L'Antropocene è un'ipotesi scientifica che dà il nome al nuovo periodo geologico in cui la Terra e la sua atmosfera sono state trasformate dalle attività umane (in particolare dallo sfruttamento dei combustibili fossili), e che di fatto ha spinto il clima terrestre sull'orlo del collasso. Reso popolare nel 2000 durante il convegno dell’International Geosphere-Biosphere Programme,[1] grazie all’accordo tra il biologo naturalista Eugene F. Stoermer, che lo aveva proposto fin dagli anni Ottanta, e il premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen, il termine ʻantropoceneʼ è ormai oggi entrato nell’uso e si è molto diffuso, anche perché le conseguenze del cambiamento climatico sono sempre più presenti e tangibili. Spesso abusato e di recente messo in discussione e sostituito da altri – si pensi ad esempio ai concetti di Wasteocene,[2] Chtulocene[3], Capitalocene[4]… – è innegabile che viviamo in un periodo caratterizzato dal preoccupante aumento delle conseguenze dell'attività umana sull'ecosistema. Alla luce di quanto sta accadendo intorno a noi risulta chiaro, infatti, quanto sia impellente e necessario acquisire consapevolezza sul valore ʻpoliticoʼ delle decisioni assunte nell’ambito, ad esempio, della pianificazione territoriale, del funzionamento economico e dell’organizzazione industriale o sociale per garantirne la sostenibilità.
In tal senso, una nuova consapevolezza ecologica si sta facendo strada all’interno di una massa critica mondiale sempre più consistente e numerosa. Essa ha preso coscienza della complessità del problema: preservare l’ambiente, limitare i danni dell’impatto antropico significa prendere in considerazione, ad esempio, la demografia e gli effetti perversi della mondializzazione, della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza con il conseguente aumento dei flussi migratori. In altre parole: si può leggere e comprendere il contemporaneo solo attraverso il prisma della diversità dei territori e delle disuguaglianze socio-spaziali.
La letteratura e le forme artistiche in generale sono oggi abitate dalla necessità di comprendere e raccontare la storia, la vita sociale e politica, i mutamenti del paesaggio e anche gli eventi naturali. A tal fine, mobilitando nuovi ʻmodi di fareʼ, gli artisti offrono alternative all'approccio dei ricercatori consentendo di spostare l’attenzione verso altre forme di conoscenza, basate sul sensibile e sul pratico, lontane da ogni positivismo.[5] Nel corso degli ultimi decenni, infatti, si è sviluppato in più direzioni il dibattito intorno all’agentività di immagini e immaginari, visibili o evocati attraverso il linguaggio, e ai dispositivi tecnologici che ne garantiscono o amplificano la produzione, la circolazione e l’interazione con gli altri agenti sociali e culturali. L’idea che sta alla base di questa proficua prospettiva di studio è che le immagini e gli immaginari relativi alle relazioni umano-non umano, e le narrazioni e ri-significazioni che queste alimentano, dispongano di una loro propria forza dinamica e possano agire con effetti performativi nell’ambito del reale. In tale ottica, i prodotti artistici non sono considerati semplici artefatti che riflettono passivamente relazioni finzionali, ma divengono agenti effettivi del reale, nel pieno riconoscimento di una loro concreta e peculiare dimensione attiva.
Le sfide prospettate dall’Antropocene sono quindi molteplici e l’interesse trasversale da esso suscitato testimonia un'evidente propensione delle forme artistiche e letterarie a impegnarsi in nome di una rinnovata ʻtransitivitàʼ, manifestando apertamente l'intenzione di dare intelligibilità al mondo in cui viviamo.[6]
Offuscando i confini tra scienze della vita e della terra e scienze umane e sociali, le forme della creazione artistica contemporanea dimostrano allora che riflettere sull’antropocene significa non dissociare ʻevoluzione della terraʼ e sviluppo socio-economico; e vuol dire soprattutto uscire dalla logica umano/non umano per entrare in quella viventi/non viventi che, in una prospettiva di decostruzione dell’approccio antropocentrico, ne riconosca invece il principio di interdipendenza.
Il volume è il risultato di un ciclo di seminari interdipartimentali (Dipartimento di Lingue e Culture Moderne e Dipartimento di Italianistica, Romanistica, Arti e Spettacolo) svoltisi all’Università di Genova tra il 2020 e il 2021. Esso quindi, in un’ottica inter e transdisciplinare, intende interrogare diverse pratiche artistiche e letterarie per indagare come l’arte e la letteratura stiano rispondendo alle sollecitazioni del mondo contemporaneo proponendo nuove maniere per affrontarne la complessità e pensare a nuove forme di vita sostenibili nell’epoca dell’antropocene.
We need new figurations for the humanities. We need to explore intellectual pathways in which critique goes together with creativity. We need critical practices that, defamiliarizing consolidated patterns of thinking, escort us out of the safety zones in which anthropocentrism, Eurocentrism, sexism, speciesism, ableism, constitute the normal discourse of our cultural paradigms.[7]
Seguendo l’auspicio dei curatori di un volume di studi dedicato allo sviluppo delle environmental humanities in ambito italofono, i saggi qui raccolti descrivono come i prodotti di alcune forme artistiche (arti plastiche, letteratura, teatro, cinema) si rivelano in grado di problematizzare il rapporto dell’umano con il pianeta, con la natura, con lo sviluppo tecnologico divenendo così parte di un vero e proprio dibattito ʻpoliticoʼ. Provenienti da spazi culturali diversi, le opere oggetto degli studi sono veri e propri incubatori di idee, laboratori di pensiero e spazi di dibattito e di scambi di competenze e conoscenze, in grado di indagare sulle cause e denunciare le conseguenze dei fenomeni di degrado ambientale a cui stiamo assistendo in questo primo quarto del XXI secolo. Esse interrogano e mettono in discussione le costruzioni mentali, gli stereotipi dominanti della società occidentale antropocentrica per invitare a riscrivere il nostro rapporto con l’animalità e la vita vegetale, a rileggere la nostra relazione con il passato e il futuro alla luce di un ideale di ʻbene comuneʼ.
Il volume quindi intende esplorare le possibili diverse significazioni espresse dalle narrazioni del cinema, delle arti plastiche e performative, della letteratura e del mondo digitale, per offrire una riflessione sui modi in cui una più viva coscienza ecologica e una crescente consapevolezza ambientale possono oggi produrre nuove forme espressive e nuovi discorsi, fornendo modelli interpretativi in grado di rivelare significati ʻaltriʼ in produzioni culturali della contemporaneità. Intende tentare quindi di interloquire, attraverso l’arte, con le problematiche che segnano l’età dell’antropocene.
Gli artisti al centro degli studi che compongono il volume possono essere considerati come dei veri e propri ʻsemionautiʼ[8] intenti a navigare e a intercettare nelle loro esplorazioni il mondo; essi programmano nuove forme e producono percorsi o scenari originali tra segni e significati. Ciò facendo, diventano anche sostenitori di quell’ʻantropologia espansaʼ che Nicolas Bourriaud propone di definire ʻantropologia molecolareʼ,[9] «chiave di volta per avvicinare e comprendere le tante disseminazioni e gli arditi accostamenti – le molecole – messi multiformemente in campo».[10]
Al centro degli studi, gli artisti e le loro pratiche ci permettono di percepire la realtà con uno sguardo nuovo, consapevole e persino stupito, comunque non più ingenuo e rassicurante. Il loro approccio alla realtà mira a interrogarne le peculiarità in un’ottica espansa dove il movimento, l’erranza, il confine e l’appartenenza ancestrale al territorio si intersecano alla ricerca di nuovi significati. La loro ricerca prende le mosse dalla concezione del sapere situato e dalla convinzione sul potere d’azione dell’arte per cui solo chi conosce concretamente, vive ed esperimenta, può portare uno sguardo consapevole dall’interno verso l’esterno, promuovendo il sapere attraverso la creatività.
La relazione con il territorio e le sue caratteristiche, fondamento del vivere umano nella natura e in comunità, potrebbe trovare risposte utili per la sopravvivenza della specie con un rinnovato ascolto della natura. La stessa natura che dovrebbe essere considerata nella sua unicità e specificità intrinseca nella relazione con l’umano al di là dello sfruttamento indiscriminato e del non rispetto assoluto. La proposta di dare voce a un elemento naturale, come nel caso del fiume Loira in Francia, diventa così un’affascinante prospettiva per lo sviluppo della coscienza umana (Rolla). Il non umano diventa un soggetto a tutti gli effetti, un’istanza rinnovata capace di azione e degna dell’attenzione e dell’interlocuzione, di essere ascoltata e considerata alla stessa stregua di qualsiasi essere vivente. La drammaturgia contemporanea, tramite forme ibride e intermediali, tenta di dare voce a queste istanze non-umane nella messa in scena performativa (Fuoco). Le pratiche artistiche situate possono essere considerate come mezzi per provocare la consapevolezza degli spettatori e in tal senso la conferenza-performance costituisce uno strumento efficace per trasmettere concetti e idee. Come nel caso di Emmanuelle Pireyre, scrittrice e performer francese che accompagna la scrittura dei suoi romanzi con la costruzione e la messa in scena di conferenze (Bricco).
Il paesaggio contemporaneo, con tutte le sue trasformazioni e i traumi, sfondo di una certa cinematografia femminile italiana, è studiato in relazione alle forme dell’erranza delle protagoniste nel contributo di Laura Di Bianco. I film presi in esame descrivono un inusuale vuoto delle città attraversate dalle donne, un vuoto che rivela l’assenza e allo stesso tempo il desiderio di appartenenza a comunità vitali. I territori di frontiera con i loro potenziali di relazione ma anche di frattura, costituiscono l’oggetto di indagine della Border Art, analizzata nel contributo di Andrea Masala che riflette sulle opportunità di spostarsi da un luogo all’altro e di concepire la propria identità nei confronti di uno spazio determinato. Le caratteristiche del movimento accomunano diversi approcci al territorio. Lo spostamento infatti permette di ricentrarsi, di ri-conoscersi e di conoscere nuove realtà umane e non umane, nuovi territori e situazioni. Il contributo di Alessandro Ferraro s’interroga sulle metafore visuali in grado di comprendere la logica culturale del Capitalocene all’interno del sistema dell’arte contemporanea, e intravvede nell’estrattivismo una possibile rappresentazione simbolica dell’Antropocene. Tre opere di John Akomfrah - Vertigo Sea (2015), Purple (2017), Four Nocturnes (2019) - sono al centro del contributo di Paola Valenti. Le tre videoinstallazioni mettono in gioco quell' ‘estetica del riciclo’, cifra stilistica dell’artista britannico, che, intrecciando filmati d’archivio a riprese originali, si avvale delle potenzialità insite in una narrazione non lineare per far convergere ricordi autobiografici e questioni eco-filosofiche e per evocare l'interconnessione tra gli esseri umani e il mondo naturale. Il saggio riflette sullo spostamento del fulcro tematico che si delinea nelle più recenti opere di Akomfrah, nelle quali l’essere umano perde progressivamente centralità nella narrazione per fare posto ad altre specie e agli elementi naturali che diventano attori di un dialogo post-antropocenico sul nostro presente culturale e geologico.
Gli autori e le opere presi in esame negli studi consentono pertanto di percepire nuove maniere per creare spazi di riflessione grazie al ricorso a forme ibride, a oggetti impuri e contaminati, a spazi di creazione intermediali e multimediali. L’accostamento di elementi diversi si situa proprio nell’ottica dell’artista ‘semionauta’ evocata in precedenza, che raccoglie stimoli in contesti e situazioni multipli e che adopera ingredienti diversi per dare forma alle sue idee.
1 Cfr. P.J. Crutzen, E.F. Stoermer, ʻThe Anthropoceneʼ, IGBP Newsletter, 41, maggio 2000.
2 M. Armiero, Wastocene: stories from the global dump, Cambridge, Cambridge University Press, 2021 [L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale, Einaudi, 2021].
3 D. Haraway, Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, Durham, Duke University Press, 2016.
4 Cfr. J. W. Moore, Anthropocene or Capitalocene. Nature, History and the crisis of Capitalism, Oakland, PM Press, 2016.
5 Cfr. T. Ingold, Making: Anthropology, Archaeology, Art and Architecture, New York-London, Routledge, 2013.
6 Si vedano in particolare i saggi di B. Latour, Face à Gaïa, Paris, La Découverte, 2015 e Où atterrir?, Paris, La Découverte, 2017; e di E. Coccia, La vita sensibile, Bologna, Il Mulino, 2011 e Métamorphoses, Paris, Rivages, 2020.
7 S. Iovino, E. Cesaretti, E. Past, ʻIntroductionʼ, in ID (a cura di), Italy and the Environmental Humanities landscapes, natures, ecologies, University of Virginia Press, 2018, pp. 1-16, cit. p. 2.
8 Cfr. I. Luquet-Gad, ʻEntretien avec Nicolas Bourriaudʼ, <http://www.zerodeux.fr/interviews/nicolas-bourriaud/> [accessed 15 March 2023].
9 N. Bourriaud, ʻThe Seventh Continent: These upon Art in the Age of Global Warmingʼ, in The Seventh Continent – Field Report, 16th Istanbul Biennial, IKSV, 2019, pp. 55-58. Sulla connessione dell’artista all’antropologo si veda anche J. Kosuth, ʻArtist as Anthropologistʼ, in S. Johnstone (a cura di), The Everyday, Cambridge, MIT Press, 2008; H. Foster, ʻThe Artist as Ethnographer?ʼ, in G.E. Marcus, F. R. Myers (a cura di), The Traffic is Culture: Refiguring Art and Anthropology, Berkeley, Los Angeles, London, University of California Press, 1995.
10 P. Mania, ʻL’arte nell’età dell’Antropocene. 16a Biennale di Istanbulʼ, Arte e oltre / art and beyond rivista trimestrale di arte contemporanea, 24, VI, 20/10/2019, ˂https://www.unclosed.eu/rubriche/osservatorio/recensioni-attualita/283-l-arte-nell-eta-dell-antropocene.html˃ [accessed 15 March 2023].