6.2. 'Vista Zero’ di Tomaso Binga: alle origini della videoarte in Italia

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Nel settembre del 1972 Tomaso Binga, nome d’arte di Bianca Pucciarelli, partecipa alla sesta edizione della Rassegna Internazionale d’Arte Contemporanea Acireale Turistico Termale nella mostra Circuito chiuso-aperto / Video Tape Recording [figg. 1-2], coordinata da Italo Mussa con l’aiuto di Francesco Carlo Crispolti, direttore artistico della sezione. Nell’ambito della rassegna Binga realizza la video performance Vista Zero, trasmessa e registrata la sera del 24, mediante l’uso della tecnologia Video Tape Recording. Benché si tratti di un’esperienza isolata nel percorso dell’artista, Vista Zero segna un passaggio cruciale nel suo lavoro: ideata in relazione alla struttura sperimentale della rassegna, l’opera fa da ponte tra le prime sculture in polistirolo esposte nel dicembre del 1971 nella mostra personale L’oggetto reattivo allo Studio di arti visive ‘Oggetto’ di Caserta, diretto da Enzo Cannaviello, e le successive performance Nomenclatura e l’Ordine alfabetico realizzate nel novembre del 1972 presso lo Studio Pierelli di Roma. L’intreccio tra pratica performativa e uso creativo del sistema di ripresa e registrazione a circuito chiuso è dunque al cuore dell’opera di Binga. Chiamata a confrontarsi con le nuove possibilità estetiche offerte dal video, grazie all’invito di Mussa Binga è tra le primissime artiste in Italia a servirsi di questo medium. Vista Zero è infatti uno dei rari esempi di opere video realizzate da un’artista nei primi anni di diffusione del mezzo nel nostro Paese, insieme all’azione registrata Antibiotico / Registrazione con oggetto di cera e sintesi elettrica (1970) di Marisa Merz (unica presenza femminile alla rassegna bolognese Gennaio 70. III Biennale internazionale della giovane pittura. Comportamenti Progetti Mediazioni), al videotape Appendice per una supplica di Ketty La Rocca, esposto per la prima volta nel giugno del 1972 alla XXXVI Biennale d’arte di Venezia, e a Curvo Ricurvo (1972) di Maria Teresa Corvino, presentato alla rassegna di Acireale. Malgrado ciò l’opera di Binga è stata trascurata dagli studi storico-artistici dedicati agli esordi della videoarte in Italia, dove la prospettiva di genere fatica a farsi strada. A partire dagli anni Novanta la critica ha svolto una puntuale indagine sulle fonti, le opere, il lessico, le tecniche, i centri di produzione e circolazione del video, senza però interrogarsi sulla quasi totale assenza di artiste nelle prime rassegne video: dalla già menzionata Gennaio 70, alla sezione Telemuseo coordinata nel maggio del 1970 da Tommaso Trini nella manifestazione Eurodomus 3, sino alla prima videoserata promossa dalla VideObelisco AVR (Art Video Recording), curata da Francesco Carlo Crispolti il 14 maggio del 1971, dove non figurano artiste. L’analisi di Vista Zero consente quindi non soltanto di approfondire un capitolo significativo e poco conosciuto del lavoro di Binga, che segna l’inizio della sua attività performativa, ma anche di allargare il quadro della storia delle origini della videoarte in Italia, dove la sua esperienza è sin qui rimasta in ombra.

Riprendendo idee e pratiche già sviluppate con le attività della VideObelisco AVR, Crispolti ad Acireale prevede ampio spazio per il coinvolgimento del pubblico [fig. 3], invitato a intervenire e a servirsi della tecnologia video:

 

Una serie di televisori registrano gli eventi che accadono nelle fasi stesse della mostra, dentro e fuori, sicché tutti siamo coinvolti in un evento globale, simultaneo e avvolgente. La sera della inaugurazione, la folla si è finalmente sentita protagonista dell’accadimento estetico insieme agli artisti che hanno proposto una serie di azioni. Ciascuno dei presenti poteva intervenire e instaurare propri circuiti di comunicazione ed è significativo che siano stati proprio i ragazzi ad impadronirsi del microfono, posto all’ingresso del palazzo e a dare inizio a una fitta serie di comunicazioni improvvisate secondo gli umori e l’euforia del momento. L’accorta regia di Crispolti ha fatto il resto ritrasmettendo in ‘differita’ la rete degli eventi opportunamente miscelati, frammentati, intersecati gli uni negli altri, in modo da potenziare la sensazione di coinvolgente simultaneità dell’evento globale (Menna 1972).

 

Crispolti sposa la tesi secondo cui il video, con la sue qualità di immediatezza, simultaneità di ripresa e trasmissione, e capacità di feedback, si offre come strumento alternativo alla TV ufficiale:

 

una penna biro alla portata di tutti; possibilità per tutti di farsi la propria televisione, gestire e diffondere la propria informazione […] come guerriglia agli effetti inquinanti dei canali TV (e dei prodotti in cassetta) (Crispolti 1972).

 

La posizione critica espressa da Crispolti nei confronti dell’uso passivo dei mass-media si ritrova anche in Vista Zero. La video performance di Binga riprende infatti il titolo e l’iconografia dell’omonimo polistirolo Vista Zero, datato 1971 [fig. 4], esposto nella già ricordata mostra di Caserta, con il quale l’artista aveva dato avvio alla riflessione sulle derive tecnocratiche prodotte dalla civiltà dello spettacolo. Nel Polistirolo compaiono cinque sagome in rilievo di volti stilizzati, uguali e allineati a formare una scultura modulare vicina alle strutture paratattiche della Minimal Art: sui primi quattro ovali l’artista applica altrettante paia di occhi (prelevati da una réclame), che via via si fanno più piccoli, sino a scomparire nell’ultimo elemento della sequenza. Quelli che inizialmente sembrerebbero volti dalle sembianze femminili spensierati e ammiccanti, appaiono invece come forme inquietanti, identiche a sé stesse, simili a ingranaggi dell’industria fordista:

 

Si diceva di occhi, finestre, schermi immaginosamente disegnati nel polistirolo ma in esso, come in tutti gli oggetti industriali, le forme sono ripetute con l’ossessività del processo che resta sempre uguale a se stesso per le necessità della produzione. Nella sua trasfigurazione artistica esso non perde questa sua essenziale qualità: e l’interpretazione grafica segue la legge fondamentale dell’industria. Non una testa ma tante teste uguali si affacciano a quelle finestre, appaiono in quegli occhi o su quegli schermi. La ridondanza corrode qualsiasi iter comunicativo, qualsiasi figura retorica: ogni metafora decade al livello di uno straziante comunicato commerciale (Migliorini 1974).

 

Il conflitto tra vista e cecità presente nella scultura di Binga ritorna, secondo una declinazione diversa, nella video performance Vista Zero. Il video, oggi disperso, è documentato, oltre che dalla rassegna stampa dell’epoca e dal racconto dell’artista, da una serie di immagini fotografiche conservate nel suo archivio. Benché in modo frammentario e con caratteristiche estetiche e materiali diverse dall’originale, le fotografie consentono di ricostruire lo svolgimento dell’azione e di integrare le informazioni presenti nel catalogo della mostra, dove compaiono soltanto alcuni videogrammi [fig. 5] e i dati tecnici del videotape (l’azione faceva parte del ‘Videotape n. 1’, registrato tra le 18:45 e le 21:30 del 24 settembre 1972, su Master Philips VPL 6 IC). Avvolta in una tunica bianca, Binga è in piedi di fronte alla telecamera mentre si benda il capo con una garza sottile, muovendosi con gesti rituali [fig. 6]. Finita la vestizione, Binga inizia a incollare su entrambi i lati del volto cinque paia di occhi spalancati, tratti anche in questo caso da riviste e réclame [figg. 7-8]. All’apertura degli occhi finti – simulacro delle nuove protesi oculari prodotte dalla civiltà tecnologica – fa da contraltare, nell’ultima parte della performance, la chiusura delle palpebre dell’artista. A differenza del Polistirolo menzionato poc’anzi, la video performance mostra una nuova apertura nei confronti del corpo e della contingenza dell’azione ripresa e trasmessa su monitor in tempo reale, in modo da provocare una condizione di scollamento temporale e dislocazione spaziale che pochi anni più tardi, nel 1976, Rosalind Krauss avrebbe definito «il senso di un presente collassato» (Krauss 1976, p. 54). In Vista Zero l’accento si sposta infatti sulla visione decentrata del sé: Binga fa esperienza del proprio io percepito simultaneamente come soggetto dell’azione, immagine virtuale sdoppiata nei monitor (collocati all’interno e all’esterno dello spazio espositivo) e oggetto dello sguardo del pubblico. Su questa nuova condizione percettiva e psicologica, comune a molte video performance degli anni Sessanta e Settanta basate sul sistema a circuito chiuso, si innesta l’esperienza maturata da Binga nelle precedenti sculture in polistirolo, caratterizzate da una posizione critica nei confronti della pervasività dei media e della rappresentazione reificata del corpo della donna. In un’intervista raccolta da Mussa nel 1976, Binga spiega con chiarezza gli aspetti politici presenti nelle prime sculture, individuando con una lucidità che ha pochi riscontri nel panorama italiano di allora la necessità di porre in relazione pensiero femminista, ecologia e lotte per il lavoro:

 

L’inserimento delle immagini (ritagli di giornali, etc.) coinvolgeva il polistirolo in un discorso più complesso, di contestazione del mondo, o, meglio di tutto ciò che nel mondo non mi sembrava e non mi sembra si potesse accettare: la condizione della donna, la distruzione della natura, l’alienazione del mondo del lavoro (Binga 1976).

 

Benché alla video performance di Binga non sia estranea la qualità onirica di altre opere che riflettono in chiave simbolica sull’opposizione tra vista e cecità, come ad esempio il film Le Testament d’Orphée (1960) di Jean Cocteau (dove l’autore recita alcune scene coprendosi le palpebre con occhi spalancati dipinti), o l’opera rock Orfeo 9 (1970) di Tito Schipa jr., in Vista Zero la cecità non implica l’acuirsi delle facoltà immaginative e poetiche, com’era stato per Cocteau, per gli altri artisti del Surrealismo o, prima, della Metafisica e del Simbolismo. Facendo proprie le idee espresse all’inizio degli anni Sessanta dal Gruppo 70, e più in generale dalla Poesia Visiva italiana, Tomaso Binga vede infatti nella proliferazione di immagini mediatiche tipica dell’epoca contemporanea il rischio di un azzeramento della visione causato dall’eccesso di informazioni e dal consolidamento di stereotipi di genere. Se la cecità provocata dal doppio paio di lenti specchianti usate da Giuseppe Penone in Rovesciare i propri occhi (1970) proponeva un’estensione delle facoltà percettive e conoscitive dell’uomo – un ‘vedersi vedere’ differito nel tempo e nello spazio grazie all’uso del medium fotografico – l’accecamento di Binga, sul piano concettuale, è più vicino agli ingrandimenti fotografici eseguiti nei primi anni Settanta da Emilio Isgrò nella serie dei Particolari ingranditi, esposta nel 1974 alla Galleria Blu di Milano, dove al blow-up fotografico corrisponde la progressiva diminuzione di leggibilità dell’immagine, fino alla perdita completa della visione. Già nel 1965, facendo eco a Gillo Dorfles, Lamberto Pignotti si domandava se non si stesse correndo il rischio che la cultura contemporanea «anziché passare ai posteri come una “civiltà dell’immagine”» fosse destinata a passare come “un’immagine di civiltà”» (Pignotti, 1965). Queste riflessioni, al centro del dibattito della Poesia Visiva degli anni Sessanta e Settanta, vengono rilette da Binga in una chiave legata alle istanze femministe. Nella video performance (come nell’omonima scultura in polistirolo) la riflessione sulle dinamiche dello sguardo prende infatti le mosse da immagini connotate sul piano sessuale. Gli occhi artificiali indossati dall’artista non sono né quelli maschili scelti da Cocteau, né le lenti specchianti usate da Penone: quelli di Binga sono occhi iperfemminili, coperti da più strati di trucco, provvisti di ciglia finte, folte e curvate all’insù secondo la moda del momento. Mentre l’abito indossato dall’artista ricorda le tuniche bianche delle Vestali, obbligate alla castità, pena la condanna a essere sepolte vive. Un valore, quello attribuito alla verginità della donna, considerato all’epoca ancora molto importante in un Paese cattolico come l’Italia, dove, nel 1965, il 61% degli uomini desiderava per moglie una donna illibata, mentre l’81% rimpiangeva l’abolizione della case chiuse decretata nel 1958 dalla Legge Merlin. Come nei coevi polistirolo La cura del corpo, Donna in gabbia o Solo gli uomini volano (tutti del 1972), anche nella video performance Vista Zero Binga pone dunque l’accento sulla condizione di subalternità della donna, spinta a conformarsi a canoni di bellezza e di comportamento che la privano dello sguardo sul mondo e ancora prima su di sé.

 

 

Bibliografia

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