Erika Fischer-Lichte, Estetica del performativo. Una teoria del teatro e dell’arte

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In ritardo rispetto alle traduzioni in altre lingue europee, appare finalmente anche in edizione italiana, grazie all’editore Carocci, questo consistente volume di Erika Fischer-Lichte, studiosa fra le più autorevoli della storia e della teoria del teatro. La chiara introduzione e la traduzione meditata e impegnativa sono di Tancredi Gusman.

Estetica del performativo parrebbe sulle prime rimandarci al vivace campo discorsivo dei performance studies, che negli ultimi decenni hanno mostrato come sia possibile riformulare l’analisi della cultura, nelle sue varie manifestazioni, a partire dai paradigmi della performance e della performatività. Tuttavia, l’ambiziosa proposta di Fischer-Lichte è quasi opposta alle linee di sviluppo dei performance studies di area americana (da Richard Schechner a Diana Taylor, per intenderci). Questi hanno postulato l’estensione della categoria di performance oltre il campo ristretto delle arti della scena, a includervi le performance politiche, sociali, sportive, mediatiche, e hanno negato la priorità dell’estetica nella definizione e analisi degli eventi performativi, compresi quelli artistici (come ha spiegato Fabrizio Deriu nella sua introduzione a Magnitudini della performance di Schechner). La proposta di Fischer-Lichte muove invece in senso contrario (come nota anche Marvin Carlson nell’introduzione all’edizione inglese del volume di Fischer-Lichte, The Transformative Power of Performance, 2006). Gli oggetti di studio da lei considerati sono infatti le performance artistiche e in particolare il teatro, l’arte di azione (Aktionskunst) e la performance art, nei loro sviluppi intrecciati in Occidente, dal secondo Novecento ad oggi; e la studiosa rivendica la priorità dell’estetica come disciplina atta a comprenderne e spiegarne il funzionamento, e la necessità di rinnovarne i paradigmi e le concettualizzazioni tradizionali per argomentare appieno la ‘svolta performativa’ che caratterizza l’indirizzo delle arti della scena (e delle arti tout-court) negli ultimi decenni.

Fischer-Lichte dialoga dunque in prima battuta con il pensiero filosofico e teatrologico, non con quello dei performance studies. Dialoga a tutto campo con gli studiosi di estetica e filosofia di area tedesca: talvolta con i classici Lessing e Goethe, altre volte con Max Hermann, Walter Benjamin, Norbert Elias, altre ancora con gli studi che hanno contribuito negli ultimi decenni a ridefinire l’estetica in senso fenomenologico e antropologico, come i contributi di Helmut Plessner, il fondatore dell’antropologia filosofica, Martin Seel, erede della scuola di Francoforte, e Gernot Böheme (purtroppo pochi dei lavori cui fa riferimento esistono in traduzione italiana).

L’estetica del performativo proposta da Fischer-Lichte affonda le radici, in particolare, nell’area dell’estetica teatrale e più esattamente nella Theaterwissenschaft tedesca di inizio Novecento e del suo fondatore Max Hermann, al quale l’autrice attribuisce orgogliosamente la paternità novecentesca nel rinnovare l’analisi del fenomeno scenico, grazie all’intuizione che lo portò, per primo, a guardare allo spettacolo nei termini di ‘evento’. A partire da queste radici, l’estetica del performativo considera dunque il fatto scenico come Aufführung (esecuzione, spettacolo) e non come opera o testo, e procede alla analisi dei vari livelli di trasformazione implicati nello svolgersi dell’evento artistico: trasformazione della materialità dello spettacolo sotto ogni profilo, spaziale, temporale, corporeo, sonoro; trasformazione della relazione fra performer e spettatori che va compresa in termini somatici e immaginativi, prima che semantici e interpretativi.

Tale epistemologia viene proposta molto chiaramente fin dal primo capitolo del libro, Fondazione di un’estetica del performativo. Dopo aver descritto nel dettaglio l’esecuzione di Lips of Thomas di Marina Abramovic (1975), l’autrice afferma:

Una simile performance si sottrae alla comprensione delle teorie estetiche tradizionali. Essa si oppone caparbiamente alle pretese tipiche di un approccio ermeneutico rivolto a comprendere l’opera d’arte. Qui, infatti, ciò che conta non è la comprensione delle azioni compiute dall’artista ma le esperienze che essa suscita negli spettatori nel corso di queste azioni: ciò che conta, in breve, è la trasformazione di coloro che partecipano alla performance (p. 29).

Convincente e interessante è il corpus scelto dall’autrice per mettere in rilievo la svolta performativa nelle arti della scena; ella accosta ai nomi noti della scena internazionale – dal Living a Grotowski al Performance Group di Schechner, da Bob Wilson a Raffaello Sanzio – nomi e esperienze di area tedesca e dell’Europa orientale che ridisegnano il nostro quadro di riferimento mettendo al centro lavori quali Insulti al pubblico di Peter Handke, gli spettacoli di Christoph Schlingensief, Frank Castorf, Einar Schleef, quelli di Klaus Michael Grüber, Peter Stein, Cristoph Marthaler, Christoph Schlingensief, le coreografie di Felix Ruckert e i lavori dell’azionista viennese Hermann Nitsch. È significativo che Fischer-Lichte nel corso del volume spazi senza soluzione di continuità dal campo della scena teatrale alla performance art, considerando con unico sguardo i lavori citati accanto alle azioni e alle performance di John Cage, Jospeh Beuys, Marina Abramovic, Gina Pane, Chris Burden, Coco Fusco e Guillermo Gomez-Pena: l’aspetto interattivo della performance art è fondamentale per l’impalcatura teorica della studiosa.

Il secondo capitolo del volume offre chiarificazioni chiarimenti riguardo al concetto di performativo (con riferimenti ad Austin e a Butler piuttosto che a Schechner) e a quello di Aufführung, termine che pone complesse questioni di traduzione: va dato merito a Tancredi Gusman di un confronto serrato con l’autrice, che ha portato a rispettarne la volontà e a decidere infine di tradurre Aufführung con ‘spettacolo’, mentre l’edizione inglese, scegliendo il termine ‘performance’, apre una contraddizione rispetto all’intenzione epistemologica di Fischer-Lichte. È in questo capitolo che vengono articolate le connessioni con la Theaterwissenschaft tedesca.

Ed ecco susseguirsi, inanellati gli uni agli altri in altrettanti capitoli, i fondamenti dell’estetica del performativo, argomentati con piglio analitico, chiaro, talora pedante. Il terzo capitolo, La co-presenza di attori e spettatori, mira a superare il vecchio approccio che distingue fra «estetica della produzione» ed «estetica della ricezione», insistendo sulla particolare e costitutiva «modalità autopoietica delle arti della scena»: «lo spettacolo viene regolato e prodotto da un loop di feedback autoreferenziale e continuamente in divenire, il cui andamento non è completamente predeterminato e pianificabile» (p. 68). Fischer-Licthe argomenta come, in un’epoca di svolta performativa, compito della regia, prima che la coerenza semantica, sia diventata l’ideazione di sempre diversi e sperimentali dispositivi autopoietici di relazione fra attori e spettatori, grazie a un gioco condotto tramite specifiche leve, quali lo scambio di ruoli, la creazione di comunità provvisorie, il contatto, la liveness (qui Fischer-Lichte è in dialogo con gli studi di Philip Auslander e Peggy Phelan).

Nel quarto capitolo, La produzione performativa della materialità, la competenza semiotica dell’autrice si riconverte in un’epistemologia che non intende più render conto (come negli anni Ottanta) di un testo spettacolare, ma di un evento che ha natura transiente: l’assunto continuamente ribadito è che tale materialità si produce in scena, ha carattere fugace, è in continuo divenire e in metamorfosi e vive unicamente nel ciclo autopoietico dell’esecuzione artistica. Lo spazio maggiore del capitolo è dedicato alla generazione della corporeità: Fischer-Lichte sistematizza e discute i termini oggi ricorrenti di «embodiment» (che Tancredi Gusman traduce come «incarnazione», preferendo questo termine a «incorporazione») e di «presenza», procedendo ad una storia culturale dei due concetti. Così la disamina critica del concetto di embodiment parte dal secondo Settecento, con Lessing, e dalla sua formulazione tutta interna al dualismo occidentale fra corpo e mente, per coglierne i progressivi slittamenti di senso, dalle avanguardie fino all’epoca della svolta performativa. Oggi non si presuppone più «che il corpo sia un materiale completamente plasmabile e malleabile», ma si prendono piuttosto le mosse «dal raddoppiamento insito nell’essere un corpo vivo e nell’avere un corpo, dal raddoppiamento tra corpo fenomenico e corpo semiotico» e si apre così la possibilità per «una definizione di incarnazione completamente nuova» caratterizzata dal ricorso a vari procedimenti, che la studiosa individua e analizza con dovizia di esempi tratti dai diversi processi creativi (p. 145). Tutti creano nello spettatore una oscillazione della percezione, una «multistabilità percettiva» fra corpo fenomenico e corpo semiotico del performer (p. 156) al quale l’autrice attribuisce qualità di fenomeno estetico. Analoga rilettura è applicata al concetto di ‘presenza’, secondo una epistemologia che mira a distanziarsi dal discorso contemporaneo sugli effetti di presenza suscitati dalla comunicazione mediatica, e sceglie invece una strada ambiziosa e complessa, tutta tedesca: il concetto viene discusso in connessione con l’odierna tensione culturale alla reintroduzione della nozione benjaminiana di aura e anche rispetto alla promessa di felicità di cui ha parlato Norbert Elias ne Il processo di civilizzazione. Seguono, nello stesso capitolo, pagine più sintetiche dedicate alla generazione della spazialità, della sonorità e della temporalità, ovvero le altre dimensioni interconnesse della materialità dello spettacolo, sempre e solo in divenire. Queste pagine attraggono nell’orbita dell’estetica del performativo una serie di paradigmi ormai diffusi, quali i concetti di spazio performativo e spazio acustico; la centralità del concetto di «atmosfera», intesa come «sfera della presenza», capace di dare rilievo all’«estasi delle cose» (secondo la formulazione di Böhme); l’esistenza di procedimenti temporali, dalle time brackets a specifici usi del ritmo, per uscire dai paradigmi della temporalità lineare e rendere evidente e percepibile, in termini estetici, la specifica generazione performativa della materialità di cui l’arte della scena è maestra.

Questo capitolo e il successivo (rispettivamente, La produzione performativa della materialità e L’emergenza del significato) possono esser visti come una diade dedicata alla dialettica semiotica fra significante e significato, che, così considerati, permettono di mettere a fuoco l’obiettivo primario del volume: proporre una semiotica rivista e corretta alla luce del performativo, capace cioè di analizzare lo spettacolo fuori dalla metafora della scrittura e della testualità, e invece in virtù della sua performatività. Fischer-Lichte contesta la teoria della desemantizzazione e l’idea che la scena successiva alla svolta performativa abbandoni l’ambizione di significare e produrre semioticità: «Gli artisti del teatro e della performance art degli ultimi trenta-quaranta anni […] non procedono affatto a una esclusione reciproca di materialità e segnicità, effetto e significato, e con essa da rapporti per sé dicotomici. Si chiedono piuttosto come queste grandezze si rapportino l’una all’altra, percorrendo una via diversa in ciascuno spettacolo» (p. 241). Nel corso del quinto capitolo l’autrice imbastisce, a questo proposito, una serie di punti fermi. Si sbarazza della concezione che considera la percezione sensibile dell’oggetto come un processo fisico e l’attribuzione di significato come un processo mentale; ci invita a considerare i significati «come stati di coscienza, non necessariamente come significati linguistici» (p. 245). Poi attinge alla distinzione benjaminiana fra simbolo e allegoria per trarne paradigmi applicabili a definire la semiosi della scena contemporanea: l’emergere del significato avverrebbe secondo un continuo slittamento fra modalità simbolica (autoreferenzialità, nella quale «coincidono materialità, significante e significato», che corrisponde a una percezione acuita dell’oggetto, un «percepire qualcosa come qualcosa») e modalità allegorica (attribuzione intenzionale di significato secondo una dinamica di libere associazioni). Attivando simultaneamente queste due procedure, la scena contemporanea induce a un tipo di percezione che oscilla costitutivamente dall’una all’altra. Fischer-Lichte insiste sulla «multi stabilità percettiva» generata dallo spettacolo contemporaneo anche per quanto riguarda il performer, argomentando come e perché la presenza (corpo) e la rappresentazione (personaggio) non possano essere considerate dimensioni opposte e autoescludentisi. Ella chiarisce che tali processi di produzione del significato per la maggior parte non sono ermeneutici, bensì «si inscrivono nell’autopoiesi del loop di feedback e prendono così parte al formarsi dello spettacolo teatrale» (p. 269), e considera che una fase di emergenza del significato più classicamente ermeneutica avvenga solo a posteriori, col ricorso al ricordo e alla memoria, e tenda a rendersi autonoma dallo spettacolo sedimentandosi in scrittura o altra forma espressiva.

Il sesto e settimo capitolo si spostano dal piano operativo ed analitico di lettura delle processualità sceniche, di cui Fischer-Lichte è maestra, a piani più generali di riflessione filosofica, per argomentare il valore dell’estetica del performativo entro il quadro del discorso contemporaneo sulle arti e sullo spettacolo: sono capitoli meno incisivi anche se dotati a tratti di pregnanti sintesi e visioni d’insieme, e formulano concetti che sono ormai ampiamente assimilati nel dibattito contemporaneo (d’altronde il volume, ricordiamolo, risale al 2004). Il sesto capitolo, Lo spettacolo come evento, sostiene che la scena performativa è protagonista a pieno merito dell’attuale messa in crisi delle dicotomie concettuali canoniche. Poiché gli artisti tendono a progettare dispositivi relazionali volti a rompere la separazione fra attore e spettatore, l’estetica del performativo corrisponde alla percezione e all’esperienza di un soggetto coinvolto, co-responsabile: ci sentiamo implicati nelle cose senza averle messe in moto, facciamo esperienza di complessità, oltre la dicotomia che ci vuole attivi o passivi. In generale, attraverso lo spettacolo contemporaneo facciamo esperienza di una percezione intensificata della materia, in maniere che mettono in crisi la nostra distinzione tra arte e realtà, tra significante e significato, tra uomo e animale: ci troviamo in un’area liminale. Qui Fischer-Lichte riprende e adotta le concettualizzazioni di Victor Turner, astraendole però dal più ampio paradigma sociale e antropologico, per spiegare lo stato di soglia esperito nello spettatore fra dimensione estetica ed etica.

Nel capitolo conclusivo, La restituzione dell’incantesimo al mondo, il concetto di liminalità viene virato con qualche forzatura all’incontro con quello benjaminiano di aura. È un capitolo di definizioni concettuali a posteriori e i concetti discussi e riconfigurati sono due, classici dell’estetica teatrale: Inszenierung (allestimento, messincena, regia) e ästhetische Erfahrung (esperienza estetica). Qui come altrove si fa delicatissimo e forse anche discutibile il compito del traduttore (da noi, nel corso del Novecento, il termine di «messinscena» con il quale Tancredi Gusmann traduce Inszenierung è stato oltrepassato a favore di quelli di «regia» e «scrittura scenica», di cui a tutti gli effetti qui si parla), ma la rotta è decisa insieme all’autrice e sicuramente in accordo con le più generali procedure di traduzione rispetto a questi concetti, molto in uso nel dibattito estetico contemporaneo, perlomeno in area tedesca.[1] Senza stare a ripercorrere per intero il ragionamento di Fischer-Lichte, certamente utile pare la sua proposta di spostare l’accento, per quanto riguarda il modo di concepire l’arte della regia, da strategia di rappresentazione, a strategia del portare a visione (passaggio già avvenuto all’inizio del XX secolo, con Gordon Craig e con l’idea di regia come arte del portare a manifestazione il movimento, del renderlo attualmente presente) e poi oltre. Nei termini di un’estetica del performativo, Inszenierung si pone come arte del generare ed esibire presenza, processo dello stabilire come debba compiersi, e in quale successione, la produzione performativa della materialità; e al contempo viene concepito come «processo che mira alla restituzione dell’incantesimo al mondo – e alla metamorfosi di tutti i partecipanti allo spettacolo» (p. 326). Questo approdo, lo si sarà capito, è in realtà piuttosto canonico: torniamo alla questione antica e fondativa dell’efficacia simbolica dello spettacolo, alla catarsi aristotelica, al rasa indiano, che sono infatti i punti di partenza dell’ultima chiarificazione concettuale, quella dedicata alla esperienza estetica (da p. 327). Postulandola nei termini di esperienza di soglia, liminale, l’autrice si volge indietro, ripercorrendo a grandi linee la storia dello spettacolo, e al contempo si guarda intorno, per considerare che, in un’epoca come la nostra di «generale estetizzazione e teatralizzazione degli spettacoli non artistici», tale esperienza di soglia è comune anche agli spettacoli sportivi, a quelli politici, alle nuove feste: il confine non è più così nettamente marcato.

Nonostante l’apertura delle pagine finali verso campi non teatrali, il volume resta tutto interno alla storia e alla fenomenologia della scena occidentale. A dieci anni dalla sua uscita, Estetica del performativo può essere contestualizzato come uno dei poderosi studi che alla svolta del secolo hanno sistematizzato in termini estetici la lettura del teatro del secondo Novecento, con la proposta di forti e orientate chiavi di lettura. Il volume di Fischer-Lichte viene cronologicamente dopo Postdramatisches Theater di Hans-Thies Lehmann (1999, un volume di cui è assente la traduzione italiana, se non per un capitolo apparso qualche anno fa su “Biblioteca Teatrale”) e gli si affianca senza integrarlo né oltrepassarlo; l’autrice cita poco il suo connazionale perché diversi sono i punti di riferimento, anche se identico è l’oggetto di indagine; Lehmann parte dal post-brechtiano, si connette al dibattito sul postmoderno per declinarlo teatralmente, Fischer-Lichte ignora volutamente sia Brecht che il concetto di post-moderno e postdrammatico. Per procedura, per organizzazione del discorso e dei capitoli, il volume di Fischer-Lichte è casomai più vicino all’analisi proposta negli stessi anni in Italia da Lorenzo Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento (Bulzoni 2003). Benché i due studiosi non si citino e procedano autonomamente, le analogie sono più che concepibili, poiché l’approccio performativo di Fischer-Lichte integra ma non intende sostituire l’approccio testuale/semiotico, e poiché al contempo il nuovo approccio di progettazione della scena, sviluppatosi in Italia e in Francia nel secondo Novecento sotto il termine di scrittura scenica, ha sempre messo al centro la questione della processualità performativa. «Postdrammatico», «estetica del performativo», «scrittura scenica», sono oggi a nostra disposizione come altrettante chiavi di lettura per una analisi dei teatri secondo-novecenteschi e contemporanei, e conviene forse scegliere di volta in volta l’una o l’altra a seconda della pertinenza rispetto ai singoli oggetti di studio indagati.


1 Mi riferisco in particolare al volume di Gernot Böheme tradotto in italiano nel 2006 col titolo Atmosfere, estasi, messe in scena.