Tra Arte e Scienza. Antropo(s)cene ed eco-drammaturgie teatrali contemporanee

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Partendo dall’assunto del botanico Humboldt che solo un legame intatto tra uomo e natura – legato da conoscenza ed esperienza, empatia ed emozione – può essere la base di una civiltà sostenibile (Wulf 2017), possiamo constatare come la drammaturgia contemporanea si sia mostrata particolarmente adatta ad accogliere e rileggere le tematiche legate all’Antropocene. Nel presente saggio verranno analizzati diversi approcci teatrali alla tematica, strutturalmente accomunati per i propri formati drammaturgici ibridi, che confermano l’hypermedium teatrale (Auslander 2008) come efficace strumento di divulgazione e sensibilizzazione della società. Strumento critico che attraverso una relazione incarnata e un’esperienza diretta (Sofia 2015) –  anche quando mediata – stimola lo spettatore a una riflessione, il teatro dell’Antropocene viene rappresentato paradossalmente dal non-umano in scena. È infatti attraverso un teatro post-umano (Corvin 2014) che si offre allo spettatore quella visione/soluzione non antropocentrica, salvifica e alternativa all’Antropocene. Nelle performance scelte il dibattito attuale sulle questioni antropoceniche, come le emissioni di CO2 e l’atmosfera, l’acidificazione degli oceani e la perdita di biodiversità (Granata 2016), così come le questioni di diritto e giustizia, i diritti degli animali e della natura sono teatralmente esposte, divengono ‘materia narrante’.

Following up on botanist Humboldt’s assumption that only an intact bond between man and nature – connected by knowledge and experience, empathy and emotion – can be the basis for a sustainable civilization (Wulf 2017), we can see how contemporary dramaturgy has proved itself to be particularly well suited to accepting and reinterpreting issues related to the Anthropocene. This essay will analyze different theatrical approaches, structurally associated by their hybrid dramaturgical formats, which confirm the theatrical hypermedium (Auslander 2008) as an effective means of dissemination and awareness of society. As a critical tool that through an embodied relationship and direct experience (Sofia 2015) – even when mediated – stimulates the spectator to reflect, the theatre of the Anthropocene is paradoxically represented by the non-human on stage. A non-anthropocentric and alternative vision/solution to the Anthropocene is offered to the spectator through a post-human theatre (Corvin 2014). The current debate on Anthropocene issues such as CO2 emissions and the atmosphere, ocean acidification and biodiversity loss (Granata 2016), as well as issues of law and justice, animal rights and nature are theatrically exposed through the chosen performances, as ‘narrative matter’.

 

 

1. Introduzione

Gli strumenti di costruzione di una coscienza globale sull’attuale condizione di sfruttamento del pianeta – e sulle relative conseguenze ambientali – sono sovente frutto di un’ampia campagna di informazione pubblica condotta attraverso i media e i nuovi canali dell’informazione digitale. Eppure, il teatro può essere considerato un efficace strumento, non solo divulgativo ma anche persuasivo, per ciò che concerne le urgenti tematiche ecologiche e ambientali contemporanee.

 

[…] se gli inventori di performance culturali – sia quelle attribuite ad “autori individuali” sia quelle rappresentative di una tradizione collettiva – “mettono lo specchio davanti alla natura”, lo fanno con specchi magici che rendono brutti o belli eventi o rapporti che non possono essere riconosciuti come tali nel continuo flusso della vita quotidiana in cui siamo invischiati. Gli specchi stessi non sono meccanici: essi operano come coscienze riflettenti e le immagini riflesse sono il prodotto di tali coscienze modellato in vocabolario e regole, in grammatiche metalinguistiche per mezzo delle quali possono essere generate nuove performance senza precedenti.[1]

 

Come temi drammatici, il cambiamento climatico e la crisi ecologica sfuggono al modello di una rappresentazione drammaturgica statica. È pertanto più opportuno approcciarsi ad essi pensandoli come degli hyperobjects, un termine coniato da Timothy Morton[2] per descrivere fenomeni che presentano, rispetto agli esseri umani, una tale dimensione/entità temporale e spaziale da poter essere visti solo in piccole parti – in singoli momenti – e la cui comprensione resta pertanto intrinsecamente difficile. Possiamo sperimentare direttamente il tempo atmosferico, ad esempio, ma il clima come sistema espanso e disperso rimane inaccessibile ai singoli individui, per quanto i potenti mezzi tecnologici attuali possano modellarlo bene. L’esempio di iperoggetto di nostro interesse è senza dubbio il riscaldamento globale, che a sua volta costringe l’essere umano a prendere coscienza che la sua esistenza si svolge di fatto all’interno di una continua serie di iperoggetti, che non esiste ‘un fuori’.

Il contesto in cui si articola questa analisi critica – in fieri – è quello dell’eco-drammaturgia, ovvero quella prassi teatrale che pone al centro le relazioni ecologiche, evidenziando i confini fluidi e permeabili costruiti tra natura e cultura, umano e non umano, individuo e comunità. Le fasi di sviluppo di un’eco-drammaturgia, che comprende sia il lavoro artistico del ‘fare teatro’ sia quello critico legato alla ricostruzione storica e alla drammaturgia, possono essere identificate – secondo la studiosa di eco-teatro Theresa J. May – [3] in tre passaggi, tre attività fortemente correlate tra loro:

 

(1) esaminare il messaggio ambientale, spesso invisibile, di un’opera teatrale o di una produzione, rendendone esplicite le ideologie e le implicazioni ecologiche; (2) utilizzare il teatro come metodologia per affrontare i problemi ambientali contemporanei (scrivere, ideare e produrre nuove opere teatrali che affrontino questioni e temi ambientali); (3) esaminare come il teatro, in quanto arte “artigianale”, crei la propria impronta ecologica e lavori sia per ridurre gli sprechi sia per inventare nuovi approcci alla “lavorazione della materia”.[4]

Le linee che si tracceranno non intendono essere descrittive o esaustive; sono semplicemente un tentativo di mostrare alcune pratiche eterogenee di eco-teatro (Green Theatre) che si confrontano con il tema dell’Antropocene o che sviluppano il proprio processo creativo a partire da pratiche sostenibili ed ecologiche. Non si intende presentare un elenco di testi teatrali che trattano della natura né tantomeno ricostruire un legame che è di per sé primigenio e costitutivo del teatro – quello con l’ambiente secondo le diverse accezioni – ripercorrendo storicamente la linea che va dalla filosofia naturale del teatro classico antico al teatro shakespeariano, giungendo fino alla drammaturgia contemporanea.[5] Si vuole partire da alcuni esempi teatrali recenti, presentandoli attraverso una lente di analisi rizomatica per mostrare come il teatro – in quanto luogo di relazioni – ha spontaneamente accolto quella che forse si è rivelata essere la più complessa per l’uomo: la relazione con il cosmo e l’ambiente di cui è parte.

Gli studi anglosassoni sull’eco-teatro rimarcano come spesso si confonda ciò che lo studioso Richard Schechner, sul finire degli anni Sessanta, ha definito teatro ambientale (Environmental Theatre)[6] con ciò che invece è l’eco-teatro. Schechner, infatti, proponeva un ripensamento della relazione tra lo spazio in cui ha luogo l’evento ‘casuale’ – o la rappresentazione teatrale tradizionale – e quello in cui si situa il pubblico.

Il teatro ambientale in modo nuovo, congegnato ogni volta ad hoc, usciva dai luoghi canonicamente dedicati in modo da non trascurare le relazioni e le tensioni interne alla performance, ovvero quelle dinamiche comunicative che si instaurano anche tra gli elementi materiali che ne fanno parte, non considerando come agenti solo quelli viventi.[7]

La presente analisi eco-drammaturgica si riferisce a un teatro che genera da un lato una forma di coscienza attraverso la trasmissione di conoscenza e, dall’altro, lo stimolo di una riflessione verso una possibile trasformazione della realtà, attraverso una pratica performativa alternativa.[8]

Uscire dall’ambito delle scienze biologiche e portare il tema dell’ecologia in un discorso artistico e performativo implica un coinvolgimento creativo e immaginativo, in quanto l’ecologia comprende tutti i modi in cui immaginiamo di vivere insieme. Essa riguarda, fondamentalmente, la coesistenza tra esseri viventi[9] ed è per questo che il teatro costituisce, senza dubbio, un luogo privilegiato per discuterne e generare una spinta attiva nella comunità.

Sul palcoscenico, come in una ‘sala degli specchi’ – prendendo in prestito le parole dell’antropologo Turner – i riflessi sono molteplici, alcuni ingrandiscono, altri deformano i volti che si specchiano, spesso in modo da provocare non soltanto dei pensieri nella mente di chi li guarda, «ma anche potenti emozioni e la volontà di modificare l’andamento delle faccende quotidiane. Infatti, a nessuno piace vedersi brutto, sgraziato, nano. Le deformazioni nello specchio provocano la riflessività».[10]

La nostra attenzione è dunque indirizzata alle modalità teatrali in cui i vari elementi di creazione di significato – drammaturgico e performativo – si relazionano con alcuni dei principali temi ecologici: cambiamento climatico, estinzione delle specie, consumo di energia; a performance o spettacoli in cui lo spazio dell’intimità e lo spazio del mondo diventano consonanti e i luoghi scelti sfuggono all’anonimato, riacquistando una valenza antropologica poiché si dimostrano «identitari, relazionali e storici».[11] Spettacoli-conferenze in cui, considerate le basi estetiche classiche, nel teatro postmoderno[12] si vede crollare la distinzione arte/vita, finzione/realtà. Negli anni Duemila, infatti, emerge una nuova estetica composta da interazioni e trasformazioni, una possibilità di far cooperare e interagire elementi anche apparentemente distanti come la scienza, la tecnologia e la natura.

Sebbene le questioni ambientali abbiano interessato i drammaturghi per tutto il XX secolo, la nascita dell’eco-drammaturgia come discorso critico che esamina il ruolo del teatro di fronte alle crescenti crisi ecologiche può essere fatta risalire al 1994, quando un numero storico di «Theater»[13] viene dedicato al tema dell’ecologia, come oggetto di analisi affrontato anche dagli studi teatrali. Il teatro e la performance art, infatti, possono offrire un approccio del tutto peculiare nel loro impegno con le tematiche ambientali e climatiche fornendo delle chiavi di lettura, comprensione ma soprattutto il riconoscimento consapevole di ciò che circonda l’umano. Il potere del teatro di produrre cambiamenti nella coscienza umana, mediante la combinazione di arte e realtà, estetica e mondo, è da sempre riconosciuto come unico.[14]

Le posizioni teoriche riguardo il ruolo e il coinvolgimento del teatro con l’attuale pressante tematica della crisi ambientale e dell’Antropocene si dividono in due visioni molto distanti tra loro. Entrambe, a nostro parere, meritevoli di essere menzionate. La prima, più tradizionale e di approccio storico, si rifà alla storia del teatro occidentale, densa di opere in cui la natura gioca un ruolo significativo, basti pensare ai testi di William Shakespeare, al Giardino dei ciliegi di Anton Čechov o ancora, all’arido paesaggio post-apocalittico di Aspettando Godot di Samuel Beckett. La seconda, più provocatoria, presentata nell’articolo di Una Chaudhuri There Must Be a Lot of Fish in that Lake: Toward an Ecological Theater, sostiene che sono le origini umanistiche del teatro a renderlo ‘anti-ecologico’. Infatti, a suo avviso, gli artisti contemporanei che lavorano con temi ecologici sono stati ostacolati da una tradizione teatrale che definisce il dramma come «un conflitto tra e sugli esseri umani».[15][16]

Eppure, sembrerebbe riduttivo fermarsi a un assunto che neghi totalmente qualsiasi potenziale fattuale ecologico del teatro. Per capire in che modo il contesto drammaturgico – testuale e scenico – possa essere qualificato appunto come ‘ecologico’ può essere utile il rimando alle caratteristiche fondanti individuate nella sua definizione di immaginazione ambientale, da Lawrence Buell,[17] figura pionieristica dell’eco-critica letteraria.

Questi aspetti di base, che combinano livelli tematici, narrativi ed etici, riguardano in primo luogo ‘l'ambiente non umano’, considerato non come semplice ambientazione, ma come presenza che tende a suggerire che la storia umana è coinvolta nella storia naturale. In secondo luogo, l’interesse umano non è considerato l’unico legittimo. A seguire, la responsabilità umana nei confronti dell’ambiente fa parte dell’orientamento etico del testo. Infine, il tema dell’ambiente viene affrontato come un insieme di processi e non come una costante o un dato di fatto ed è sempre presente – almeno implicitamente – nel testo.[18]

Considerando che il termine ‘ambiente’ designa non solo gli spazi esterni naturali ma anche tutti gli ambienti di vita, sembra plausibile che, combinando questi aspetti nell’ambito delle arti performative, si possano individuare delle tecniche teatrali ascrivibili al filone del già menzionato eco-teatro. Un’etichetta, questa, sotto la quale si trovano sia le opere che affrontano temi ambientali, mirate alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica o alla sollecitazione di un intervento di cambiamento, sia quelle che esplorano l’essere umano nel mondo naturale, in modo tale che lo spettatore, una volta uscito dal teatro, possa ‘sentire’[19] in senso filosofico e sinestetico le ‘cose’ intorno a lui come più vive e percepire un senso più profondo della propria identità ecologica.

 

2. Un teatro in connessione con l’ambiente

L’arte, la filosofia e la performance possono rivelare, mettere in discussione e immaginare ‘come viviamo insieme’ in modi culturalmente e socialmente diseguali. Sebbene tutta l’arte possa essere considerata, attraverso la sua forma materiale, come impattante a livello ecologico, le pratiche teatrali e performative di nostro interesse sono quelle che ‘fanno qualcosa’: rivelano, criticano, problematizzano ed estendono il pensiero delle relazioni ecologiche in un modo o nell’altro.

Questi percorsi di collegamento tra teatro ed ecologia, quelli che abbiamo chiamato di eco-teatro, sono stati classificati sotto tre diverse categorie dalla studiosa francese Julie Sermon.[20] La prima di queste forme di collegamento è quella detta ‘tematica’, in cui gli artisti si occupano di problemi ecologici (crisi climatica, biodiversità, giustizia ambientale...). La maggior parte delle volte con l’obiettivo di informare il pubblico, seguendo una prospettiva pedagogica; più di rado attraverso una visione più critica o militante, sulla falsariga dei drammi didattici di Brecht[21] o – quando si coinvolge in maniera esperienziale il pubblico – del Teatro dell’oppresso di Augusto Boal.[22] Un andamento che mette di fronte agli spettatori prima la denuncia e la condanna degli eccessi e dell’irresponsabilità delle azioni umane, poi l’esortazione a prendere in mano la situazione per cambiare lo stato delle cose.

Possiamo salvare il mondo prima di cena, Collettivo Menotti, 2021, ph. Maria-Luiza Fontana - Atelier-produzioni

Coerente con questa struttura è lo spettacolo del Collettivo Menotti Possiamo salvare il mondo prima di cena,[23] adattamento teatrale del romanzo di Jonathan Safran Foer We Are the Weather, in cui i protagonisti della storia – giovani attivisti, artisti e studenti – si riuniscono in un loft e alternano racconti personali, episodi biblici, dati scientifici e suggestioni apocalittiche tentando di trasformare dati statistici e informazioni algide in un messaggio pregno di carico emotivo e di esortazione per il pubblico presente in sala.[24]

Vi racconteremo una storia che non è una buona storia. Una storia che non basta conoscere, ma a cui dobbiamo imparare a credere. Parla del destino di un pianeta che diventa troppo caldo per poter essere abitato, che poi è anche il destino della nostra specie. Questa storia, ascoltata fino in fondo ci dice anche che ognuno di noi può agire, può cambiare le cose, invertire la rotta. Forse non lo faremo. Crederci è difficile.[25]

La riflessione e la capacità critica di saper ‘vedere’ e di ‘rendersi conto’ vengono esortate dalle narrazioni dei giovani attori in scena che, scardinando luoghi comuni e immaginari stereotipati, esortano a cambiare non solo le abitudini quotidiane ma tutti quegli scetticismi causa di effetti nocivi irreversibili. Format che, rispetto agli altri due che verranno di seguito analizzati, risulta essere quello più squisitamente teatrale poiché basato su un testo (letterario adattato alla scena), una storia con dei personaggi. Si vedrà infatti come gli altri case studies scelti, soundwalk (camminate sonore) o conferenza-spettacolo, presentino ciò che possiamo definire una certa teatralità e una chiara drammaturgia dell’azione, ma non alcuni degli elementi fondamentali del teatro: autori, attori, testo e a volte nemmeno gli spettatori.

La seconda modalità di creazione performativa riguardante l’ecologia è quella del ‘percorso pragmatico’, in cui la considerazione delle esigenze e delle sfide ecologiche interviene sia nei processi di creazione che – a volte – nei modi di produzione degli spettacoli. A questa tipologia possono essere associate le performance site-specific (teatro in situ), o le soundwalk. Tra le tante prodotte nell’ultimo decennio figura Slow Down (You Move Too Fast) di Máiréad Ní Chróinín,[26] una performance multimediale della durata di cinquanta minuti in cui il pubblico, dotato di smartphone e auricolari, è incoraggiato a rallentare fisicamente il movimento del proprio corpo, passando da un passo confortevole a un rallentamento estremo.[27] Nella fase più lenta, lo ‘spett-attore’ sperimenta paesaggi sonori che evocano ritmi temporali progressivamente sempre più lenti legati alla natura, dal ritmo circadiano di un singolo giorno al ciclo millenario dell’erosione e del movimento delle rocce. Basandosi sull’intuizione di Laura Sewall,[28] in merito all’abilità umana della ‘percezione ecologica’, il lavoro dell’artista irlandese ha cercato di utilizzare la biomeccanica[29] per coinvolgere il pubblico in una riflessione incarnata sull’interconnessione del proprio corpo con il mondo naturale che lo circonda e sulle pratiche temporali che danno forma alla consapevolezza di questa interconnessione. Un lavoro artistico che nasce quindi non solo da un percorso di ricerca creativa ma anche da un’indagine accademica, nel tentativo di registrare in maniera empirica gli effetti ‘ecologici’ dell’azione teatrale, avvalendosi anche della raccolta di feedback mediante questionari.

Questo esempio, sebbene appartenente a un filone artistico di minore importanza rispetto a quello normalmente discusso in ambito scientifico, traduce perfettamente in termini performativi la modalità della ‘pratica come ricerca’.[30] Questa prassi, partendo da precise ispirazioni teoriche, passa poi in esame le risposte dei partecipanti e offre spunti per capire se e come una meccanica che evoca un coinvolgimento sensoriale possa consentire ai partecipanti di sviluppare un senso più ampio del proprio ‘sé ecologico’. La soggettività interpellata in questa audio-performance viene sollecitata e ospitata da un habitat specifico che la contiene, un supporto ma al contempo una configurazione materiale concreta di una cornice performativa.

Questa performance incentrata sull’azione del camminare si collega a quello che Phil Smith identifica come la tendenza sempre più diffusa a una spinta somatica e immersiva contro lo scientismo e il positivismo di fronte alla catastrofe climatica e mette in evidenza il valore dell’immersione corporea, l’embodiment.[31] Il teatro in cuffia cerca di esplorare le modalità somato-sensoriali delle tecnologie mediatiche, utilizzando la tecnologia digitale per fornire stimoli sensoriali uditivi in modo da evocare «sensazioni corporee, affetti e incarnazione».[32] Combinando l’esperienza sensoriale fisica del camminare con l’esperienza sensoriale digitale del suono, Slow Down (You Move Too Fast) cerca di esplorare se e come le tecnologie digitali possano svolgere una funzione alternativa che ci permetta di sintonizzarci con un senso più profondo e sentito di interconnessione e interdipendenza con il mondo che ci circonda.

La terza e ultima forma di collegamento tra arti performative ed ecologia, individuata dalla studiosa francese, è quella ‘estetica’ o ‘ecopoetica’. Questa è certamente la più difficile da descrivere o decodificare, non avendo delle modalità ricorrenti o degli schemi fissi. La Sermon vi annovera tutte le scritture e le pratiche teatrali che decostruiscono o sfuggono ai precedenti modelli descritti. Creazioni che sviluppano la rappresentazione di ‘altre’ relazioni con la spazialità e la temporalità quotidiane o che portano una nuova attenzione alla materialità e alla relazione umano/non-umano, a volte attraverso l’evocazione di forme simboliche legate all’immaginario delle nostre società o di forme di pensiero e relazione con il paradigma ecologico. In questa ultima categoria vengono incluse le installazioni performative o multimediali che si dedicano a esplorare, attraverso modalità che possono essere ludiche, contemplative o disturbanti, forme di presenza che non sono più confinate al corpo umano, rimescolando così i limiti di soggetto e oggetto e proponendo un’interazione inedita con l’inorganico.

The Critters Room, Jan Voxel (Cinzia Pietribiasi, Lidia Zanelli, Lorenzo Belardinelli), set up presso Officina Leo Van Moric, Parma, 2021, © ph. Cinzia Pietribiasi

A titolo di esempio possiamo citare The Critters Room, progetto italiano peculiare ideato e realizzato dal collettivo Jan Voxel[33] nel corso del 2020 e 2021, successivamente portato a compimento durante la loro residenza presso AtelierSì di Bologna e l’Officina Leo van Moric di Parma. Un’installazione multimediale interattiva basata sulle informazioni visive e pratiche trasportate dalle polveri sottili e dal particolato, presenze invisibili che abitano accanto agli umani la terra e che vengono ‘intrappolate’ e presentate sotto forma di opere d’arte. L’insieme di queste varie particelle sembra comporre sotto gli occhi dello spettatore un mosaico rizomatico che riempie la stanza. Ogni particella è catturata in un giorno specifico, segnalato da un’apposita etichetta e spetta allo spettatore decifrare queste illusioni ottiche, scegliere quali possano comunicargli qualcosa. Dare forma a qualcosa di cui si parla ma di cui normalmente non si conosce l’aspetto, come per le polveri sottili, rende concreto, attuale e pertanto reale l’oggetto di un fenomeno che riguarda da vicino gli umani dell’era del Capitalocene.[34]

 

The Critters Room è dunque, innanzitutto, un esercizio di immaginazione; è un progetto – per definizione in fieri e collaborativo – di alleanza interspecie tra umani e non-umani; è una stanza di connessione con passati-mai-passati e futuri possibili; è un laboratorio aperto di democrazia dal basso; è una pratica amorevole di archiviazione fisica e digitale di invisibili mostri e fantasmi, a cui viene dato corpo e voce, canto e forma. Per sperare, insieme.[35]

 

3. L’eco-drammaturgia di Katie Mitchell

Il cambiamento climatico sembra però ‘resistere’ al potere comunicativo della rappresentazione teatrale; la portata è semplicemente troppo vasta e l’insieme dei fattori coinvolti troppo intricato per essere facilmente rappresentato sul palcoscenico. «Non si può ridurre a qualcosa di più semplice», ha osservato la regista Katie Mitchell in un’intervista, «e in un certo senso il teatro ha bisogno di ridurre le cose».[36] La soluzione adottata da gran parte dell’eco-teatro, come abbiamo detto in precedenza, è stata quella di incorporare complesse questioni ambientali all’interno dei drammi interpersonali più vicini al pubblico, rendendole così comprensibili, poiché ridotte in una scala più familiare. Tuttavia, questo approccio – come afferma la studiosa Catherine Love – rischia di rafforzare la visione antropocentrica della vita e del mondo, causa del processo involutivo che ha portato l’epoca moderna a essere il palcoscenico dell’Antropocene.[37]

Questa profonda interdipendenza pone sullo stesso piano tutti gli attori che operano nel mondo, sia essi protagonisti della Natura o esseri umani. Come afferma il sociologo e filosofo Bruno Latour:

 

Il senso di vivere nell’epoca dell’Antropocene, è che tutti gli agenti condividono lo stesso destino mutevole, un destino che non può essere seguito, documentato, raccontato e rappresentato utilizzando una delle vecchie caratteristiche associate alla soggettività o all’oggettività.[38]

 

Nei suoi più recenti progetti registici la regista britannica Katie Mitchell tenta di scardinare questa dinamica. È stato l’incontro con lo scienziato Stephen Emmott[39] a far scattare in lei un’esigenza di azione non solo personale ma anche artistica: dapprima ha smesso di viaggiare in aereo, poi di acquistare nuovi vestiti e infine ha promesso di dirigere uno spettacolo all’anno sul tema ambientale.[40] Questo impegno ha portato finora a due conferenze spettacolo, Ten Billion[41] (2012) e 2071[42] (2014), oltre a produzioni innovative di opere teatrali che affrontano direttamente le questioni ambientali, tra cui Lungs di Duncan Macmillan[43] (2013) e Uno spettacolo per chi vive in tempi di estinzione (2022), e a rielaborazioni in chiave ecologica di classici moderni come Happy Days di Samuel Beckett (2015).

Uno spettacolo per chi vive in tempi di estinzione, Piccolo Teatro Studio Melato, 2022, © ph. Masiar Pasquali

Utilizzando varie strategie formali ed estetiche, Mitchell ha tentato di fare del teatro uno spazio di comunicazione e attivismo ambientale, un progetto che merita sicuramente un esame critico approfondito. Le due produzioni Ten Billion e 2071 presentano una struttura drammaturgica di spettacolo-conferenza, rivolgendosi direttamente al pubblico e presentando una panoramica semplificata della scienza con l’aiuto di grafici e diagrammi proiettati. Nelle recensioni di questi lavori si è discusso molto se si trattasse di conferenze o di opere teatrali ma la vera questione è se la presentazione di questi ‘spettacoli’ in un contesto teatrale abbia influenzato il loro significato e la loro ricezione.

Ten Billions, Festival d’Avignon, 2012, © ph. Christophe Raynaud de Lage

Si procederà ora con l’analisi di questi due lavori, che presentano il medesimo format ma adottando due diversi approcci teatrali al tema del cambiamento climatico.

In Ten Billion Emmott utilizza una serie di statistiche per rafforzare la sua tesi: l’attuale popolazione globale di sette miliardi di persone crescerà fino a dieci miliardi, forse di più, entro la fine del secolo e ciò è insostenibile. Si è quindi partecipi di una crisi inimmaginabile che comporterà, e in parte ha già causato, la distruzione degli ecosistemi, l’inquinamento dell’atmosfera, l’aumento delle temperature e la grave carenza idrica per quasi un miliardo di persone. I fatti, ricorda sul palco, non potranno che peggiorare, dato che la domanda di cibo raddoppierà entro il 2050, il cambiamento climatico si intensificherà e il sistema di trasporti che sostiene le nostre esigenze crescerà. Descrivendosi come ‘un pessimista razionale’, Emmott afferma che ci sono due soluzioni: tecnologizzare la nostra via d’uscita dai problemi costruendo meccanismi sofisticati (come degli scudi solari), oppure mutare il nostro comportamento consumando meno cibo, meno energia, meno cose. Emmott vede poche possibilità che questo accada e, considerato che uno dei suoi ruoli pubblici è stato quello di consulente scientifico dell’allora Ministro George Osborne, è senza dubbio una scelta politica oltre che un gesto teatrale asserire quanto fa da un palco londinese del Jerwood Theatre Upstairs[44] e non su un canale di qualche nota emittente televisiva.[45]

Una conferenza-spettacolo ibridata con uno stile dettagliatamente naturalistico, che unisce verità e illusione, Emmott l’uomo scienziato ed Emmott il protagonista del dramma. Mitchell, infatti, sceglie una scenografia realistica, una ricostruzione fedele dell’ufficio dello scienziato, che riporti anche dettagli apparentemente insignificanti quali un frutto ammuffito sul tavolo e piante secche non annaffiate.[46] In effetti, la sua definizione puramente sociale di ‘ambiente’ – che i naturalisti consideravano in grado di plasmare il comportamento umano – serve a escludere il mondo più che umano. La scelta di collocare Emmott in una replica perfetta del suo ufficio – nel suo ‘ambiente naturale’, per così dire – è servita a mostrarlo in un modo che l’intellettualismo distaccato della conferenza tipicamente rifugge, incoraggiando probabilmente un legame personale che avrebbe potuto convincere il pubblico a prestare attenzione ai suoi avvertimenti.[47] Si tratta di una scelta registica che può essere letta come un’umanizzazione dell’interprete attraverso la rivelazione di caratteristiche e difetti: la trascuratezza implicita, ad esempio, simboleggiata dal frutto ammuffito o dall’incuria per le piante. L’ufficio di Emmott inoltre, ricco di oggetti che richiamano il carbonio, dai due computer portatili agli svariati effetti personali, suggerisce che anche gli individui più informati sono prigionieri della società consumistica in cui vivono, e costituisce lo sfondo delle sue parole che delineano progressivamente un quadro dettagliato dell’ambiente, concludendo con l’opinione che siamo condannati.

Non si tratta di una semplice conferenza. Abbiamo costruito insieme una struttura, uno scheletro con dei punti essenziali attorno ai quali ci sarà un po’ di improvvisazione da parte di Stephen. Sarà quindi molto strutturato e allo stesso tempo relativamente libero. Ci saranno disegni, animazioni, filmati e mezzi tecnici che lo obbligheranno a rispettare uno schema di presentazione. Quindi Stephen non sarà uno spirito libero. Avremo bisogno di una grande precisione intellettuale per poter trasmettere davvero tutto quello che c’è nella sua testa, tutta la sua conoscenza che, in generale, non viene comunicata efficacemente al pubblico, cosa di cui lui si lamenta molto. Quindi useremo tutti gli strumenti del teatro per aiutarlo a spiegare a un pubblico non specializzato la portata e la complessità del problema. È una forma nuova, un esperimento tra teatro e conferenza.[48]

Mitchell prosegue il progetto intrapreso per Ten Billion lavorando con il drammaturgo Duncan Macmillan e con Chris Rapley, professore londinese di Scienze climatiche. Dopo dieci mesi di intense discussioni e riscritture e partendo da più di mille pagine di conversazioni trascritte, nasce 2071:

Come drammaturgo, sono interessato a lavorare con il testo in modo diverso. C’è la sfida formale di come esprimere la scienza di Chris e di cosa potevamo fare come teatranti, non solo con un pubblico diverso per questi temi, ma anche in termini di tecnica e di come strutturare il materiale. Per esempio, se Chris scrive un articolo scientifico o tiene una conferenza accademica, la convenzione prevede che si inizi con la scoperta e si prosegua con la spiegazione. Ma è come se Amleto vendicasse la morte del padre nei primi cinque minuti. La sfida che abbiamo dovuto affrontare è stata quella di eliminare la rabbia e l’emozione dalla questione e allo stesso tempo rendere i dati drammaticamente avvincenti da ascoltare.[49]

Concorde con Duncan, Mitchell sottolinea la necessità di lasciare che siano i fatti oggettivi a parlare, anche se non molto teatrali, e abbandona la ricostruzione minuziosa naturalistica utilizzata per Ten Billion. Qui, infatti, la regista opta per un ambiente spoglio ma intimo come un salotto di casa, nel quale lo scienziato Rapley parla della crisi climatica accompagnato da immagini proiettate che riguardano la Terra e le rappresentazioni grafiche dei dati discussi. Al contrario del precedente spettacolo-conferenza 2071[50] offre un barlume di ottimismo: Rapley incoraggia il pubblico con ferma convinzione a fare scelte costruttive e a intraprendere azioni sensate.

Per poter descrivere in modo appropriato questi lavori teatrali appartenenti al filone dell’eco-drammaturgia dobbiamo innanzitutto guardare all’intersezione tra ciò che viene comunicato e il modo in cui – sia formalmente che materialmente – viene messo in scena, oltre a esaminare le risonanze e le contraddizioni tra le diverse scale di inquadratura (individuale, nazionale e planetaria).[51] In entrambi gli spettacoli troviamo degli scienziati reali – e non degli attori a impersonarli – che salgono su di un palco per comunicare le loro teorie corroborate da dati empirici che riguardano l’intero globo. Una dinamica che possiamo ritrovare in quel filone di teatro contemporaneo definito come ‘teatro documentario’,[52] dove al centro viene posta la ricerca di un ‘effetto di verità’ determinato dalla precisione dei dettagli forniti in scena e dall’utilizzo di attori che interpretano sé stessi. Piuttosto che concentrarsi sugli impatti individuali del cambiamento climatico, come tendono a fare la maggior parte delle opere teatrali incentrate sull’argomento, gli spettacoli in questione hanno cercato di trasmettere l’intera scala planetaria di questa crisi. Ritornando alla teoria di Morton descritta all’inizio di questo saggio, si può riscontrare l’impossibilità e la difficoltà di immaginare pienamente – attraverso il dispositivo teatrale – degli iperoggetti, categoria a cui (come si è già detto) appartengono il cambiamento climatico e l’antropocentrismo.

Se l’idea di fondo è che il teatro può aiutare a sviluppare un rapporto di ‘fede’ con i fatti che riguardano il cambiamento climatico, Katie Mitchell,[53] convinta che «è il nostro rapporto con i fatti che deve essere esaminato», cerca nelle sue prime opere sulla crisi climatica di tradurre complesse tematiche scientifiche e di ordinarle in modo tale da renderle concepibili e immaginabili.

 

4. Conclusioni

Il fondatore del movimento dell’Ecologia profonda, il filosofo norvegese Arne Naess, ha presentato nel 1973 un documento in cui distingueva l’ecologia superficiale da quella profonda (deep ecology). Naess afferma che nella prima tipologia vi è la lotta contro quelle attività causa dell’inquinamento o dell’esaurimento delle risorse, con l’obiettivo generale di «mantenere la salute e il benessere delle persone del mondo sviluppato».[54] Al contrario, egli sostiene che i praticanti dell’ecologia profonda difendono gli elementi non umani e non animati del mondo a causa di una sentita comprensione dell’interdipendenza della specie umana con tutte le altre e di un senso di profondo piacere e soddisfazione che riceviamo da una stretta collaborazione con altre forme di vita.[55] Se l’ecologia superficiale si concentra sul mantenimento della crescita economica e sulla protezione dell’ambiente attraverso mezzi tecnologici (come le auto elettriche) e piccoli cambiamenti nello stile di vita (come il riciclaggio), tuttavia evita di porsi serie domande fondamentali sui nostri valori e sulle nostre visioni del mondo; non esamina le nostre istituzioni socioculturali e i nostri stili di vita personali.[56] Il filone teatrale a cui si è fatto riferimento è senza dubbio legato alla filosofia di ecologia profonda, cercando di spingere lo spettatore ad agire, a trasformare il proprio stile di vita e pensiero. Al centro dell’ecologia profonda c’è il concetto di ‘sé ecologico’, lo sviluppo di un senso di sé ampliato che supera i confini dell’ego personale per abbracciare un insieme più ampio. La comunicazione teatrale agisce in tale direzione: spinge il pubblico a sviluppare il proprio ‘sé ecologico’, a comprendere e a sentire l’interconnessione con tutta la vita non umana sul pianeta, instillando il germe di una radicale consapevolezza dell’interdipendenza.[57]

Il teatro è immediato e comunitario, sempre più spesso partecipativo e coinvolge lo spettatore – soprattutto nelle arti performative contemporanee – in una pratica scenica parte di un contesto più ampio, socioculturale e politico. La partecipazione attribuibile agli spettacoli menzionati non è certamente fattiva, ma è piuttosto un invito all’azione che sfiora l’imperativo sociale.[58] Nell’eco-teatro, qualsiasi sia il format adottato, si cerca di superare la distinzione e la separazione concettuale dominante nel pensiero occidentale (vigente fin dall’Illuminismo) tra gli esseri umani e l’ambiente, tra osservatore e osservato. Si tenta, soprattutto nelle creazioni che ricercano un ‘percorso pragmatico’,[59] una connessione con i nostri sistemi sensoriali che metta in primo piano l’unione tra ciò che è ‘dentro’ e ciò che è ‘là fuori’.[60]

L’obiettivo principale di queste eco-drammaturgie è sì la pratica della propria percezione ecologica ma portata al di là della predominanza del senso della vista come strumento di acquisizione. L’eco-teatro – sfruttando in realtà paradigmi propri del teatro tout court – mira a stimolare tutti i sistemi sensoriali del corpo umano, e lo fa cercando: 1. una consapevolezza e coscienza del senso di presenza; 2. un’apertura alla percezione delle relazioni, del contesto e delle interfacce; 3. uno sviluppo della flessibilità percettiva su scale spaziali e temporali; 4. un uso intenzionale dell’immaginazione. In altre parole, non è possibile pensare di raggiungere un ‘sé ecologico’ solo con la visione di uno spettacolo, ma è necessario partecipare corporalmente a queste modalità intenzionali di essere, sviluppando una comprensione sentita di questo senso di sé ampliato attraverso performance che coinvolgano il pubblico con consapevolezza, acquisizione, ripetizione e cura. Per farlo è tuttavia necessario il passaggio elementare, ma fondamentale, della conoscenza. Un passo verso lo spettatore fornito dalla divulgazione accessibile ricercata non solo negli spettacoli-conferenze descritti, ma anche in quel teatro ‘tematico’ che risulta ad oggi – comunque – ancora necessario.

 


1 V. Turner, Antropologia della performance, collana Collezione di testi e di studi, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 76-77.

2 T.B. Morton, Iperoggetti, trad. it. di V. Santarcangelo, Collana Not, Roma, Nero Editions, 2018.

3 T.J. May, Earth Matters on Stage, Ecology and Environment in American Theater, London, Routledge, 2021, pp. 5-7.

4 T.J. May, Earth Matters on Stage, Ecology and Environment in American Theater, cit., p. 6.

5 Un’analisi eco-critica letteraria e teatrale, svolta cioè in chiave ecologista, inizia a svilupparsi negli anni Novanta fino alla teorizzazione presentata nel volume di C. Glotfelty, H. Fromm, The ecocriticism reader: Landmarks in Literary ecology, Athens, University of Georgia Press, 1996.

6 R. Schechner, ‘6 Axioms for Environmental Theatre’, The Drama Review, 12, 3, Architecture/Environment, 1968, pp. 41-64 e Id., Environmental Theater, New York, Hawthorn Books, Inc., 1973.

7 R. Schechner, ‘6 Axioms for Environmental Theatre’, cit., p. 51.

8 Si veda la definizione di catarsi aristotelica in Aristotele, Poetica, a cura di G. Paduano, Bari, Laterza, 1998, pp. 13-14.

9 T.B. Morton, Iperoggetti, cit., p. 4.

10 V. Turner, Dal rito al teatro, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 167-187.

11 M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1992, p. 52.

12 H.-T. Lehmann, Il teatro postdrammatico, trad. it. di S. Antinori, Bologna, Cue Press, 2017.

13 AA.VV. Theater, 25, 1, 1994, < https://read.dukeupress.edu/theater/issue/25/1 > [accessed 21 September 2022].

14 Cfr. il numero monografico di Culture Teatrali, F. Bortoletti (a cura di), ‘Teatro e Neuroscienze. L’apporto delle neuroscienze cognitive a una nuova teatrologia sperimentale’, 16, primavera 2007, <https://cultureteatrali.dar.unibo.it/files/annuari_ct/CT16.pdf> [accessed 20 September 2022].

15 U. Chaudhuri, ‘There Must Be a Lot of Fish in that Lake: Toward an Ecological Theater’, Theater, 25, 1, 1994, pp. 23-31, < https://doi.org/10.1215/01610775-25-1-23 > [accessed 20 September 2022].

16 Ivi, p. 24.

17 L. Buell, The Environmental Imagination: Thoreau, Nature Writing, and the Formation of American Culture, Cambridge, The Belknap Press of Harvard University Press, 1995.

18 Ivi, trad. mia, pp. 7-8.

19 A. Damasio, Sentire e conoscere. Storia delle menti coscienti, Milano, Adelphi, 2022.

20 J. Sermon, ‘Teatro e ecologia: mudança de escalas ou de paradigma’, Móin-Móin - Revista de Estudos sobre Teatro de Formas Animadas, Florianópolis, 2, 25, 2021, pp. 24-49, [accessed 26 September 2022].

21 B. Brecht, Drammi didattici, Torino, Einaudi, 1980.

22 A. Boal, Il teatro degli oppressi. Teoria e tecnica del teatro, Bari, La Meridiana, 2011.

23 Versione teatrale scritta e diretta da Emilio Russo. Compagnia Collettivo Menotti: Enrico Ballardini, Giuditta Costantini, Helena Hellwig, Claudio Pellegrini, Martina Sammarco. Debutto 17 dicembre 2020, Milano, Teatro Menotti-Filippo Perego.

24 A. Monda, ‘Jonathan Safran Foer: “Rallentando salveremo il pianeta”’, la Repubblica, 15 aprile 2021,<https://www.repubblica.it/spettacoli/2021/04/15/news/jonathan_safran_foer_rallentando_salveremo_il_pianeta_-301055236/> [accessed 26 September 2022].

26 Per approfondimenti sull’artista si veda: < https://www.maireadnichroinin.com > [accessed 26 September 2022].

27 «Slow Down (You Move Too Fast) era stato inizialmente concepito come un’opera interattiva che avrebbe utilizzato sensori di pressione nelle scarpe dei partecipanti per rispondere al loro ritmo. Tuttavia, a causa del COVID-19, il pezzo ha dovuto essere ripensato e alla fine è stato presentato in un formato work-in-progress come un mp3 preregistrato che i partecipanti potevano scaricare e sperimentare nel proprio spazio e tempo. L’intenzione dell’mp3 era quella di imitare il senso di interattività, invitando i partecipanti a seguire i passi che stabilivano il ritmo con cui dovevano camminare. Questo ha permesso a me, come artista, di testare la meccanica del camminare lentamente senza fare affidamento su una tecnologia di sensori più complessa (che all’epoca non poteva essere utilizzata a causa della distanza sociale e di problemi di salute e sicurezza). In seguito a questo work-in-progress, è stato progettato un sistema reattivo (comprendente un sensore di pressione e un’applicazione) che sarà testato nei prossimi mesi. Pertanto, la performance si colloca a cavallo tra la “bassa tecnologia” di un mp3 di base e la relativa “alta tecnologia” delle tecnologie di biosensing» (M. N. Chróinín, ‘Slow Down (You Move Too Fast): designing mechanics to encourage practices of ‘ecological perception’ through mobile digital performances’, International Journal of Performance Arts and Digital Media, 18, 2, 2022, p. 238, trad. mia, <https://doi.org/10.1080/14794713.2022.2101285> [accessed 26 September 2022]).

28 L. Sewall, Sight and Sensibility: The Ecopsychology of Perception, London, Tarcher, 1999.

29 C.M. Paternò, Biomeccanica Teatrale di Mejerchol’d. Idee, principi, allenamento, Roma, Dino Audino, 2017.

30 M. N. Chróinín, ‘Slow Down (You Move Too Fast): designing mechanics to encourage practices of ‘ecological perception’ through mobile digital performances’, p. 242.

31 P. Smith, ‘Introductions’, in H. Billinghurst, C. Hind, P. Smith (a cura di), Walking Bodies: Papers, Provocations, Actions, Dorset, Triarchy Press, 2020, p. VI.

32 R. Klich, ‘Amplifying Sensory Spaces: The In- and Out-Puts of Headphone Theatre’, Contemporary Theatre Review, 27, 3, 2017, p. 366, [accessed 21 October 2022].

33 Jan Voxel è un collettivo formato da Lorenzo Belardinelli (fisico e programmatore), Cinzia Pietribiasi (performer e regista teatrale), Lidia Zanelli (danzatrice e scenografa). Jan Voxel crea generative graphics, video art and algorithm-art, interpretando il mondo come flusso, metamorfosi continua, ibridazione di forme, sistema complesso, inestricabile interrelazione di particelle e corpi sociali. La prima opera di Jan Voxel, My Body Atlas, è stata presentata in anteprima a Reggio Emilia nel luglio 2021. The Critters Room è la sua seconda opera.

34 J. W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria, Verona, Ombre Corte, 2017.

35 <https://www.thecrittersroom.it> [accessed 21 October 2022].

36 Programma di sala Ten Billion. Entretien avec Katie Mitchell et Stephen Emmott, p. 2, trad. mia, <https://festival-avignon.com/en/edition-2012/programme/ten-billion-21228> [accessed 21 October 2022].

38  B. Latour, ‘Agency at the Time of the Anthropocene’, New Literary History, 45, 1, 2014, pp. 1-18, trad. it. di E. D’Angelo in Kabul Magazine, p. 9, [accessed 6 June 2022].

39 Stephen Emmott è Head of Computational Science presso Microsoft Research e professore di Computational Science all’Università di Oxford. Il suo laboratorio è riconosciuto per i suoi approcci pionieristici nell’affrontare i problemi fondamentali della scienza; in particolare, i problemi più importanti nella previsione del futuro del clima e del futuro della vita sulla Terra.

40 S. Merritt, ‘Climate change play 2071 aims to make data dramatic’, The Guardian, 5 novembre 2014, <https://www.theguardian.com/stage/2014/nov/05/climate-change-theatre-2071-katie-mitchell-duncan-macmillan> [accessed 21 October 2022].

41 Debutto 23 luglio 2012, Festival d’Avignon, regia di Katie Mitchell, con Stephen Emmott and Kate Duchêne (interprete), produzione Royal Court Theatre, co-produzione Festival d’Avignon con il sostegno del British Council.

42 Il monologo 2071 debutta nel novembre del 2014 al Royal Court Theatre di Londra.

43 I due interpreti recitano su biciclette statiche che alimentano le luci sceniche. Altri interpreti usano le biciclette per alimentare un contatore della popolazione mondiale, dando una dimensione globale alla decisione che i due personaggi devono prendere: avere un figlio nel bel mezzo del collasso ambientale.

45M. Billington, ‘Ten Billion review’, The Guardian, 19 luglio 2012, <https://www.theguardian.com/stage/2012/jul/19/ten-billion-review-royal-court> [accessed 10 December 2022].

46 J. Orr, ‘Review Ten Billion’, A Younger Theatre, 19 luglio 2012, <https://www.ayoungertheatre.com/review-ten-billion-stephen-emmott-katie-mitchell-royal-court-theatre> [accessed 10 December 2022].

47 C. Love, ‘From Facts to Feelings: The Development of Katie Mitchell’s Ecodramaturgy’, Contemporary Theatre Review, 30, 2, 2020, p. 229, 10.1080/10486801.2020.1731495> [accessed 10 December 2022].

48 Programma di sala Ten Billion. Entretien avec Katie Mitchell et Stephen Emmott, cit., p. 3.

49 S. Merritt, ‘Climate change play 2071 aims to make data dramatic’.

50 Il titolo 2071 si riferisce all’anno in cui il nipote maggiore di Rapley avrà la sua stessa età, 67 anni, e di cui immagina con speranza che lo scenario in cui vivrà non sia quello predetto dai dati scientifici attualmente registrati.

51 Lo studioso Timothy Clark mette in guardia dai pericoli di quello che chiama lo ‘scale framing’, una strategia per rendere digeribili questioni complesse che può semplificare eccessivamente i problemi in questione e persino funzionare come una forma di evasione intellettuale, cfr. C. Timothy, ‘Derangements of Scale’, in T. Cohen (a cura di), Telemorphosis: Theory in the Era of Climate Change, vol. 1, Michigan, Open Humanities, 2012.

52 E. Magris, B. Picon-Vallin (a cura di), Les Théâtres Documentaires, Montpellier, Deuxième Epoque, 2019.

53 Il professore Wes Williams, in un’intervista online, ha chiesto alla regista se un’opera teatrale ecologica possa davvero affrontare il disastro e offrire un sogno di risoluzione. Katie Mitchell ha risposto di essere piuttosto interessata a «sviluppare un rapporto più gentile tra il pubblico e l’argomento», <https://www.youtube.com/watch?v=NmqjN_tf8g0> [accessed 2 January 2023].

54 A. Drengson, I. Yuichi, ‘Introduction’, in Id., The Deep Ecology Movement: An Introductory Anthology, Berkeley, California, North Atlantic Book, 1995, p. XV.

55 Ibidem.

56A. Drengson, I. Yuichi, Introduction, in Id., The Deep Ecology Movement: An Introductory Anthology, cit., p. XII.

57 L. Sewall, ‘The Skill of Ecological Perception’, in T. Rozak et al. (a cura di), Ecopsychology – Restoring the Earth, Healing the Mind, San Francisco, Sierra Club Books, 1995, p. 203.

58 C. Pedullà, Il teatro partecipativo. Paradigmi ed esperienze. Focus su Toger Bernat_FFF e Rimini Protokoll, Pisa, Titivillus, 2021, pp. 8-9.

59 Cfr. J. Sermon, ‘Teatro e ecologia: mudança de escalas ou de paradigma’.

60 L. Sewall, ‘The Skill of Ecological Perception’, p. 204.