Si tende, di solito e spesso ingiustamente, ad associare l’opera all’artista.

Nell’immaginario collettivo – arricchito da letteratura, film, spettacoli, leggende – il tormento dell’artista è l’humus da cui scaturisce, quasi per benedizione divina, per quel talento unico e raro che solo il ‘creatore’ possiede, l’opera perfetta. Insomma, l’ideale del ‘genio e sregolatezza’ ancora accende l’immaginazione del pubblico. Pubblico che non pensa, invece, che quel binomio è in realtà un ossimoro: il genio necessita di regola, di applicazione, di studio, di lavoro, altrimenti non è. L’opera non nasce dall’impeto sturm und drang, ma dal lavorio quotidiano, dalla ricerca, dal metodo. Certo, ci vuole talento ma senza studio si può ardere della passione di un momento ma si va poco lontano.

Milo Rau è un artista di grandissimo, adamantino, talento: un ‘geniaccio’ certo – si potrebbe dire usando un’espressione popolare – che ha lavorato assai, e continua a farlo, coltivando quel suo dono con sopraffina intelligenza. Nulla di ‘sregolato’, anzi: letture, ascolto, applicazione, studio sistematico, esercizio fomentano la sua arte che si declina in modo ampio con media diversi, spostando ogni volta più avanti il limite delle sue conquiste intellettuali e artistiche.

In questa sede – mi è stato proposto di scrivere quella che si potrebbe definire una bio-teatrografia del regista svizzero – mi piace, al contrario, provare a dar retta a quel pensiero comune e associare, come accennavo, l’artista alla sua opera, mettendo in evidenza qualche possibile liaison tra il suo modo di essere, di stare al mondo, e le sue creazioni teatrali. Mi permetto di farlo anche grazie a quella che potrei definire amicizia, nata da una certa serie di incontri, interviste, scambi di opinioni, folgoranti chat, viaggi: elementi che hanno reso possibile una frequentazione capace di reggere anche negli anni della pandemia.[1]

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L'Antropocene è un'ipotesi scientifica che dà il nome al nuovo periodo geologico in cui la Terra e la sua atmosfera sono state trasformate dalle attività umane (in particolare dallo sfruttamento dei combustibili fossili), e che di fatto ha spinto il clima terrestre sull'orlo del collasso. Reso popolare nel 2000 durante il convegno dell’International Geosphere-Biosphere Programme,[1] grazie all’accordo tra il biologo naturalista Eugene F. Stoermer, che lo aveva proposto fin dagli anni Ottanta, e il premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen, il termine Ê»antropoceneʼ è ormai oggi entrato nell’uso e si è molto diffuso, anche perché le conseguenze del cambiamento climatico sono sempre più presenti e tangibili. Spesso abusato e di recente messo in discussione e sostituito da altri – si pensi ad esempio ai concetti di Wasteocene,[2]Chtulocene[3], Capitalocene[4]… – è innegabile che viviamo in un periodo caratterizzato dal preoccupante aumento delle conseguenze dell'attività umana sull'ecosistema. Alla luce di quanto sta accadendo intorno a noi risulta chiaro, infatti, quanto sia impellente e necessario acquisire consapevolezza sul valore Ê»politicoʼ delle decisioni assunte nell’ambito, ad esempio, della pianificazione territoriale, del funzionamento economico e dell’organizzazione industriale o sociale per garantirne la sostenibilità.

In tal senso, una nuova consapevolezza ecologica si sta facendo strada all’interno di una massa critica mondiale sempre più consistente e numerosa. Essa ha preso coscienza della complessità del problema: preservare l’ambiente, limitare i danni dell’impatto antropico significa prendere in considerazione, ad esempio, la demografia e gli effetti perversi della mondializzazione, della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza con il conseguente aumento dei flussi migratori. In altre parole: si può leggere e comprendere il contemporaneo solo attraverso il prisma della diversità dei territori e delle disuguaglianze socio-spaziali.

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Abstract: ITA | ENG

Partendo dall’assunto del botanico Humboldt che solo un legame intatto tra uomo e natura – legato da conoscenza ed esperienza, empatia ed emozione – può essere la base di una civiltà sostenibile (Wulf 2017), possiamo constatare come la drammaturgia contemporanea si sia mostrata particolarmente adatta ad accogliere e rileggere le tematiche legate all’Antropocene. Nel presente saggio verranno analizzati diversi approcci teatrali alla tematica, strutturalmente accomunati per i propri formati drammaturgici ibridi, che confermano l’hypermedium teatrale (Auslander 2008) come efficace strumento di divulgazione e sensibilizzazione della società. Strumento critico che attraverso una relazione incarnata e un’esperienza diretta (Sofia 2015) –  anche quando mediata – stimola lo spettatore a una riflessione, il teatro dell’Antropocene viene rappresentato paradossalmente dal non-umano in scena. È infatti attraverso un teatro post-umano (Corvin 2014) che si offre allo spettatore quella visione/soluzione non antropocentrica, salvifica e alternativa all’Antropocene. Nelle performance scelte il dibattito attuale sulle questioni antropoceniche, come le emissioni di CO2 e l’atmosfera, l’acidificazione degli oceani e la perdita di biodiversità (Granata 2016), così come le questioni di diritto e giustizia, i diritti degli animali e della natura sono teatralmente esposte, divengono ‘materia narrante’.

Following up on botanist Humboldt’s assumption that only an intact bond between man and nature – connected by knowledge and experience, empathy and emotion – can be the basis for a sustainable civilization (Wulf 2017), we can see how contemporary dramaturgy has proved itself to be particularly well suited to accepting and reinterpreting issues related to the Anthropocene. This essay will analyze different theatrical approaches, structurally associated by their hybrid dramaturgical formats, which confirm the theatrical hypermedium (Auslander 2008) as an effective means of dissemination and awareness of society. As a critical tool that through an embodied relationship and direct experience (Sofia 2015) – even when mediated – stimulates the spectator to reflect, the theatre of the Anthropocene is paradoxically represented by the non-human on stage. A non-anthropocentric and alternative vision/solution to the Anthropocene is offered to the spectator through a post-human theatre (Corvin 2014). The current debate on Anthropocene issues such as CO2 emissions and the atmosphere, ocean acidification and biodiversity loss (Granata 2016), as well as issues of law and justice, animal rights and nature are theatrically exposed through the chosen performances, as ‘narrative matter’.

 

 

1. Introduzione

Gli strumenti di costruzione di una coscienza globale sull’attuale condizione di sfruttamento del pianeta – e sulle relative conseguenze ambientali – sono sovente frutto di un’ampia campagna di informazione pubblica condotta attraverso i media e i nuovi canali dell’informazione digitale. Eppure, il teatro può essere considerato un efficace strumento, non solo divulgativo ma anche persuasivo, per ciò che concerne le urgenti tematiche ecologiche e ambientali contemporanee.

 

 

Come temi drammatici, il cambiamento climatico e la crisi ecologica sfuggono al modello di una rappresentazione drammaturgica statica. È pertanto più opportuno approcciarsi ad essi pensandoli come degli hyperobjects, un termine coniato da Timothy Morton[2] per descrivere fenomeni che presentano, rispetto agli esseri umani, una tale dimensione/entità temporale e spaziale da poter essere visti solo in piccole parti – in singoli momenti – e la cui comprensione resta pertanto intrinsecamente difficile. Possiamo sperimentare direttamente il tempo atmosferico, ad esempio, ma il clima come sistema espanso e disperso rimane inaccessibile ai singoli individui, per quanto i potenti mezzi tecnologici attuali possano modellarlo bene. L’esempio di iperoggetto di nostro interesse è senza dubbio il riscaldamento globale, che a sua volta costringe l’essere umano a prendere coscienza che la sua esistenza si svolge di fatto all’interno di una continua serie di iperoggetti, che non esiste ‘un fuori’.

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