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Partendo dall’assunto del botanico Humboldt che solo un legame intatto tra uomo e natura – legato da conoscenza ed esperienza, empatia ed emozione – può essere la base di una civiltà sostenibile (Wulf 2017), possiamo constatare come la drammaturgia contemporanea si sia mostrata particolarmente adatta ad accogliere e rileggere le tematiche legate all’Antropocene. Nel presente saggio verranno analizzati diversi approcci teatrali alla tematica, strutturalmente accomunati per i propri formati drammaturgici ibridi, che confermano l’hypermedium teatrale (Auslander 2008) come efficace strumento di divulgazione e sensibilizzazione della società. Strumento critico che attraverso una relazione incarnata e un’esperienza diretta (Sofia 2015) –  anche quando mediata – stimola lo spettatore a una riflessione, il teatro dell’Antropocene viene rappresentato paradossalmente dal non-umano in scena. È infatti attraverso un teatro post-umano (Corvin 2014) che si offre allo spettatore quella visione/soluzione non antropocentrica, salvifica e alternativa all’Antropocene. Nelle performance scelte il dibattito attuale sulle questioni antropoceniche, come le emissioni di CO2 e l’atmosfera, l’acidificazione degli oceani e la perdita di biodiversità (Granata 2016), così come le questioni di diritto e giustizia, i diritti degli animali e della natura sono teatralmente esposte, divengono ‘materia narrante’.

Following up on botanist Humboldt’s assumption that only an intact bond between man and nature – connected by knowledge and experience, empathy and emotion – can be the basis for a sustainable civilization (Wulf 2017), we can see how contemporary dramaturgy has proved itself to be particularly well suited to accepting and reinterpreting issues related to the Anthropocene. This essay will analyze different theatrical approaches, structurally associated by their hybrid dramaturgical formats, which confirm the theatrical hypermedium (Auslander 2008) as an effective means of dissemination and awareness of society. As a critical tool that through an embodied relationship and direct experience (Sofia 2015) – even when mediated – stimulates the spectator to reflect, the theatre of the Anthropocene is paradoxically represented by the non-human on stage. A non-anthropocentric and alternative vision/solution to the Anthropocene is offered to the spectator through a post-human theatre (Corvin 2014). The current debate on Anthropocene issues such as CO2 emissions and the atmosphere, ocean acidification and biodiversity loss (Granata 2016), as well as issues of law and justice, animal rights and nature are theatrically exposed through the chosen performances, as ‘narrative matter’.

 

 

1. Introduzione

Gli strumenti di costruzione di una coscienza globale sull’attuale condizione di sfruttamento del pianeta – e sulle relative conseguenze ambientali – sono sovente frutto di un’ampia campagna di informazione pubblica condotta attraverso i media e i nuovi canali dell’informazione digitale. Eppure, il teatro può essere considerato un efficace strumento, non solo divulgativo ma anche persuasivo, per ciò che concerne le urgenti tematiche ecologiche e ambientali contemporanee.

 

 

Come temi drammatici, il cambiamento climatico e la crisi ecologica sfuggono al modello di una rappresentazione drammaturgica statica. È pertanto più opportuno approcciarsi ad essi pensandoli come degli hyperobjects, un termine coniato da Timothy Morton[2] per descrivere fenomeni che presentano, rispetto agli esseri umani, una tale dimensione/entità temporale e spaziale da poter essere visti solo in piccole parti – in singoli momenti – e la cui comprensione resta pertanto intrinsecamente difficile. Possiamo sperimentare direttamente il tempo atmosferico, ad esempio, ma il clima come sistema espanso e disperso rimane inaccessibile ai singoli individui, per quanto i potenti mezzi tecnologici attuali possano modellarlo bene. L’esempio di iperoggetto di nostro interesse è senza dubbio il riscaldamento globale, che a sua volta costringe l’essere umano a prendere coscienza che la sua esistenza si svolge di fatto all’interno di una continua serie di iperoggetti, che non esiste ‘un fuori’.

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Abstract: ITA | ENG

Le musica gestuale degli anni Sessanta delinea tracciati irregolari in cui le pratiche dell'azione in musica sono rilette attraverso una lente inter e mixed-media, svolgendo un ruolo di catalizzatore per sperimentazioni coeve quali quelle del Nuovo Teatro e della Poesia Sonora e, nello stesso momento,  contribuendo alla ricezione italiana di pratiche come gli happenings e gli events. Analizzando alcune esperienze di musica gestuale nel passaggio tra la prima e la seconda metà del decennio Sessanta, si viene evidenziando uno slittamento da una prospettiva apertamente teatrale ad una performativa, partecipando all'affermazione della nascente scena del Comportamento italiano. Siamo quindi nei territori delle discontinuità che caratterizzano i principali contesti disciplinari di quegli anni. Da quest’ottica ampiamente interdisciplinare posizioniamo il nostro sguardo leggendo le azioni di compositori quali Sylvano Bussotti, Giuseppe Chiari, Domenico Guaccero, Walter Marchetti, Frederic Rzewski e Richard Titelbaum, entrambi questi ultimi del Gruppo Musica Elettronica Viva (MEV), cercando di cogliere quell’instabilità pratica, teorica e terminologica – in fin dei conti “storica” – che l'arco temporale selezionato ci restituisce. Convinti che gli anni in questione possano ancora rivelarci nuove prospettive e aiutarci nella comprensione dei contenimenti che i decenni successivi hanno riserbato a queste pratiche effimere e transdisciplinari.

The ‘musica gestuale’ of the Sixties outlines irregular paths in which the practices of action in music are reinterpreted through an inter and mixed-media lens, playing a role of catalyst for contemporary experiments such as those of the New Theater and Sound Poetry and, in the same moment, contributing to the Italian reception of practices such as happenings and events. Analyzing some experiences of “musica gestuale” in the transition between the first and second half of the 1960s, a shift from an openly theatrical to a performative perspective is highlighted, participating in the affirmation of the nascent scene of Italian Behavior. We are therefore in the territories of the discontinuities that characterize the main disciplinary contexts of those years. From this widely interdisciplinary perspective, we position our gaze by reading the actions of composers such as Sylvano Bussotti, Giuseppe Chiari, Domenico Guaccero, Walter Marchetti, Frederic Rzewski and Richard Titelbaum, both of the latter of the Musica Elettronica Viva (MEV) Group, trying to grasp that 'practical, theoretical and terminological instability – ultimately ‘historical’ – that the selected time span gives us back. Convinced that the years in question can still reveal new perspectives and help us understand the containments that the following decades have reserved for these ephemeral and transdisciplinary practices.

 

Dalla fine degli anni Cinquanta avevano preso avvio trasformazioni colossali nel modo di lavorare e di vivere, di produrre e di consumare, di pensare e di sognare degli italiani.

 

Guido Crainz, Il paese mancato

 

A cavallo dei decenni Cinquanta e Sessanta l’Italia vive il cosiddetto boom economico, il momento in cui passa da nazione agricola e devastata dalla Seconda guerra mondiale a paese tra i più industrializzati d’occidente, questo anche grazie a politiche di sfruttamento del lavoro.[1] Gli effetti del boom si scorgono anche nei fenomeni migratori che coinvolgono per lo più giovani del sud diretti verso il nord del paese, con il conseguente mutamento della geografia sociale e di quella affettiva che si trascina carichi di relazioni interrotte e individualità trapiantate. Un paese in movimento. L’emancipazione dei costumi sembra passare dalla lente made in States del consumismo[2]

In questo contesto l’azione, intesa come presentazione in prima persona, incarnata nel proprio gesto (politico, creativo, didattico ecc.), potrebbe essere un paradigma per leggere il decennio. L’azione diventa strumento di svalutazione e delegittimazione di vecchie abitudini, prassi e norme, pratica di scardinamento, di messa in crisi e di deviazione dai codici acquisiti, tanto nel contesto socio-culturale e immediatamente politico quanto nelle arti.

Nei primi anni Sessanta questa messa in discussione delle norme e degli specifici disciplinari attraverso le pratiche dell’azione coinvolge soprattutto le ricerche teatrali e musicali. Durante il decennio si viene ad articolare la sfaccettata scena del Nuovo Teatro, con la rilevante ricaduta teorica ed operativa della ‘scrittura scenica’ in cui la composizione scenica subisce radicali mutamenti tesi all’autonomia dei linguaggi impiegati, alle loro interferenze disciplinari e a un generale ripensamento del fatto teatrale in aperto rifiuto della tradizione e delle logiche statali e parastatali di gestione dello spettacolo.[3] Allo stesso tempo, il Nuovo Teatro Musicale ha indicato utilizzi disarticolati e autonomi dello spazio acustico e dell’uso della voce fino ad allora inediti, andando ad intaccare anche le modalità d’uso del testo verbale[4] e rinnovando il rapporto spettacolo/spettatore attraverso approcci ‘immersivi’ o all’opposto partecipativi.[5]

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Il tono sarcastico di Bianca Pucciarelli Menna si rivela pregnante e femminista già a partire dagli anni Sessanta quando decide, in maniera critica e creativa, di prendersi gioco del sistema dell’arte e sceglie di ribattezzarsi al maschile usando il nome di Tomaso Binga. L’artista salernitana, classe 1931, confessa che nella scelta del nome ha rubato una emme a Tommaso Marinetti, un gesto radicale di radice futurista che denuncia anni di discriminazione sessuale e di privilegi accordati al genere maschile.

Dentro questa ambiguità di genere, giocosa ma seria, l’ironia di Binga mostra fin dai suoi esordi un doppio registro linguistico, un lessico che chiama in causa la parola scritta che diventa immagine, e l’immagine che ha la forza dialogica della parola. A ricordare questo tratto distintivo sono già i suoi primi lavori sulla scrittura verbo-visiva e sulla poesia visiva, in forma anche di performance; pratiche dell’arte come scrittura, che frequenta a partire dagli anni Settanta e che accompagneranno tutto il suo percorso artistico.

Dentro le norme che decodificano scrittura e immagine l’artista ha sempre incluso la sua stessa corporalità, una dimensione presente come ‘lingua-corpo’, che le ha consentito di riscrivere la sua vita attraverso uno sguardo femminile protagonista e critico.

Uno dei recenti innesti tra immagine, scrittura e corpo, a sostegno di una sorellanza sempre più necessaria, sempre più ritrovata, è stata la collaborazione con Maria Grazia Chiuri, fashion designer della maison Dior, che ha scelto per la sfilata prêt-à-porter della stagione autunno-inverno 2019-2020 di affiancare alle modelle le ‘donne lettere’ di Tomaso Binga, prelevate direttamente dalla serie Scritture Viventi del 1976 e dall’Alfabetiere Murale del 1977. Esibite all’interno degli spazi della sfilata, le sagome del corpo femminile nudo che mimano le lettere dell’alfabeto, s’incarnano per dar corpo alle parole, nell’intento di rigenerare ancora quel diritto, sempre meno sopito, dell’apparire e dell’essere donna, che la moda concede come gesto di rivolta e liberazione.

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  • [Smarginature] Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media →
  • Arabeschi n. 16→

 

{cardone_marcheschi_simi_intro_sperimentali_s_fig1| Athyrium Filix-Femina (For Anna Atkins) (Kelly Egan, 2016), 35mm, colore, 5 min. Cortesia dell'artista. Tutti i diritti riservati}

Il cinema sperimentale, così come la videoarte e l’arte dei nuovi media, sono da sempre linguaggi in cui ampia e significativa è la presenza delle donne (Blaetz 2008). È stata la Feminist Film Theory (Mulvey, 1978; De Lauretis, 1984; Silverman, 1988; Creed, 1993; Pravadelli, 2018) a farci comprendere con chiarezza che le pratiche audiovisive sperimentali hanno rappresentato tradizionalmente uno spazio privilegiato dell’agire femminile che, nell’assenza delle costrizioni economiche e censorie tipiche dell’industria cinematografica, ha trovato maggiore libertà di ricerca e di produzione. È infatti nel circuito indipendente e sperimentale, nei luoghi porosi dell’incontro con gli spazi e le pratiche dell’arte, che le donne sono riuscite a spostare i confini dell’(auto)rappresentazione e a costruire un laboratorio attivo dove poter sperimentare, ‘fare esperienza’, di nuove soggettività in divenire.

Tuttavia, se recenti ricerche all’incrocio tra Women’s Studies e Film Studies hanno fatto emergere, progressivamente, la densità e la specificità del ruolo delle donne nell’industria cinematografica, più complessa è l’analisi della produzione sperimentale, che resta ancora poco esplorata e in attesa di essere ritracciata e ridefinita in una più ampia prospettiva storico-teorica.

I saggi raccolti in questo numero di Smarginature ci consegnano una prima mappatura delle poliedriche forme della sperimentazione femminile, in una costellazione di pratiche e di opere dove affiorano rimandi formali, tematici, teorici: a partire dalle origini del cinema, in un momento di effervescenza teorica e produttiva in cui più estese sono le zone di ibridazione tra il film e le arti (Lischi 2004), passando per la stagione più intensa dello sperimentale, con la nascita del video e dell’espansione del cinema nelle forme installative e ambientali (Dubois 2006; Lischi 2003), per arrivare, infine, a quella «condizione post-mediale» (Krauss 1999) che ha aperto a nuove esplorazioni dell’audiovisivo.

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In ritardo rispetto alle traduzioni in altre lingue europee, appare finalmente anche in edizione italiana, grazie all’editore Carocci, questo consistente volume di Erika Fischer-Lichte, studiosa fra le più autorevoli della storia e della teoria del teatro. La chiara introduzione e la traduzione meditata e impegnativa sono di Tancredi Gusman.

Estetica del performativo parrebbe sulle prime rimandarci al vivace campo discorsivo dei performance studies, che negli ultimi decenni hanno mostrato come sia possibile riformulare l’analisi della cultura, nelle sue varie manifestazioni, a partire dai paradigmi della performance e della performatività. Tuttavia, l’ambiziosa proposta di Fischer-Lichte è quasi opposta alle linee di sviluppo dei performance studies di area americana (da Richard Schechner a Diana Taylor, per intenderci). Questi hanno postulato l’estensione della categoria di performance oltre il campo ristretto delle arti della scena, a includervi le performance politiche, sociali, sportive, mediatiche, e hanno negato la priorità dell’estetica nella definizione e analisi degli eventi performativi, compresi quelli artistici (come ha spiegato Fabrizio Deriu nella sua introduzione a Magnitudini della performance di Schechner). La proposta di Fischer-Lichte muove invece in senso contrario (come nota anche Marvin Carlson nell’introduzione all’edizione inglese del volume di Fischer-Lichte, The Transformative Power of Performance, 2006). Gli oggetti di studio da lei considerati sono infatti le performance artistiche e in particolare il teatro, l’arte di azione (Aktionskunst) e la performance art, nei loro sviluppi intrecciati in Occidente, dal secondo Novecento ad oggi; e la studiosa rivendica la priorità dell’estetica come disciplina atta a comprenderne e spiegarne il funzionamento, e la necessità di rinnovarne i paradigmi e le concettualizzazioni tradizionali per argomentare appieno la ‘svolta performativa’ che caratterizza l’indirizzo delle arti della scena (e delle arti tout-court) negli ultimi decenni.

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