Si tende, di solito e spesso ingiustamente, ad associare l’opera all’artista.
Nell’immaginario collettivo – arricchito da letteratura, film, spettacoli, leggende – il tormento dell’artista è l’humus da cui scaturisce, quasi per benedizione divina, per quel talento unico e raro che solo il ‘creatore’ possiede, l’opera perfetta. Insomma, l’ideale del ‘genio e sregolatezza’ ancora accende l’immaginazione del pubblico. Pubblico che non pensa, invece, che quel binomio è in realtà un ossimoro: il genio necessita di regola, di applicazione, di studio, di lavoro, altrimenti non è. L’opera non nasce dall’impeto sturm und drang, ma dal lavorio quotidiano, dalla ricerca, dal metodo. Certo, ci vuole talento ma senza studio si può ardere della passione di un momento ma si va poco lontano.
Milo Rau è un artista di grandissimo, adamantino, talento: un ‘geniaccio’ certo – si potrebbe dire usando un’espressione popolare – che ha lavorato assai, e continua a farlo, coltivando quel suo dono con sopraffina intelligenza. Nulla di ‘sregolato’, anzi: letture, ascolto, applicazione, studio sistematico, esercizio fomentano la sua arte che si declina in modo ampio con media diversi, spostando ogni volta più avanti il limite delle sue conquiste intellettuali e artistiche.
In questa sede – mi è stato proposto di scrivere quella che si potrebbe definire una bio-teatrografia del regista svizzero – mi piace, al contrario, provare a dar retta a quel pensiero comune e associare, come accennavo, l’artista alla sua opera, mettendo in evidenza qualche possibile liaison tra il suo modo di essere, di stare al mondo, e le sue creazioni teatrali. Mi permetto di farlo anche grazie a quella che potrei definire amicizia, nata da una certa serie di incontri, interviste, scambi di opinioni, folgoranti chat, viaggi: elementi che hanno reso possibile una frequentazione capace di reggere anche negli anni della pandemia.[1]