Si tende, di solito e spesso ingiustamente, ad associare l’opera all’artista.
Nell’immaginario collettivo – arricchito da letteratura, film, spettacoli, leggende – il tormento dell’artista è l’humus da cui scaturisce, quasi per benedizione divina, per quel talento unico e raro che solo il ‘creatore’ possiede, l’opera perfetta. Insomma, l’ideale del ‘genio e sregolatezza’ ancora accende l’immaginazione del pubblico. Pubblico che non pensa, invece, che quel binomio è in realtà un ossimoro: il genio necessita di regola, di applicazione, di studio, di lavoro, altrimenti non è. L’opera non nasce dall’impeto sturm und drang, ma dal lavorio quotidiano, dalla ricerca, dal metodo. Certo, ci vuole talento ma senza studio si può ardere della passione di un momento ma si va poco lontano.
Milo Rau è un artista di grandissimo, adamantino, talento: un ‘geniaccio’ certo – si potrebbe dire usando un’espressione popolare – che ha lavorato assai, e continua a farlo, coltivando quel suo dono con sopraffina intelligenza. Nulla di ‘sregolato’, anzi: letture, ascolto, applicazione, studio sistematico, esercizio fomentano la sua arte che si declina in modo ampio con media diversi, spostando ogni volta più avanti il limite delle sue conquiste intellettuali e artistiche.
In questa sede – mi è stato proposto di scrivere quella che si potrebbe definire una bio-teatrografia del regista svizzero – mi piace, al contrario, provare a dar retta a quel pensiero comune e associare, come accennavo, l’artista alla sua opera, mettendo in evidenza qualche possibile liaison tra il suo modo di essere, di stare al mondo, e le sue creazioni teatrali. Mi permetto di farlo anche grazie a quella che potrei definire amicizia, nata da una certa serie di incontri, interviste, scambi di opinioni, folgoranti chat, viaggi: elementi che hanno reso possibile una frequentazione capace di reggere anche negli anni della pandemia.[1]
Il primo elemento che vorrei portare alla luce, in questo ritratto di Milo Rau, è il suo modo di parlare. Credo sia un aspetto, infatti, che si riverbera innegabilmente nel suo fare teatro. Intanto per la scelta della lingua. Milo è naturalmente poliglotta, mantiene un leggero accento tedesco sia nel parlare inglese che nel parlare francese. Cerca sempre e comunque, però, di aprirsi alla lingua dell’interlocutore. È accaduto con l’italiano: magari sono solo semplici parole, qua e là nel discorso, eppure usate con coscienza e con piacere, proprio per questa sua innegabile capacità di creare ponti, di tessere relazioni con l’altro, chiunque sia: un iracheno di Mosul o un nativo dell’Amazonia.
In questa prospettiva, ritorna anche l’ormai celebre Manifesto di Gent, nel 2018, al suo capitolo sesto: «almeno due lingue diverse devono essere parlate sul palco in ogni produzione».[2] L’altro aspetto interessante – e anche questo trova naturale compimento negli allestimenti scenici – è il suo parlare in qualsiasi lingua sempre in modo sommesso, garbato, direi educato. Forse di una educazione all’antica, di un’epoca in cui era importante saper veicolare la propria voce nel rispetto (e ancora una volta nell’ascolto) dell’interlocutore. Milo sembra più ‘suggerire’ che ‘dire’, più riflettere assieme che non spiegare. Altrettanto fanno spesso, se non sempre, gli attori in scena. Ecco: il suo è un teatro sussurrato, ma non per questo timido. Tutti gli argomenti possono essere e sono affrontabili e affrontati, ma gli interpreti in scena porgono spesso allo spettatore un parlato quotidiano, semplice, diretto. Anche nei momenti di maggior tragicità – penso a tutti gli spettacoli che ho visto: Five easy pieces, Hate Radio, La reprise, Compassion o a Empire o al più recente Grief and Beauty, oltre ai film e ai libri da cui si dipana il pensiero di Milo – si mantiene una sobrietà nel parlare che è evidentemente una scelta radicale: raramente, o quasi mai, il dolore divampa, il pathos ha il sopravvento, il grido sovrasta il parlato.
Ma non solo.
Milo ha la grazia di concludere sempre o quasi le sue frasi con un sorriso. Un sorriso semplice, non insinuante né tanto meno supponente o tollerante – certo non quel sorriso da ‘comprensione e perdono’ di chi si sente moralmente, religiosamente, culturalmente superiore all’altro. Niente di tutto ciò: quello di Milo è un sorriso che apre una speranza, la speranza che due persone possano intendersi, possano dialogare, che possa in definitiva rendersi possibile un incontro. È quasi un invito a giocare assieme, a mettere da parte diffidenze e competitività: ‘ci siamo, siamo qui, parliamo’.
Mi fa ricordare Peter Brook che, durante il suo iniziale e fondativo viaggio in Africa, cercava un punto di contatto diretto e immediato tra i suoi attori e attrici con gli spettatori dei villaggi in cui portava spettacoli: un dialogo privo di preconcetti e appigli culturali, che nascesse solo da ciò che rende simili uomini e donne di tutto il mondo.
Per questo Milo porta sempre ascolto e rispetto agli ultimi, a chi è restato ai margini: a quei ‘testimoni’ – gente presa dalla vita, non dalla scena – che sono i protagonisti di tanti suoi lavori. E preme sottolineare che quegli ‘esseri umani comuni’ diventano, davvero, metro di tutto: anche gli attori, prima e indipendentemente dall’essere i protagonisti dello spettacolo, si riappropriano dell’essere uomini e donne comuni, la loro storia è quella di tanti altri come loro. Hanno l’onere e l’onore di farsene testimoni ascoltati, rispetto ad altri condannati al silenzio o al non essere né uditi né, tantomeno, compresi. Testimoni che incarnano l’interesse di Milo Rau verso le fasce meno abbienti della popolazione, quell’umanità che, avrebbe detto Bertolt Brecht, è travolta dalla Grande Storia senza nemmeno rendersene conto.
Non sto qui a parlare di re-enactment, altri lo hanno fatto molto bene e altri ancora lo faranno,[3] ma vale la pena sottolineare che anche quando ha a che fare con re e regine, con miti o eroi, Rau punta chiaramente a far saltare gli equilibri coinvolgendo gente comune, semplici testimoni che danno un peso altro – più umano e immediato – a qualsiasi lavoro. Milo ha definito il personaggio «una individualità arricchita da un destino»[4] e mi sembra definizione affascinante, anche perché sottende quella che sembrerebbe essere la sua visione ontologica. Il destino non è solo quello degli eroi, ma anche e soprattutto quello della gente comune: può essere quello di Gesù Cristo, ma per Rau è anche imprescindibilmente quello di Yvan Sagnet, sindacalista ed ex bracciante per The new Gospel. Anche in questa prospettiva, si incanala la volontà di Rau di lavorare con attori professionisti e non. E, a questo proposito, Milo scrive: «Quando un attore mi chiede come dire una certa battuta gli rispondo: “fai quello che ti sembra giusto, poi ci lavoriamo insieme”. Un regista può dare indicazioni tecniche e sicurezza a un attore, ma è solo quest’ultimo che conosce la verità di un processo o di un sentimento. Ragion per cui mi sento di consigliare un’unica regola ai registi: cercate persone di cui vorreste essere spettatori, poi fidatevi di loro».[5]
Uno storico del teatro, qui, collegherebbe immediatamente questa affermazione a tutta la dialettica professionisti/amatori che ha accompagnato il Novecento teatrale, a partire da quel ‘dilettante di successo’ che era Stanislavskij (economicamente se lo poteva permettere) e dai volti presi dalla strada del cinema di Pier Paolo Pasolini. E forse anche Rau si incanala in questa ‘tradizione contemporanea’ di cercare un attore non borghese, ma qualcuno sfrondato da tutte le sovrastrutture teatrali che possa portare in scena una propria verità. Ma non è questa la sede per approfondire tale tematica.
L’altro aspetto che ho immediatamente notato intervistando più volte Milo, a partire dai primi incontri alla Biennale Teatro di Venezia diretta allora da Alex Rigola, è la sua fulminea intelligenza. L’ampiezza stratosferica della sua possibilità di citare, fare riferimenti, evocare da mondi culturali diversi e internazionali è senza dubbio affascinante. Uno sguardo aperto, insomma, che sa giocare con diverse culture e ambiti di studio. Mai perde di vista la politica: non solo la politica dei condivisi valori, i capisaldi del pensiero della sinistra europea, ma anche la politica fatta, reale, concreta di Paese in Paese. Saranno gli studi universitari – sociologia e filologia, con maestri come Pierre Boudieu e Tzvetan Todorov –, sarà il suo essere attivista o la pratica giornalistica che coltiva sempre, ma la velocità con cui crea connessioni, rimandi, aperture è davvero divertente. Cita Marx e Benjamin, evoca Arendt e Gershom Scholem, Bruno Latour e Geoffroy de Lagasniere, Eduard Louis e George Steiner, Marlon Brando o Alfred H. Barr Jr., Eschilo e Brecht, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini o il Neorealismo, o mille altri ancora, ivi comprese, ovviamente, persone sconosciutissime eppure fondamentali con cui ha avuto a che fare nei suoi progetti. Passa agilmente dall’economia alla politica estera, dal cinema alla letteratura, dagli studi di estetica alla filosofia classica o ipercontemporanea. Non tutto gli va bene, anzi, spesso è critico e tagliente nei confronti dei Maestri del pensiero riconosciuti e acclamati. Ma questo mondo teorico è sempre e comunque profondamente calato nel reale.
Quello che Slavoj Žižek definiva, con la sua eccentricità, il «deserto del reale»[6] si è, per così dire, rilanciato, ha ripreso il sopravvento, si è imposto nel suo formicolio e nel suo incessabile rimestio allo sguardo analitico di Rau. È il ‘realismo globale’, è la ferma volontà di fare i conti con il presente: di fatto, la realtà che il regista sbatte in faccia agli spettatori e alle spettatrici, di tutto il mondo o quasi, è facilmente verificabile. È là, di fronte e attorno a noi, solo che eravamo distratti. Rau sa richiamare l’attenzione di tutti e di ciascuno, sa svelare i meccanismi – le sovrastrutture si sarebbe detto fino a poco tempo fa – che determinano questo reale. Le cose accadono, stanno accadendo, lo sappiamo e non possiamo fare finta di non sapere. Non è più tempo di girare la testa dall’altra parte. Le stragi, le violenze, gli affari sporchi, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, le mafie, i populismi, i razzismi. Lo sappiamo.
Milo non ha timori reverenziali. È uno che non si preoccupa di fare i nomi, di denunciare chiaramente la politica contorta e violenta, di chiamare in causa i responsabili. Insomma: di fare teatro per agire politicamente. Tanto per fare un paio di esempi. Penso a quel che accadde nel 2018 a San Pietroburgo, quando è stato invitato a ritirare il Premio Europa. Ero presente, mi fa piacere raccontarlo. Il Premio Europa – che storicamente ha riconosciuto i maggiori protagonisti della scena internazionale – è stato fondato nel 1986 e per l’edizione 2018 la giuria, composta da eminenti critici e addetti ai lavori, lo ha assegnato a Valery Fokin, regista di chiara fama, direttore del bellissimo teatro Alexandrinskij, e alla famosissima attrice catalana Nuria Espert. Nessun dubbio sulle qualità artistiche dei vincitori, meritatissimo l’omaggio.
Il riconoscimento Europe Prize Theatrical Realities, invece, destinato a figure più giovani, ad artisti ancora ‘in crescita’, per quanto già super affermati, è stato assegnato per il 2018 al coreografo Sidi Larbi Cherkaoui, al gruppo svedese Cirkus Cirkör, al regista polacco Jan Klata, al portoghese Tiago Rodrigues, al francese Julien Gosselin e, appunto, a Milo Rau. E lui ha avuto la forza di interrompere il gioco rutilante, ingessato (ma sempre un po’ noioso) delle premiazioni. Milo Rau non era a San Pietroburgo. Non era nemmeno in Russia. Non aveva ricevuto in tempo il visto per l’ingresso. E così ha inviato un messaggio, che è stato letto dalla figura tra le più rappresentative della critica teatrale mondiale, lo studioso George Banu.[7]
«Non posso essere a San Pietroburgo – aveva scritto Milo Rau nel suo messaggio (NB: la traduzione è mia) – e mi spiace molto poiché sono felice del Premio che mi viene assegnato. Eppure, non sono sorpreso delle difficoltà per ottenere il visto di ingresso in Russia. Da quando abbiamo fatto il progetto The Moscow Trials, cinque anni fa, in cui abbiamo esaminato criticamente il tema della libertà artistica in Russia, non ci è stato più possibile entrare in questo Paese – sia per il festival Manifesta o per il Golden Mask festival o per altri eventi. Ci sono sempre problemi. Questa volta, ad esempio, prima la lettera di invito ufficiale è stata considerata incorretta, poi mi è stato detto che mi sarei dovuto rivolgere a un’altra ambasciata e così via. Ma, per quanto assurdo possa sembrare, il fatto che io non sia al Premio è del tutto irrilevante. Niente più di una stupida formalità. Irrilevante rispetto al fatto che il collega regista Kirill Serebrennikov,[8] che ha ottenuto lo stesso Premio, sia sotto processo per accuse grottesche. Non ha potuto ritirare il premio nel 2017 e non lo può fare oggi perché è ancora agli arresti domiciliari. Il Premio Europa per il Teatro arriva in Russia e non possiamo non dire ufficialmente qualcosa su Kirill Serebrennikov».[9]
Il discorso di Rau affondava ancora la lama: «Come possiamo celebrare la forza e la libertà del teatro, come possiamo festeggiare noi stessi e il dialogo europeo, e rimanere in silenzio sul fatto che il vincitore della passata edizione sia oggetto di accuse ridicole? Il caso di Kirill Serebrennikov è quello delle Pussy Riot, è anche il mio e di tutti noi». La lettera fece subito scalpore: la tribuna ufficiale, con rappresentanti del governo e manager di Stato, rimase gelata; i teatranti e noi che stavamo in platea, provenienti da tutto il mondo, ci scaldammo, capimmo che quella ‘parata’ poteva avere un senso diverso, e da quel momento in poi la serata divenne una continua dichiarazione di sostegno a Serebrennikov, uno sgambetto bello e buono ai fasti putiniani. Ma credo che a nessuno degli astanti, prima della lettura della lettera, fosse passato in mente di preoccuparsi o di denunciare la condizione in cui versava Serebrennikov. Insomma, come dicevamo Milo Rau non ha mai esitato a fare i nomi: e i nomi non sono solo quelli delle Pussy Riot o di Putin, ma anche di Ceaucescu, di Breivik, di Mobutu Sese Seko, di Valery Bemeriki e del Fronte Patriotico Rwandese, Trump, Erdogan, Assad…
Per quel che ci riguarda ricordo un passaggio di quanto Milo ha scritto durante le riprese di The new Gospel, a Matera: «Lo Stato ha comunque abbandonato il sud Italia da decenni e le leggi esistono solo sulla carta. Come al tempo dell’Impero romano, le persone sentono il bisogno di una guida. O magari di giustizia […], Gesù contro Salvini, giustizia contro sfruttamento».[10] Dunque impegno politico di quello che un tempo si sarebbe definito intellettuale impegnato, che vuole ritrovare il valore nitido dell’engagement – parola oggi orrendamente svilita a prassi di acquisir clienti delle piattaforme online.
La sua battaglia è l’invito all’Impero a una possibile rivolta, in nome di valori – la solidarietà, l’uguaglianza, la fratellanza – tanto cristiani quanto socialisti. Combattere il Biopotere foucaultiano, categoria ormai consolidata in cui si inquadra tanto la supremazia dei Big Data quanto l’uso strategico della più raffinata tecnologia per controllare le vite umane, si può e si deve. Rau ci invita a prendere consapevolezza e, ancora, ad agire. Anche dentro le istituzioni: di fatto, Milo ha diretto un importante Teatro Nazionale a Gent, e ora un importantissimo festival europeo, il Wiener Festwochen a Vienna; fa parte, insomma, dell’élite degli artisti europei. Eppure, non sembra appagato. Costantemente cerca il cambiamento, la riforma ancorché dall’interno.
Usando sapientemente gli strumenti a sua disposizione – che siano il teatro, il cinema, gli articoli, la tv, gli incontri, le conferenze, l’Opera, la radio – Milo invita il pubblico a prendere coscienza, cerca (garbatamente) di svegliarlo. Ecco il suo gioco: invita ogni singolo spettatore a non stare alle corde, a non incassare passivamente le gragnuole di colpi dell’Impero. Sembra Brecht? Beh, certo il maestro di Agusta non è lontano. E tanto più urgente è questa azione di impegno, perché ha a che fare con la sopravvivenza della democrazia messa sotto attacco dall’Impero. Vale la pena chiamare in causa l’Impero? Potrà sembrare eccessivo, complottistico, ma Impero è, non a caso, il titolo di un percorso di ricerca e di uno spettacolo tra i più intensi del regista, Empire. È qui il simbolico riferimento al reale, al presente, al senso profondo della creazione. Empire/Impero evoca, forse indirettamente, l’opera di Toni Negri e Michael Hardt – il libro del 2001 aveva come sottotitolo Il nuovo ordine della globalizzazione –[11] ed è lo stato di fatto, il crogiuolo socio economico che fa da contesto necessario e insuperabile della narrazione. È all’interno di questo Impero occidentale che ci si confronta. Quella di Rau è una dichiarazione sistematica, di intenti: hic Rhodus, hic salta! sembra dire il regista, dalla Siria all’Amazzonia, dal Congo all’Italia. Non ci sono vie di fuga di fronte all’assurdità del regime di un Impero diffuso e nascosto, violento e implacabile, dai mille volti e dalle infinite diramazioni, che va contrastato se non abbattuto nella speranza, per dirla banalmente, di cambiare il mondo. Ha scritto:
Il rinnovamento spirituale non verrà di certo da quelle gated communities che hanno prodotto il neoliberismo autoritario. La filosofia dei tempi a venire sorgerà dalle foreste, dalle favelas e dalle periferie, dalle case e dalle monocolture occupate. L’ironia finale della storia, per la quale i governanti vorranno impartire ai governati una filosofia della rinuncia, sarà un’ironia che i ‘superflui’ non accetteranno.[12]
È utopia credere nella rivolta degli ‘ultimi’, dei ‘superflui’: sì, forse lo è. Ma del resto l’arte ha lo scopo di rendere realizzabile l’utopia, o no?
L’altra faccia della medaglia, rispetto all’Empire, è la Tragoedia. Una parola inglese, l’altra in Greco. Sono alpha e omega. Tragedia è infatti la seconda parola chiave per capire Milo Rau. Il suo costante e crescente interesse per la struttura tragica lo spinge a investigare il corpus classico con incredibile partecipazione, quasi con impeto violento. Sicuramente interessato anche agli archetipi junghiani, Rau trascina il mito nella realtà, svelandolo in tutta la sua potenza.
Ecco allora Oreste a Mosul, Antigone in Amazonia, ecco il progetto di realizzare tutte le tragedie greche nell’arco di un tempo brevissimo. «Il teatro, per come lo concepisco, è il luogo della tragedia, nel senso che penso possa importare quel che accade sulla scena, sì, e che possa importare, almeno filosoficamente, come siano possibili un falso tribunale come The Congo Tribunal o un falso processo come The Moscow Trials».[13] La tragedia insegna che le decisioni che si prendono oggi, se sbagliate, hanno conseguenze che si riverberano sulle future generazioni. Nell’epoca della crisi climatica, dei crolli economici, delle guerre, «quello che diciamo e facciamo importa. Ecco la più importante lezione dell’arte di resistenza, ed è una lezione tragica: quel che facciamo importa».[14] Viene da concludere, rischiando un po’ l’enfasi, che se il teatro svela l’individuo di fronte al destino, come si diceva, il destino oggi non è altro che la faccia nascosta dell’Impero, in cui si muovono le vite, le conquiste, i fallimenti, gli amori, i lutti, i sogni di tutti e di ciascuno.
Si tratta di raccontare queste vite, queste storie. Magari in cucine semidistrutte, in case borghesi ricostruite fedelmente, in spazi neutri – una macchina scassata, una strada, un bar, uno studio radiofonico – in cui si muovono gli esseri umani. Luoghi del racconto e del ricordo: attorno a un tavolo, semplicemente. Se la solidarietà è considerata un crimine dai governi occidentali (Italia in testa), se per il neoliberismo la povertà è solo una noiosa interferenza, l’arte e il teatro possono fare qualcosa là dove la politica fallisce, o ha fallito.
Paradossalmente esiste solo una economia globale, un clima globale, un flusso globale di informazioni o di rifugiati, ma non esistono una società civile globale o una legislazione globale. Devono essere create dalla nostra generazione, come un progetto utopico e infinito […]. La solidarietà globale o l’arte dovrebbero essere misurate, più o meno, sulla base di quanto e come si confrontano con queste contraddizioni.[15]
E qui possiamo riprendere il filo del ritratto, andando ad analizzare il modo di vestire di Rau. Non possiamo e non vogliamo parlare di outfit o di armocromia, ci mancherebbe altro! Anche perché Milo è sempre informale – t-shirt nera e jeans, sneakers, oppure maglione e giacca a vento d’inverno: così sono anche molti dei suoi ritratti usati dalla stampa di mezza Europa. Non ci tiene a essere o apparire eccentrico, né un ‘artista’ che fa spiccare la sua diversità rispetto alla massa. Anzi. È interessante, per quel che riguarda il puzzle biografico-teatrale che sto provando a costruire, quanto scrive nel già citato libro Theatre is democracy in small: «Una cosa che mi ha sempre divertito a proposito dei grandi uomini e delle grandi donne. Non sono grandi. Ricordo la prima volta che vidi Max Frisch in televisione: un uomo piccolo, con grandi occhiali e un assurdo dialetto. Ho pensato la stessa cosa di fronte a Marguerite Duras, Patricia Highsmith, Friedrich Durrenmatt: erano deludenti. Questa delusione si è ripetuta tante volte […]».[16]
Ma questi uomini e queste donne fanno miracoli. Come il dottor Mukwege, che Rau ha incontrato durante le riprese di The Congo Tribunal, prima che vincesse il Nobel. Mukwege era sconosciuto ai più, ma è «una figura d’ uomo che sembra provenire da un vecchio libro: qualcuno che fa il suo lavoro perché deve essere fatto. Un lavoro estremamente stancante e pericoloso. Il Dottor Mukwege non ha cambiato la scienza, non ha risolto la guerra nel Congo orientale, e, nel suo aspetto, non si fa notare, non è bello e non è dotato di grande retorica. Ma è un eroe del nostro tempo […] qualcuno che, con le proprie azioni, protesta quotidianamente contro il male».[17] Mi piace questa semplicità, questa umanità che Milo cerca nei suoi punti di riferimento, e che si riverbera anche nei suoi allestimenti. I costumi, gli arredi, i set: non sono mai rutilanti, d’epoca, ricercati. Al massimo, i set di Rau sono invasi da telecamere e schermi, nel gioco continuo tra immagine viva e immagine riprodotta che ormai caratterizza le scene europee. Ma anche qui: niente effetti, niente fantasie. Solo la brutale ripresa di quel che accade. Come facciamo tutti, quotidianamente, con i nostri device, con i nostri cellulari.
A chiudere il cerchio dei riferimenti, oltre a quelli che potremmo definire ‘maestri nascosti’, ci sono, ovviamente, anche i maestri di teatro: sicuramente bisogna tornare a Bertolt Brecht, già evocato, che Rau cita spesso e volentieri. Potremmo dire, anzi, che Rau è il più grande continuatore dell’opera di Brecht dopo l’allievo ribelle Heiner Muller. Probabilmente Milo si è inspirato al magistero di entrambi, dando però un’attenzione costante alle teorie e alle prassi brechtiane. In fondo, quando Brecht parlava del pubblico, che a teatro doveva divertisti come a un incontro di boxe, non prefigurava a suo modo il re-enactment?
Tra i riferimenti metterei anche il belga Jaques Delcuvellerie, poco conosciuto in Italia – se non per un fugace passaggio al teatro Eliseo –[18] che con il suo memorabile Rwanda 94 aprì la strada a un rinnovato teatro-documentario che prendeva le mosse da Georg Büchner, e passava dagli aguzzi scritti di Peter Weiss. Quel verbatim theatre che in Italia ha assunto anche le forme del teatro di narrazione, è linfa per l’approccio giornalistico, sociologico, economico e politico di Rau. Tra i riferimenti, lui cita anche Nikolai Evreinov, Sergej Ejzenstejn, Pier Paolo Pasolini. A me piace citare anche il cinismo di Thomas Bernhard, la follia cinica di Werner Schwab, lo sguardo anarchico sul mondo sfatto di Herbert Achtembush.
L’ironia, ecco un’altra caratteristica di Milo Rau. «La Bibbia secondo me la si capisce solo se si è atei».[19] È uno dei possibili ‘aforismi’ che si trovano negli scritti e nei discorsi del regista. La sua è un’ironia aguzza, si diverte a smascherare i perbenismi e i luoghi comuni, il bigottismo e gli interessi celati. Lui gentile, con il suo sorriso, non si fa scrupolo di ‘toccare’, come avrebbe detto Cyrano. È un’ironia che passa anche attraverso i social. Rau fa un uso costante di Facebook, fruitore tra i fruitori. Ha i suoi quasi 5000 amici, posta notizie, link, rimandi, commenti, selfie, fa promozione per gli spettacoli di NtGent. Se gli scrivi risponde, semplicemente…
1 Dunque capiterà, nel corso di questo scritto, che io parli di questo artista chiamandolo semplicemente per nome, non me ne vogliano i lettori e le lettrici.
2 M. Rau, ‘Manifesto di Gent’, in A. Scarpellini, ‘Histoire(s) du théatre con Decalogo’, Doppiozero, 22 novembre 2018, < https://www.doppiozero.com/milo-rau-histoire-s-du-theatre-con-decalogo > [accessed gennaio 2023]
3 Si rimanda almeno ai contributi di Renato Palazzi (Personaggio, persona, storia) e Roberta Ferraresi (Il re-enactment nella scena contemporanea. Milo Rau, teatri del reale, e oltre) in ‘Intorno a Milo Rau’, a cura di C. Lietti, C. Rovida, Stratagemmi - Prospettive Teatrali, 40, 2019, pp. 25-30 e 31-44.
4 M. Rau, Realismo globale, ed. it. a cura di S. Gussoni, F. Alberici, Imola (BO), Cue Press, 2018, p. 50.
5 A. Porcheddu (a cura di), ‘Milo Rau: parliamo di «ciò che abbiamo di più importante»’, gli Stati generali, 16 settembre 2019, < https://www.glistatigenerali.com/teatro/milo-rau-parliamo-di-cio-che-abbiamo-di-piu-importante/ > [accessed gennaio 2023]. Ora anche in ‘Intorno a Milo Rau’, p. 230.
6 Cfr. S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, trad. it. di P. Vereni, Roma, Meltemi, 2002.
7 George Banu, scrittore, critico teatrale, docente universitario, straordinario testimone del nostro tempo teatrale, è scomparso il 21 gennaio 2023.
8 Serebrennikov è stato condannato a Mosca il 20 giugno 2020 per una ipotetica ‘appropriazione indebita’ di finanziamento pubblico, per quanto lui si sia sempre professato innocente. Già era stato arrestato nell’agosto 2017 con l’accusa di truffa.
9 La versione inglese della lettera di Rau si legge qui: C. Provvedini, ‘Il Premio Europa per il Teatro di San Pietroburgo a Valerij Fokin, Milo Rau…’, Rumor(S)cena, 20 novembre 2018, < https://www.rumorscena.com/20/11/2018/il-premio-europa-per-il-teatro-di-san-pietroburgo-a-valerij-fokin-milo-rau-e-la-settimana-del-teatro-lev-dodin-hamlet > [accessed gennaio 2023].
10 A. Porcheddu (a cura di), ‘Il diario di Milo Rau: «vi racconto il Sud Italia, dove giro un film su Gesù»’, gli Stati generali, 11 settembre 2019, < https://www.glistatigenerali.com/teatro/milo-rau-basilicata-diario-italiano-gesu/ > [accessed gennaio 2023]. Ora in ‘Intorno a Milo Rau’, p. 229.
11 M. Hardt, A. Negri, Impero, il nuovo ordine della globalizzazione [2001], trad. it. di A. Pandolfi, D. Didero, Milano, Rizzoli, 2003.
12 A. Porcheddu, ‘Milo Rau: Coronavirus, liberalismo autoritario e l’insurrezione dei superflui’, gli Stati generali, 26 marzo 2020 < https://www.glistatigenerali.com/teatro/milo-rau-coronavirus-liberalismo-autoritario-e-linsurrezione-dei-superflui/ >. Ora in ‘Intorno a Milo Rau’, p. 243.
13 M. Rau, Theatre is democracy in small, Berchem, Uitgeverij EPO, 2022, p. 52 (trad. mia).
14 Ivi, p. 55.
15 Ivi, p. 61.
16 Ivi, p. 34.
17 Ivi, p. 36.
18 Lo spettacolo Rwanda 94 fu programmato nel settembre del 2004.
19 A. Porcheddu (a cura di), ‘Il diario di Milo Rau: «vi racconto il Sud Italia, dove giro un film su Gesù»’, gli Stati generali, 11 settembre 2019, < https://www.glistatigenerali.com/teatro/milo-rau-basilicata-diario-italiano-gesu/ > [accessed gennaio 2023]. Ora in ‘Intorno a Milo Rau’, p. 229.