed espressione gestuale, tra scrittura alfabetica e disegno, ricorrendo, come farà in seguito nell’azione Ti scrivo solo di domenica (1978), alla lettera privata, genere che per la sua dimensione domestica e soggettiva è ampiamente diffuso tra le poetesse visive di questa generazione, si pensi ad esempio alle missive ornate di fili, ricami e petali essiccati realizzate negli stessi anni da Amelia Etlinger.[30] In questa fase la forma epistolare è infatti un terreno di indagine congeniale per le artiste, perché, come ha notato Mirella Bentivoglio nell’ormai storica mostra Materializzazione del linguaggio: «L’emarginazione ha disposto la donna, socialmente muta, al dialogo intersoggettivo dell’epistolario».[31] Nelle Lettere liberatorie Binga spinge i confini della parola oltre la soglia della leggibilità, in modo per certi aspetti affine a quello sperimentato da artiste a lei vicine in questo periodo come le già ricordate Irma Blank e Ketty La Rocca o Simona Weller e Dadamaino (quest’ultima si dice molto interessata alle Lettere liberatorie esposte da Binga nel 1975 alla Galleria il Cenobio Visualità di Milano e le propone di scambiarsi un lavoro).[32] Secondo la lettura data nel 1974 da Ermanno Migliorini in occasione della personale alla Galleria L’Obelisco di Roma, la scrittura di Binga:

 

si appiattisce, si deforma, si riduce a semplice traccia grafica, a mera voluta […]. Le parole, sottoposte a una radicale deformazione calligrafica, sembrano parole, ma non sono leggibili, o lo sono scarsamente, ambiguamente, faticosamente, lasciando sempre un’ampia zona di incertezza. La scrittura, appena promessa, annulla se stessa e i propri significati, si nasconde, si nega. Si assiste così, da un’opera all’altra, a un pervicace processo di desemantizzazione della scrittura.[33]

 

Dalla superficie del foglio nel 1974 la scrittura desemantizzata viene declinata nella dimensione dell’oggetto nell’Abbassalingua e negli Strigatoi – serie, quest’ultima, che chiama in causa il lavoro domestico non retribuito delle donne – per aprirsi alla sfera del comportamento nell’azione Parole da conservare/parole da distruggere. La performance inaugura le attività del Lavatoio Contumaciale, spazio alternativo aperto a Roma nel giugno 1974, diretto da Binga con la collaborazione del marito Filiberto Menna. Il nome del centro, pensato come «luogo di incontro, di amicizia, di aggregazione intellettuale»,[34] deriva dalla sua funzione originaria: un lavatoio adibito a bollire e disinfettare gli abiti e la biancheria di persone colpite da malattie infettive. Binga decide di mantenere questa espressione desueta per sottolineare il carattere marginale dello spazio e la funzione rigeneratrice degli eventi che vi si sarebbero svolti. Il Lavatoio è infatti concepito come un centro al di fuori dell’ufficialità dell’arte, un laboratorio autogestito, inclusivo, senza barriere fisiche che separino il pubblico dai performer e dai relatori, pensato per accogliere in un calendario fittissimo forme diverse di espressione artistica e culturale: cinema, teatro sperimentale, serate musicali, performance sonore, recital di poesia, presentazioni di libri, incontri e dibattiti su temi giuridici, medici, su progetti architettonici e programmi televisivi. Spinta dal carattere partecipativo del luogo, diversamente dalle azioni realizzate in precedenza, in Parole da conservare/parole da distruggere Binga affida al pubblico un ruolo attivo. In un primo momento l’artista scrive con colori diversi su due rotoli di carta appesi alla parete alcune parole che, come indicato nel titolo, intende conservare o distruggere, secondo un criterio oppositivo analogo a quello che animerà il libro di Cloti Ricciardi alfabeta (1975), dove è contenuto un elenco di vocaboli da «cancellare, eliminare, sostituire», contrapposti alle immagini da «cui cominciare a inventare nuove parole».[35] Via via che Binga continua a scrivere, la sua scrittura si fa meno comprensibile, le parole vengono snervate sino a divenire segni grafici illeggibili attraverso lo stesso procedimento di scrittura gestuale-performativa già adottato nelle Lettere liberatorie. In un secondo momento l’artista invita il pubblico a imitarla e ad aggiungere altre parole; infine taglia in piccoli pezzi il rotolo con le parole da conservare per donarle al pubblico, mentre brucia quelle da distruggere.[36] Dalla rassegna stampa dell’epoca, sappiamo che la performance provoca in sala una discussione animata, perché alcuni termini, tra cui ad esempio madre o padre, sono difficilmente riconducibili a una logica binaria. Anche all’interno di una cerchia per molti aspetti socialmente omogenea come quella del Lavatoio Contumaciale, le persone danno un valore diverso alle stesse parole a seconda delle esperienze e convinzioni individuali: la performance di Binga non agisce quindi soltanto sui confini tra segno verbale e segno grafico, ma anche sul limite tra la convenzionalità della parola e il suo valore soggettivo, tra langue e parole. La performance verrà riproposta senza variazioni sostanziali nella collettiva di sole donne curata da Romana Loda Coazione a mostrare (Palazzo Comunale di Erbusco, 1974), poi nella rassegna Campania Proposta Uno (Galleria Vanvitelli a Napoli, 1976), ma cambiando il luogo e il contesto, l’azione coinvolge pubblici diversi e provoca quindi risposte diverse. A Napoli il pubblico è quasi esclusivamente composto da uomini, alcuni lì per caso, mentre a Erbusco, come è prevedibile data la natura militante della rassegna, l’azione assume i toni battaglieri dei cortei femministi. Dalle fotografie scattate da Verita Monselles durante la performance emerge infatti una partecipazione corale da parte delle donne, che tra le parole da conservare includono simboli e scritte legati ai movimenti femministi, anche internazionali, come ad esempio il verso «J’aime les filles et je suis une fille» tratto dalla canzone J’aime les filles du MLF, reinterpretazione del successo di Jacques Dutronc proposta da Olivier Hussenet e Manon Landowski nel giugno del 1973 in occasione della Foire des femmes alla Cartoucherie di Parigi.[37] L’adesione alle battaglie per i diritti delle donne, condotta attraverso la resa performativa della scrittura desemantizzata, si ritroverà nel 1977 nell’azione Poesia muta, svolta anch’essa in una rassegna espositiva separatista, Dossier Donna, insieme alle performance di matrice alchemico-rituale di Fiorella Rizzo, Maria Roccasalva e Pina Scognamiglio.[38] Per l’occasione Binga declama al megafono l’omonima poesia, con alle spalle un rotolo con le tracce della sua chirografia indecifrabile, in una performance che mescola mimica, gestualità, voce, scrittura e disegno.

Tomaso Binga, Parole da conservare/parole da distruggere, fotografie della performance, Erbusco 1974, foto Verita MonsellesTomaso Binga, Parole da conservare/parole da distruggere, fotografie della performance, Erbusco 1974, foto Verita MonsellesTomaso Binga, Poesia muta, fotografia della performance, Salerno 1977

 

3. Scritture viventi

La dimensione gestuale presente già nella scrittura desemantizzata e nelle azioni che da essa prendono le mosse trova un ulteriore sviluppo nelle Scritture viventi, serie a cui Binga, come si è detto, lavora a partire dal 1976. In una lettera inedita inviata nell’aprile dello stesso anno a Gillo Dorfles, attento interprete della sua opera, Binga pone l’accento sull’«esercizio fisico» necessario a far sì che scrittura e corpo diventino un tutt’uno:

 

Ho sempre dato particolare importanza al supporto della scrittura adoperando oltre la carta, il polistirolo espanso, tavole di legno (“gli strigatoi”), buste, ecc. carta da parato, ecc. Da qualche tempo mi sono servito come supporto del corpo, del mio stesso corpo. Ma più che di supporto dovrei parlare di identificazione del corpo con le lettere dell’alfabeto, identificazione che ottengo attraverso una specie di esercizio fisico, una sorta di ginnastica che mi consente di fare entrare il mio corpo nei panni della scrittura, e viceversa.[39]

 

La lettura proposta da Binga viene ripresa e inquadrata in una prospettiva storica da Dorfles che, nella risposta inviata all’artista, individua un’affinità «con quella “visualizzazione corporea” dei suoni (fonemi) di cui si è occupata l’euritmia».[40] L’anno successivo, nell’ambito di una più vasta ricognizione sulla Body Art, il critico tornerà su questa interpretazione, ribadendo il legame tra le Scritture viventi e le pratiche euritmiche, accomunate a suo giudizio dall’uso «del proprio corpo come di un mezzo espressivo globale, capace persino di “scrivere” e di de-scrivere un concetto».[41] Secondo Dorfles il lavoro di Binga, al pari di quello di Ketty La Rocca, si discosta dalle «consuete performance della Body Art» per lo specifico impiego del corpo come strumento per «tradurre o trascrivere la parola».[42] Da questo punto di vista, le opere di Binga sono infatti più vicine alle esperienze basate sugli sconfinamenti tra corpo e parola maturate nell’ambito della poesia visiva, sonora e performativa, incluse da Renato Barilli nel 1975 nella sezione performances nella mostra Parlare e scrivere alla Galleria La Tartaruga di Roma, a cui partecipano, tra gli altri, La Rocca e Arrigo Lora-Totino. Quest’ultimo è autore di performance di Poesia ginnica, di chiara ascendenza futurista, dove la componente mimica e gestuale si associa alla sperimentazione sulla tessitura e gli impasti sonori della parola. Ma nelle Scritture viventi, come si è visto, l’‘esercizio fisico’ è mediato attraverso la fotografia, mezzo di cui Binga in questa fase si serve in più occasioni per la sua specifica aderenza al reale e la sua capacità di convocare, ma anche cristallizzare, la presenza del corpo in azione. Alla fotografia Binga ricorre nel giugno del 1977 in una delle sue opere più significative, Bianca Menna e Tomaso Binga. Oggi spose, svolta alla galleria Campo D di Roma, dove l’artista inscena un finto sposalizio con il suo alter-ego maschile. L’opera è nota, come pure le implicazioni connesse al cambio d’identità e alla contestazione dell’ordine maschile del linguaggio espresse attraverso l’uso incongruo del femminile nella parola spose.[43] Qui è sufficiente richiamare il carattere rituale del progetto nel suo complesso: aspetto, quest’ultimo, che lo avvicina al matrimonio fittizio celebrato da Nanda Vigo nell’agosto del 1972 a Calice Ligure, The mort beauti ful day in my life,[44] con la collaborazione di Renato Mambor nei panni dello sposo e di Fernando De Filippi in quelli dell’officiante. Anche nell’evento ideato da Binga si assiste infatti a una parodia dell’istituzione matrimoniale, nella quale vengono coinvolti artisti, critici, amici e parenti, che per l’occasione inviano lettere e telegrammi o portano regali propiziatori, esposti dall’artista il giorno dell’inaugurazione.

Tomaso Binga alla galleria Campo D di Roma durante l’inaugurazione della mostra-evento Bianca Menna e Tomaso Binga. Oggi spose, 1977

Binga riconosce come opera le due fotografie scattate da Roberto Bossaglia appese alle pareti della galleria (l’una che la ritrae nel giorno del suo vero matrimonio con Menna; l’altra realizzata ad hoc in abito maschile), ma il progetto, come si è detto, prevede l’azione e il coinvolgimento di più persone, di cui resta traccia tra gli oggetti e i materiali d’archivio conservati dall’artista: la cartolina con simboli fallici inviata da Tano Festa, i telegrammi di Dadamaino, Bruno Di Bello, Renato Guttuso, Franco Passoni, la fotografia dipinta inviata da Mambor, l’objet trouvé di sapore surrealista donato da Mirella Bentivoglio.[45] Il carattere partecipativo e conviviale dell’evento, insieme all’urgenza di porre in discussione il ruolo della donna entro le istituzioni familiari borghesi di un’Italia dove il nuovo diritto di famiglia è stato appena approvato (1975), erano presenti anche nell’azione di radice futurista Penne alla Binga e Sangrilla alla Monselles, realizzata in coppia con Verita Monselles soltanto poche settimane prima, il 27 maggio del 1977, presso lo spazio underground Out Off di Milano.[46] L’intervento di Binga si svolge a chiusura di una tre giorni di eventi artistici e culturali di chiara impronta femminista: una mostra di Andreina Robotti, la presentazione dei libri Maya di Lilli Pavoni e La gioia precede il nostro andare di Silvana Bellocchio, un monologo di Valeria Falcinelli da La carta gialla di Charlotte Perkins Gilman, l’esposizione di fotografie e video di Franca Sacchi, Cristina Kubisch e Jole de Freitas, un dibattito tra Franca Pivano, Paola Pitagora, Velia Mantegazza e le già ricordate Dadamaino e Nanda Vigo. In quest’occasione Binga cucina per i convitati e presenta una serie di cartelloni in cui le lettere della parola menu sono composte dal suo corpo nudo, giustapposte a un mucchio di pennini, in opposizione alla canonica scissione fra mente e corpo:

 

Rivalutare la cucina a livello mentale significa rivalutare la quotidianità del gesto femminile a livello artistico sensoriale. Il fantastico si fonde con l’economico ed il programmato. È l’arte come esperienza totale, fruita da tutti i nostri sensi, assimilata in cellule vitalizzanti. È l’opera d’arte che cresce, si trasforma, reinventa se stessa.[47]

 

L’azione, come il precedente intervento a Casa Malangone, va dunque letta alla luce del più ampio fenomeno di riappropriazione creativa del lavoro di cura domestica storicamente affidato alla donna, che negli anni Settanta diventa terreno di scontro politico ed estetico nelle opere e nelle performance di diverse artiste e collettivi femministi italiani, da La mamma è uscita di Milli Gandini, agli interventi del gruppo milanese le Pezze, ai travestimenti fotografici messi in scena in cucina nelle Sante di Silvia Truppi.[48]

 

4. Mia cara amica, ti scrivo solo di domenica

Nella seconda metà degli anni Settanta l’adesione di Binga alle istanze del femminismo si fa sempre più convinta e, come affiora dai carteggi conservati nel suo archivio, in questi anni la sua rete di rapporti con critiche e artiste si infittisce. Binga partecipa a tutte le rassegne espositive di sole donne curate da Loda (conosciuta nel 1974 tramite Laura Grisi), e prova tra l’altro ad aiutarla a organizzare una tappa della mostra Magma a Salerno, senza tuttavia riuscirci. Prende parte alla collettiva curata da Marisa Vescovo Segno-Identità: ipotesi-itinerario dentro la creatività femminile alla Pinacoteca Comunale Loggetta Lombardesca di Ravenna (1977), mostra che si proponeva come «un’ipotesi di percorso dentro i meandri della creatività femminile. Quella creatività che riconosce il proprio passato di silenzio e di assenza, lo analizza, lo storicizza, lo volge verso il futuro, riconvertendo così il proprio lungo cammino in un segno “altro” e “positivo”».[49]

Nello stesso 1977 Binga partecipa anche al programma espositivo tutto al femminile organizzato dalla Galleria Lamanuense di Parma, dove i suoi lavori e quelli di Monselles vengono introdotti da Anne-Marie Sauzeau Boetti, all’epoca già impegnata nella casa editrice femminista Edizioni delle Donne fondata con Manuela Fraire, Elisabetta Rasy e Maria Caronia. La sua ricerca viene presentata da Giulia Niccolai durante le conferenze dedicate alle poetesse visive italiane presso la UCLA di Los Angeles e l’Università di Sydney (1978). Mirella Bentivoglio la include inoltre nelle diverse mostre di artiste attive nel campo verbo-visivo da lei curate in Italia e all’estero: Tra linguaggio e immagine alla Galleria il Canale di Venezia nel 1976, Materializzazione del linguaggio nell’ambito della Biennale di Venezia del 1978, Front Page to Space alla Columbia University di New York nel 1979.

Tomaso Binga, Ti scrivo solo di domenica, fotografia della performance, Torino 1978

È per la rassegna espositiva d’impronta femminista Dossier Donna n. 3, curata da Mirella Bandini a Torino, che Binga progetta l’ultima performance realizzata nel corso del decennio, Ti scrivo solo di domenica, eseguita per la prima volta a Palazzo Carignano il 21 febbraio 1978, riproposta in poco più di un anno in altre tre sedi: il 31 maggio 1978 alla Galleria Fabjbasaglia di Bologna, il 12 marzo 1979 allo Studio Spazio Alternativo a Roma e due mesi dopo alla Loggia Rucellai a Firenze nella collettiva 7 critici x 7 artiste, definita da Binga come «una mostra femminista e polemica contro il potere… della critica»,[50] dove l’artista sceglie di essere presentata in catalogo da Dorfles, a cui è legata da una stima profonda. Lo scambio intellettuale con Dorfles in questa fase ha un peso cruciale per l’artista che «come donna» si è sentita «spesso emarginata e doppiamente perché maritata ad un critico».[51] Le fotografie scattate a Torino la ritraggono in un ambiente buio, vestita di nero, seduta a un tavolo con il volto illuminato da una lampada. In una lettera inedita spedita a Dorfles nel gennaio 1979, in vista della mostra fiorentina, Binga fa un’accurata descrizione della performance che serva da supporto al critico nella stesura del testo:

 

A Firenze vorrei presentare un lavoro accompagnato da un’azione. Il lavoro s’intitola “Ti scrivo solo di domenica” (ti spedisco un esemplare dell’opera tirata a mano): è ancora una proposta di lavoro al “femminile” nelle forme del diario e della confessione amicale. Vorrei presentare 365 fogli, sette per settimana. Di questi i primi sei sono bianchi e il settimo (quello della domenica) reca il “messaggio” inviato all’amica. La sera dell’inaugurazione mi siedo dietro un piccolo tavolo, con una lampada, e leggo “Mia cara amica, ti scrivo solo di domenica perché è l’unica giornata femminile della settimana” (la frase è ripetuta ogni volta ed è seguita dal messaggio vero e proprio che cambia ogni domenica).[52]

 

Quelli recitati da Binga sono messaggi brevi, lirici, scritti per confidare a un’altra donna speranze e disillusioni: «Partirò tra cinque settimane con una barca»; «Non parto più»; «Guardare le nuvole è come partire»; «La gravidanza è una danza pesante e solitaria». Dalle lettere rivolte all’amica emerge la sofferenza per una condizione femminile fatta di costrizione e isolamento, ma anche l’urgenza di riscatto: «La cultura è sopraffazione»; «Ho scritto una poesia d’amore alla pari». Come nelle Lettere liberatorie, Binga adotta una ‘scrittura dell’io’, eleggendo a suo campo d’azione e di autonarrazione la forma della lettera privata, che si fa specchio della dimensione soggettiva, ma riflette, in controluce, anche il ruolo della donna nello spazio pubblico (più tardi, per fare affiorare una genealogia femminile, l’artista ricorrerà anche al genere diaristico nell’installazione e performance Diario romano 1895-1995). In Ti scrivo solo di domenica i messaggi vengono recitati in modo cantilenante, come in una litania mariana: l’idea trae origine dalle precedenti Litanie Lauretane, serie di opere del 1976 appartenenti al ciclo delle Scritture viventi, che l’artista aveva esposto nel 1977 insieme all’Alfabetiere murale alla Galleria Blu di Milano, introdotta da Vincenzo Agnetti. L’artista, in una lettera inedita, aveva descritto con toni entusiasti il lavoro a Luca Palazzoli, direttore della galleria, come «molto bello, sia graficamente sia politicamente: evidente è la componente femminista».[53] Verosimilmente, come si evince da un’altra lettera spedita il 14 marzo 1977 al fondatore della Galleria Eremitani di Padova Aldo Tesi,[54] nella mostra alla Galleria Blu Binga aveva previsto di affiancare alle opere una registrazione sonora di litanie lauretane, soluzione che molti anni dopo riproporrà nel video Ti scrivo solo di domenica, realizzato nel 1995 come reenactment dell’omonima performance degli anni Settanta, esposto nel 2013 alla mostra personale Zitta tu… non parlare! alla Sala Santa Rita di Roma. È come se il cerchio simbolicamente si chiudesse: a distanza di circa due decenni, quando il suo lavoro è ormai al centro dell’interesse della critica e delle istituzioni dell’arte, Binga fa riaffiorare le tracce del suo passato e le pone in dialogo con l’oggi.

 

 


1 La corrispondenza, inedita, tra le artiste data al 1975. Nell’archivio privato di Tomaso Binga (da ora ATB) sono conservate tre lettere: la prima spedita da Irma Blank a Tomaso Binga (Milano, 28 maggio 1975); la seconda da Tomaso Binga a Irma Blank (Roma, 30 giugno 1975); la terza da Blank a Binga (Milano, 4 maggio 1976).

2 Lettera inedita di Tomaso Binga a Rolf Burmeister, Roma 4 ottobre 1976, conservata presso ATB.

3 Sull’opera e in particolare sulle sue implicazioni politiche si rimanda a R. Perna, Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta, Milano, Postmedia Books, 2013; S. Bottinelli, Double-Edged Comforts: Domestic Life in Modern Italian and Visual Culture, ‎Montreal, McGill-Queen’s University Press, 2021, pp. 63-67.

4 Lettera inedita di Tomaso Binga a Rolf Burmeister, v. nota 2.

5 T. Binga, …& non uscire di casa, collana Altro a cura di M. Mussio, Pollenza-Macerata, La Nuova Foglio Editrice, 1977.

6 Carteggio inedito tra Tomaso Binga e Magdalo Mussio, datato 1976-1977, conservato presso ATB. Da una lettera di Binga a Mussio scritta il primo aprile 1977 sappiamo che a questa data l’artista non ha ancora visto «neanche l’ombra dell’ombra di una bozza». Binga si raccomanda: «Fammi sapere qualche cosa al più presto. Non emarginare anche tu, come tutti, le… donne».

7 In una lettera inedita di Tomaso Binga a Magdalo Mussio, datata 26 agosto 1977, l’artista lo prega, invano, di aggiungere una postilla al volume, in cui venga sottolineato il ruolo di Niego: «Nel maggio del 1976 Tomaso Binga ha tappezzato con la sua carta da parato la Casa Malangone a Roma. Questo libro prende lo spunto da quell’intervento ambientale e si avvale, per il materiale iconografico, dell’analisi interpretativa dell’architetto Antonio Niego».

8 Su questo aspetto cfr. S. Zuliani, ‘Binga artista totale’, in A. Tolve, S. Zuliani (a cura di), Tomaso Binga. Scritture viventi, Salerno, Plectica editrice, 2014, pp. 11-21; P. Giannangeli, ‘Il doppio di sé e la filosofia della performance’, in A. Tolve, S. Zuliani (a cura di), Tomaso Binga. Scritture viventi, pp. 33-39.

9 R. Perna, ‘Vista Zero di Tomaso Binga: alle origini della videoarte in Italia’, in L. Cardone, E. Marcheschi, G. Simi (a cura di), Sperimentali. Cinema, video arte e nuovi media, Arabeschi, 16, luglio-dicembre 2020 <http://www.arabeschi.it/62-vista-zero-di-tomaso-binga-alle-origini-della-videoarte-in-italia/> [accessed 02.07.2021].

10 Lo studio di Attilio Pierelli all’epoca si trovava a Roma in via Guido Cavalcanti.

11 Attilio Pierelli partecipa con il video Sculture sonore alla videoserata organizzata il 14 maggio 1971 dalla VideObelisco AVR (Art VideoRecording), coordinata da Francesco Carlo Crispolti. Sull’argomento si rimanda a S. Bordini, ‘Videobelisco’, in V.C. Caratozzolo, I. Schiaffini, C. Zambianchi (a cura di), Irene Brin, Gaspero del Corso e la Galleria L’Obelisco, Roma, Drago Publishing, 2018, pp. 157-167.

12 Elenco mostre inviato da Tomaso Binga alla redazione di Giulio Bolaffi Editore, in risposta alla lettera spedita da Paolo Levi, Responsabile dei Cataloghi d’Arte Moderna di Bolaffi, il 22 settembre 1975, conservato in ATB.

13 S. Partridge, ‘‘Artists’ Television: Interruptions - Interventions’, in S. Partridge, S. Cubitt (a cura di), REWIND| British Artists’ Video in the 1970s & 1980s, New Barnet, John Libbey Publishing, 2012, p. 87.

14 Videointervista a Tomaso Binga raccolta dall’autrice il 25 marzo 2019. La videointervista è stata realizzata nell’ambito del progetto di ricerca Vocisullarte. Per un archivio di storia orale dell’arte contemporanea, coordinato da I. Schiaffini e C. Zambianchi, promosso dall’Università “La Sapienza” di Roma. I primi risultati della ricerca sono stati pubblicati negli atti dell’omonima giornata di studi svoltasi il 20 novembre 2019 presso il Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea; cfr. R. Perna, ‘L’intervista a Tomaso Binga’, in I. Schiaffini, C. Zambianchi, Vocisullarte. Per un archivio di storia orale dell’arte contemporanea, Roma, Campisano Editore, 2020, pp. 29-33.

15 Dattiloscritto non datato, pubblicato in S. Lux, M.F. Zeuli (a cura di), Tomaso Binga. Autoritratto di un matrimonio, Roma, Gangemi, 2004, p. 26.

16 F. Gallo, ‘Informare, osservare agire: riviste, performance e artisti’, Ricerche di storia dell’arte, 114, 2014, p. 14.

17 Videointervista a Tomaso Binga raccolta dall’autrice il 25 marzo 2019, v. nota 14.

18 F. Gallo, ‘Informare, osservare agire: riviste, performance e artisti’, p. 14; cfr. inoltre F. Gallo, ‘Temi di genere nelle pratiche performative delle artiste in Italia’, in I. Bussoni, R. Perna (a cura di), Il gesto femminista, Roma, DeriveApprodi, 2014, pp. 132-145.

19 Tra questi vanno perlomeno ricordati: L. Vergine, Il corpo come linguaggio. (La “Body Art” e storie simili), Milano, Giampaolo Prearo Editore, 1974; F. Alinovi, R. Barilli et al. (a cura di), La performance oggi. Settimana internazionale della performance. Bologna, 1-6 giugno 1977, Pollenza-Macerata, La Nuova Foglio Editrice, 1978; L. Inga-Pin (a cura di), Performances: Happenings, Actions, Events, Activities, Installations, Padova, Mastrogiacomo, 1978.

20 Lettera inedita di Tomaso Binga a Giulia Niccolai, Roma, 11 gennaio 1977, conservata presso ATB.

21 Ibid.

22 Dopo avere lavorato a Salerno come maestra elementare, negli anni Sessanta a Roma Binga svolge l’incarico di vigilatrice scolastica presso la Scuola Primaria Ferrante Aporti.

23 Videointervista a Tomaso Binga raccolta dall’autrice il 25 marzo 2019, v. nota 14.

24 Carla Accardi, professoressa ordinaria alle Scuole Medie Giovanni Papini di Roma, viene destituita dall’incarico il 15 luglio 1971 per avere discusso a lezione di sessualità. Il documento relativo al procedimento disciplinare, pubblicato in C. Accardi, Superiore e inferiore: conversazioni tra le ragazzine delle scuole medie, Roma, Scritti di Rivolta femminile, 1972 è riportato in <https://www.herstory.it/wp-content/uploads/2015/05/141a.jpg> [accessed 15.07.2021].

25 Così s’intitola l’articolo di Donata Francescato su effe, giugno 1976, <http://efferivistafemminista.it/2015/01/scuola-e-prassi-femminista/> [accessed 15.07.2021].

26 Lettera inedita di Tomaso Binga a Valentina Berardinone, non datata [1975], conservata presso ATB.

27 G.C. Argan, pieghevole della mostra Lettere liberatorie, Galleria Cenobio Visualità, Milano, 4 aprile 1975. Lo scritto in forma di lettera è datato Roma, 25 marzo 1975.

28 T. Binga, intervista di I. Mussa, ‘Dall’Oggetto all’Immagine alle lettere Liberatorie’, Capitolium, gennaio, 1976.

29 Ibidem.

30 Etlinger in questi anni frequenta l’ambito verbo-visivo italiano: l’artista è presente nel 1974 alla galleria Il Mercato del Sale di Ugo Carrega a Milano e nel 1975 al Collegio Cairoli a Pavia.

31 M. Bentivoglio, ‘Materializzazione del linguaggio’, in Ead. (a cura di), Materializzazione del linguaggio, Venezia, Biennale di Venezia 1978, Magazzini del Sale alle Zattere, 20 settembre-10 ottobre 1978, p. 2.

32 Lettera inedita di Dadamaino a Tomaso Binga, Milano, 14 aprile 1975, conservata presso ATB.

33 E. Migliorini, pieghevole della mostra Tomaso Binga, Roma, Galleria L’Obelisco, dal 10 al 26 aprile1974.

34 Pieghevole stampato in occasione del primo anno di attività del Lavatoio Contumaciale 1974-1975, conservato presso ATB. Sul carattere sperimentale del centro cfr. L. Mango, ‘Dal nome alla cosa’, in Lavatoio Contumaciale. I trenta anni del centro 1974-2004, Roma, Edizioni Il Filo, 2004, pp. V-VIII.

35 C. Ricciardi, alfabeta, Roma, Cooperativa Prove 10, 1975. Sul libro cfr. L. Iamurri, ‘Cloti Ricciardi, alfabeta’, in C. Casero (a cura di), Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni Settanta. Rispecchiamento, indagine critica e testimonianza, Milano, Postmedia Books, 2021, pp. 92-105; S. Bordini, ‘Focus: Alfabeta di Cloti Ricciardi’, Flash Art, 4 febbraio 2020 <https://flash---art.it/contributor/silvia-bordini/> [accessed 15.07.2021].

36 T. Binga, nota dattiloscritta, s.d., pubblicata in S. Lux, M.F. Zeuli (a cura di), Tomaso Binga. Autoritratto di un matrimonio, p. 41.

37 M. Storti, ‘La chanson du MLF’, in Femmes en chansons. Les Actes du Colloque chanté, Paris, Le Halle de la Chanson, 26-27 novembre 2010, <http://www.lehall.com/galerie/colloquefemmes/wp-content/uploads/2011/02/13-La-chanson-du-MLF-Martine-Storti.pdf> [accessed 15.07.2021].

38 Binga realizza l’azione sia in occasione della prima edizione della rassegna Dossier Donna, tenutasi a Pescara nell’ottobre del 1977, sia nella seconda, Dossier Donna 2, curata da Alberta De Flora alla Galleria Taide di Salerno alla fine dello stesso anno. Una descrizione della performance è contenuta nella recensione, non firmata, ‘Dossier donna’, Segno. Notiziario di arte contemporanea, musica, spettacoli, nuove espressioni, ottobre 1977, p. 13.

39 Lettera inedita di Tomaso Binga a Gillo Dorfles, datata 21 aprile 1976, conservata presso ATB.

40 Lettera inedita di Gillo Dorfles a Tomaso Binga, datata Milano, 22 aprile 1976, conservata presso ATB.

41 G. Dorfles, ‘La Body Art’, in R. Barilli, Id., F. Menna (testi di), L’Arte Moderna, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1977, vol. XIV, p. 242. (Datato 1975, il volume viene pubblicato nel 1977).

42 Ibidem.

43 R. Perna, Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta, pp. 44-45; M.F. Zeuli, ‘Diario di un matrimonio: conoscendo Bianca e/o Tomaso’, in S. Lux, M.F. Zeuli (a cura di), Tomaso Binga. Autoritratto di un matrimonio, pp. 29-39.

44 L’azione, promossa dalla Galleria LP 220 di Franz Paludetto, è documentata con questo titolo nel volume L. Inga-Pin (a cura di), Performances: Happenings, Actions, Events, Activities, Installations, ill. n. 106. L’azione fa parte di una tre giorni di performance, tenute il 25, 26 e 27 agosto 1972, organizzate dalla LP 220 a Calice Ligure e fotografate da Aldo Tutino. Un resoconto della rassegna è pubblicato in D’Ars, anno XIII n. 61/62, p. 174.

45 Una selezione di telegrammi, lettere e oggetti è stata esposta nella mostra Il volto sinistro dell’arte. Romana Loda e l’arte delle donne, a cura di R. Perna, Apalazzo Gallery, Brescia, 3 ottobre-30 novembre 2020.

46 Il centro viene inaugurato nel novembre del 1976 da Mino Bertoldo con l’azione di Hermann Nitsch Das Orgien Mysterien Theatre, n. 56.

47 T. Binga, citata nella recensione alla rassegna pubblicata in forma anonima e senza titolo su Segno. Notiziario bimestrale di arte contemporanea, n. 4, maggio-giugno 1977, p. 14.

48 C. Cristina, Gesti di rivolta. Arte, fotografia, femminismo a Milano 1975-1980, Milano, Edizioni delle Donne, 2020.

49 Comunicato stampa della mostra, conservato presso ATB.

50 Lettera inedita di Tomaso Binga a Plinio [De Martiis?], datata Roma, 30 aprile 1979, conservata presso ATB.

51 Lettera inedita di Tomaso Binga a Gillo Dorfles, s.d. [1979], conservata presso ABT. La lettera, scritta per ringraziare il critico per il testo redatto in occasione della mostra di Firenze, fa parte delle cosiddette ‘lettere creative’, in cui l’artista mescola la scrittura alfabetica ai segni del suo Dattilocodice.

52 Lettera inedita di Tomaso Binga a Gillo Dorfles, datata Roma, 29 gennaio 1979, conservata presso ATB.

53 Lettera inedita di Tomaso Binga a Luca Palazzoli, datata Roma, 22 marzo 1977, conservata presso ATB.

54 Lettera inedita di Tomaso Binga ad Aldo Tesi, datata 14 marzo 1977, conservata presso ATB.