Goliarda Sapienza. Tutto è iniziato con la scoperta de L’arte della gioia nel 2008, la lettura appassionata di tutti gli scritti editi e qualche inedito, il desiderio di girare un documentario, l’impazienza e la scelta di mettere in scena uno spettacolo, l’epilogo con un film dedicato a lei ma in cui di lei non si parla, o forse sì. Oggi vorrei ancora lavorare sui suoi scritti ma non so se ciò accadrà. Le sue pagine hanno fatto germogliare in me una pianta che ancora annaffio con cura.
Io ho fatto tutto questo ispirato e dedicato a Goliarda Sapienza – in scena a Catania al centro Zo nel 2009 e nel 2010 – nasce dalla scoperta di una scrittrice straordinaria e dall’urgenza di ricordarla alla sua città d’origine e non solo. Nessuna libreria catanese infatti prima del 2009 aveva i suoi libri, e il suo nome in città per i più sembrava inventato e in Italia quasi sconosciuto. Ho scoperto Goliarda in occasione della pubblicazione di Einaudi de L’arte della gioia nel 2008. Lessi il romanzo in un fiato passando poi, in preda ad un innamoramento appassionato, alla lettura di tutti i suoi testi editi: Lettera aperta, Il filo di mezzogiorno, Destino coatto, L’università di Rebibbia, Le certezze del dubbio. Tra luglio e settembre avevo letto tutto.
Scopro nella vita e nell’opera di Goliarda una stra-ordinarietà, un percorso a ostacoli, una ricerca di autenticità che vorrei provare a raccontare in un documentario. Vedo Gli sbandati e Lettera aperta a un giornale della sera di Citto Maselli, Frammenti di sapienza di Paolo Franchi, Goliarda Sapienza. L’arte di una vita di Manuela Vigorita per la serie Vuoti di memoria. Donne e uomini da non dimenticare ideata da Loredana Rotondo per Rai Educational nel 2002.
Mi chiedo sempre se un documentario non sia altro che l’articolazione di una domanda necessaria che, nel sorgere, lascia apparire la cosa di cui si domanda. La domanda come epifania, miraggio, enigma, poi segue il lavorio che favorisce il disvelamento della necessità ad altri. Perché un romanzo come L’arte della gioia fu rifiutato dagli editori italiani? Perché nessuno in Italia pubblicò il romanzo dalla fine degli anni ’70 in poi, nonostante l’autrice avesse già pubblicato altri testi? Un inno alla libertà troppo trasgressivo? Un romanzo di formazione, per di più di una donna? È per un pubblico esclusivamente femminile? I romanzi di formazione scritti da uomini in cosa si differenziano? A chi si rivolgono? Perché io li ho letti senza farmi queste domande? Quale visione comunicano i libri di Goliarda?
Decido di andare a Roma a incontrare e intervistare Citto Maselli, compagno di Goliarda per vent’anni tra gli anni ’40 e gli anni ’60, Angelo Pellegrino, marito di Goliarda dagli anni ’70 in poi, e Giovanna Provvidenti che ha sistemato l’archivio di tutti gli scritti di Goliarda, messole a disposizione da Angelo Pellegrino, e ha scritto la biografia della scrittrice La porta è aperta. Vita di Goliarda Sapienza (Villaggio Maori Edizioni, 2009).
In quei giorni ricevo la telefonata del direttore artistico del centro culturale Zo di Catania che mi chiama per uno spettacolo che avevo fatto a Milano qualche mese prima e che io stessa gli avevo proposto. Gli faccio una controproposta: produrre un lavoro da mettere in scena da Zo sulla scrittrice catanese Goliarda Sapienza dimenticata anche dalla sua città d’origine. Incuriositi e coinvolti dal mio entusiasmo mi chiedono il progetto per novembre in modo da valutarne la produzione.
Così, piuttosto contenta, metto tra parentesi l’idea del documentario, risparmiandomi la fatica dei bandi e dei fondi da inseguire, un tormento che dura almeno un paio di anni. Io voglio raccontare Goliarda ora! Così m’imbarco nell’avventura dello spettacolo.
La mia esperienza nel campo della regia teatrale è legata sempre al desiderio di sperimentare il video, come elemento e linguaggio, all’interno della scena e in interazione e conflitto con gli altri elementi e linguaggi. È una specie di trasgressione: fare del video un elemento ‘vivo’ qui e ora nel luogo sacro della scena teatrale. Non si tratta solo di usarlo come scenografia. Il video irrompe sulla scena e la trasforma perché porta le sue peculiarità e potenzialità, non ultimo un effetto di straniamento dal dramma messo in scena: testimonianze/video-interviste, flashback/apparizioni, sogni/cortometraggi, didascalie in proiezione, elementi scenici/scenografie video, etc. La sperimentazione che pratico è una sorta di montaggio; sulla scena costruisco una partitura, monto elementi per creare associazioni e conflitti tra la parola, il corpo, il suono, il canto, la luce, il video. La scena per me è il luogo dove sperimentare un assemblaggio di elementi intorno ad un nucleo scoperto dentro a un testo.
Scelto il fulcro, tutto vi ruota attorno come cerchi concentrici dopo il lancio di un sasso. Le parole lette in scena nascono da un lungo lavoro di selezione di brani estratti dal testo originale intorno a un nucleo significante.
La biografia di Giovanna Provvidenti insiste sul tema ricorrente della ‘rinascita’ nella scrittura di Goliarda. Vera ‘funambola’, in equilibrio tra dubbi e contraddizioni, Goliarda cerca di fare chiarezza tra le ‘bugie’ e rinuncia a ogni tipo di ‘chiesa’ rassicurante per perseverare nel difficile lavoro di continuare a pensare e pensare, come le consigliava la sua scrittrice preferita Virginia Woolf.
Nella prima parte de L’arte della gioia muoiono tre personaggi femminili, tutt’e tre figure materne della protagonista e simboli di un femminile da cui l’autrice vuole prendere le distanze: la vittima, la mistica e la donna mascolinizzata. Modesta, la protagonista, uccidendole stabilisce con chi legge una sorta di patto iniziatico: se il lettore e la lettrice vogliono davvero conoscere il seguito del romanzo devono accettare di lasciar morire quelle tre donne dentro di sé ed accogliere l’irrompere di un modo di essere donna non previsto dalla tradizione culturale e letteraria del passato, un modo più libero e autentico.
Così scrive Giovanna nella biografia, e ciò mi fa pensare; ritorno sui testi e rintraccio quella che chiamerei una ‘gestazione’. Lettera aperta del 1967 e Il filo di mezzogiorno del 1969 sono espressione di una crisi in atto, momento decisivo di passaggio da una forma di vita a un’altra, morte a qualcosa per rinascere a qualcos’altro. Decido di lavorare intorno a questo centro per costruire lo spettacolo, definisco in mio punto di vista sulla sua vita e sulla sua opera: la crisi di una esistenza e di una scrittura che muore e rinasce attraverso l’opera in cui la gioia è un’arte praticata di giorno in giorno, come di giorno in giorno Goliarda scrisse le pagine del suo romanzo, al fianco di Modesta con grande vitalità, per dieci anni dal 1969 al 1979 circa. La biografia, le interviste a Citto Maselli e Angelo Pellegrino raccontano una crisi vissuta da Goliarda intorno ai quarant’anni e di cui i due primi romanzi recano traccia. Qui attraverso la scrittura e la psicoanalisi Goliarda mette insieme i frammenti di sé dopo il trattamento ‘antidepressivo’ devastante di 7 elettroshock subiti dopo due tentati suicidi. «Io scrivo… io ho fatto tutto questo?» si legge nelle ultime pagine de Il filo di mezzogiorno, ed è attraverso questa domanda che Goliarda si afferma e rinasce come scrittrice. Significativo è il fatto che, dopo questi due scritti, Goliarda si dedichi a L’arte della gioia, unico romanzo non autobiografico in cui la protagonista Modesta attraversa gran parte del ’900. Catapultare il pubblico in un viaggio nel sottosuolo come fece Goliarda per trovare se stessa è la scommessa dello spettacolo: non L’arte della gioia quindi ma ciò che lo suscitò, un cammino a ritroso, necessario per andare avanti. E il cammino si compì nella grande opera, il romanzo più noto e prezioso.
Subito penso a Daniela Orlando, nota performer catanese: la conosco personalmente da pochi mesi e non abbiamo mai lavorato insieme. È una donna rara Daniela, totalmente-madre-totalmente-moglie-totalmente-artista senza che uno di questi aspetti annulli l’altro, come se in lei l’energia creativa fluisca naturalmente assumendo diverse forme in un movimento incessante. La chiamo e le dico che ho pensato a lei per un lavoro su Goliarda Sapienza e lei risponde di sì.
Lavoro all’idea che prende forma fra i due testi che ho scelto di usare; li leggo e rileggo e incomincio a fare le prime scelte guidata dall’intenzione di non sviluppare una vera drammaturgia ma una partitura dove la parola, l’azione, il corpo, la musica e i video concorrono alla composizione di un movimento pieno di conflitti. Quanto intendo mettere in scena non è il racconto della crisi depressiva di Goliarda intorno ai quarant’anni, ma la crisi stessa. Non è mia intenzione rappresentare i fatti che sono accaduti, ma partire dai testi dove non si raccontano solo episodi ma emergono emozioni contraddittorie.
L’obiettivo non è descrivere un’emozione ma suscitarla nel pubblico, tentare di innescare sulla scena gli stessi conflitti, tentare di «non separare il pragma dall’enigma» (Pasolini).
Questo è l’inizio dello spettacolo: buio in scena, il corpo di Daniela steso a terra inerme, una voce nel buio:
Eccomi stesa sul letto, da due giorni, due mesi due ore, fuori è già buio ma prima c’era il sole. Era il sole di ieri o di un mese fa? Non lo so. Il soffitto si abbassa. Il sapore di calce mi alita sugli occhi. È il soffitto che si china su di me o sono io lo stesso soffitto? Io sono il soffitto stesso…
Inizia una videoproiezione con scuri cunicoli illuminati da una torcia, una donna e una bambina si confondono nel sottosuolo perse in un labirinto. Ho girato questa scena sottoterra, in piazza Stesicoro, nei meandri del teatro sommerso dalla lava.
La bambina è presente nello spettacolo e spesso s’identifica con la piccola Goliarda, ma anche con la parte creativa di sé che le consente di rinascere e di partorirsi come scrittrice. In questo ruolo Lucilla, la figlia dodicenne di Daniela, è perfetta anche perché suona l’arpa come Goliarda. L’arpa diviene elemento scenografico e origine di suoni e performance.
Il lavoro con Daniela è tutto incentrato sulla instabilità: per tutto il tempo lei si muove su un piano inclinato, e la spirale è la direzione che ha scelto per i suoi movimenti. Daniela ha studiato le molte foto di Goliarda che mi aveva passato Giovanna Providenti, costruendo un’immagine in scena davvero simile a lei, non solo nel vestire ma anche nella gestualità: non si è trattato però di un lavoro di immedesimazione ma di una performance ipnotica, estatica.
A fine ottobre invio a Catania l’idea dello spettacolo che intitolo Io ho fatto tutto questo, la proposta viene accettata. Subito inizio le prove con Daniela Orlando, lavoriamo in una stanza del Museo del Giocattolo, in un meraviglioso palazzo barocco.
Leggo a Daniela gli estratti dei testi, riempio la stanza di ritagli preziosi, pagine fotocopiate dai due romanzi, ritagliate, evidenziate, piene di frecce e parole riscritte a matita: scongiuri, cicale urlano impazzite, la luna, Nica, correre, gelsomino, ho freddo, essere abbandonata, cassapanca, cimici, cinema, fratelli, ho sonno, segreto, l’avvocato, madre, morte, pazza, visi contorti, pasticche, bocche spalancate, mi sono ricordata, scrivevo, non faccio più l’attrice, il metronomo, dizione, labbra, sapore delle mandorle, poesie. Ascolto le proposte di Daniela, la vedo agire. Ho letto tante volte i due romanzi, li ho segnati, tagliati tormentati e rimontati e frantumati sulla scena. Per fare un esempio c’è un momento dello spettacolo in cui viene letto un estratto in cui Goliarda ricorda una punizione che sua madre le inflisse quando era bambina.
Nel testo la madre la rimprovera e lei resta sola davanti allo specchio cercando di abbracciarsi come Nica l’abbracciava. La lettura avviene a destra della scena contemporaneamente alla videoproiezione su un piano inclinato al centro della scena in cui Daniela sbatte ripetutamente contro un grande vetro, il suo corpo seminudo continua a urtare contro il vetro. Faccio questo esempio perché l’emozione della lettura mi suscitò l’idea del video: trovarsi soli davanti alla propria immagine riflessa, scontrarsi con il proprio stesso corpo allo specchio, cercare un abbraccio negato e trovare la superficie fredda. La scena si conclude con una seconda proiezione in cui un uomo vestito da donna canta in playback Ne me quitte pas nella versione di Nina Simone. Ecco un esempio di associazioni e conflitti che ho messo in scena.
Gli estratti dai due romanzi di Goliarda Sapienza, tagliati e rimontati come ho già detto, durante lo spettacolo sono letti in scena da una ‘lettrice’, sono diffusi tramite registrazioni fatte in studio, sono inseriti nelle performance vocali di Daniela Orlando, sono voci off montate nei video. Tutte le letture registrate sono state fatte in studio da Emanuela Villagrossi.
In scena la ‘lettrice’ nell’edizione del 2009 è Rosaria Lo Russo in quella del 2010 invece Emanuela Villagrossi. La scelta di cambiare lettrice è nata dal fatto che volevo uniformare la voce registrata alla voce in carne e ossa in scena. Inoltre nella versione del 2010 Emanuela Villagrossi agisce anche in scena insieme a Daniela Orlando trasformando del tutto alcune parti. Tra Daniela ed Emanuela si è creata una sintonia tale durante le prove che ha scatenato varie improvvisazioni che poi abbiamo fissato e tenuto.
Il lavoro sulle interviste girate a Roma consiste nella selezione e montaggio di brevi estratti che scandiscono lo spettacolo attraverso testimonianze registrate. Sono momenti stranianti che spezzano l’andamento emozionale della scena, vere occasioni di uscita dal flusso emotivo per un’apertura documentaristica che imponga allo spettatore una distanza dalla quale indugiare e riflettere. Ci sono altri video nello spettacolo, video onirici, flashback… Ho girato in studio su fondo nero, nei sotterranei di Piazza Stesicoro, nel cortile della casa in cui Goliarda visse i suoi primi sedici anni nel quartiere San Berillo, e che ho scoperto nel 2008 ‘per caso’.
La casa di Goliarda a Catania. Piove davanti al portone in via Pistone n° 20, premo tutti i pulsanti del citofono, qualcuno mi getta le chiavi dal secondo piano. Un corridoio con il soffitto a volta immette nel cortile disastrato di un palazzo dell’ ’800, tubature di plastica arancione e verande in alluminio color bronzo. Qui, sotto l’altarino, Goliarda, Nica e le altre bambine, giocavano a sposarsi tra loro e si scambiavano l’anello. Adesso il vetro è rotto e la madonna non c’è più. Qui Goliarda è rimasta seduta ad aspettare Anna la sediaia, partita dopo l’omicidio. La scala è ampia e ristrutturata, salgo confusa al punto giusto da essere disponibile ai fantasmi che mi vengono incontro. «Dai dieci ai dodici anni non camminavo mai, correvo, scendevo i gradini a due a due, correvo». Sono al secondo piano davanti a un sessantenne in tuta con i capelli lunghi raccolti, voce maschile e modi gentili. Incuriosito ci fa accomodare fra cornici dorate, angioletti, madonne, divani anni venti e vasi cinesi nell’apoteosi del kitsch di un ampio salone. Racconto brevemente della scrittrice che abitò nel palazzo, lui non ha mai sentito questo strano nome, descrivo dettagli della casa. «Una bussola di legno? L’ho tolta io quando sono venuto in questa casa dieci anni fa, era vecchia e malandata…». Così siamo in casa di Goliarda!
Per gli oggetti di scena e i costumi Daniela attinge idee da una stanzetta di casa sua, vero archivio che lei chiama il ‘mio disordine’. Ordine e disordine sono parole che ricorrono nelle pagine di Goliarda, e nello spettacolo in due punti Goliarda/Daniela si rivolge al pubblico nel tentativo di fare un po’ di ordine fra le cose, fra i ricordi confusi. La scenografia è nata dal lavoro con Daniela, lei ha immaginato uno spazio mentale fatto di oggetti fuori misura: uno schermo fatto di pagine, una pedana instabile, una stanza cilindrica dalle pareti trasparenti e dal soffitto altissimo. Al centro un piano inclinato che di volta in volta si trasforma da supporto in cui lei dispone oggetti componendo installazioni, a pedana per le azioni performative, a schermo di una delle tre videoproiezioni. Lo schermo principale, sopra la pedana, è composto da pagine bianche sovrapposte, una superficie non omogenea in cui vengono proiettate le interviste rendendo le immagini un po’ distorte. A destra della scena l’arpa e Goliarda bambina/Lucilla. A sinistra della scena c’è uno spazio chiuso, una camera circolare dalle pareti di cellophane bianco semitrasparente che ora diviene lampada ora supporto di proiezione ora stanza della pazzia uasata da Daniela in particolari momenti. Sul proscenio a sinistra la lettrice con il leggio.
Le musiche e una canzone di Carmen Consoli. Il giorno del concerto di Carmen Consoli Zo è pieno di gente e di energia dentro e fuori. Finito il concerto andiamo a parlare con lei. Ha letto L’arte della gioia ed è incuriosita dal progetto, così fissiamo un incontro in casa sua alle pendici dell’Etna. Con Daniela ci inerpichiamo fra case circondate dalla lava in lunghe curve dove a un tratto tutto sparisce e sembra di entrare dentro la roccia. Carmen ascolta e ci guarda parlare; chiacchieriamo di Goliarda, del tipo di lavoro che stiamo facendo, le mostro i testi che ho scelto spiegandole che ho pensato di coinvolgerla su tre momenti diversi all’interno dello spettacolo, all’inizio, al centro e alla fine. Carmen guarda i testi e dirige subito il discorso sul lavoro da fare, sulle atmosfere e sui tempi e i modi di lavorazione. Fa domande precise e dice che lavorerà alla canzone finale e insieme da lei in studio lavoreremo al brano iniziale. La canzone finale sarà poi Ognuno avi n’sigreto, un bellissimo brano in dialetto ispirato ad una delle ultime pagine de Il filo di mezzogiorno. Assistiamo nel suo studio di registrazione alla composizione della musica e registriamo le voci di Daniela, Lucilla e Carmen per il brano che aprirà lo spettacolo.
La scrittura, lo spettacolo sulla carta, non è lineare come non lo è lo spettacolo stesso. Divido la pagina con 4 colonne, una per il testo letto, una per le performance di Daniela Orlando dove spesso vengono coinvolte la figlia Lucilla ed Emanuela Villagrossi, una per i video ed una per le musiche. Tutto procede in parallelo. Lo spettacolo è composto da 4 grandi sequenze che ho chiamato così: 1. Tempo coma, 2. Preghiera alla luna, 3. Essere donna essere uomo, 4. Ricordare.
In Maggio debuttiamo, due repliche con tutto esaurito. Il nome di Goliarda Sapienza si diffonde, le librerie espongono L’arte della gioia, finalmente sempre più richiesto. Un pronipote di Goliarda si presenta prima dell’ultima replica: Giancarlo Sapienza trentenne figlio di Giuseppe Goliardo Sapienza figlio di Carlo Marx Sapienza ossia uno dei fratelli di Goliarda nato dal primo matrimonio dell’avvocato Sapienza. Il nonno di Giancarlo era proprio quel Carlo con cui Goliarda si allenava alla box nella terrazza in via Pistone.
Mi ritrovo a Giugno con uno spettacolo pronto a girare e le spedizioni del materiale promozionale tra il nord e il sud d’Italia nell’attesa di un’altra occasione in cui il lavoro si compia. Così è il teatro, vive nel momento della messa in scena e poi non resta che l’attesa di rifarlo.
Io ho fatto tutto questo-Dedicato a Goliarda Sapienza
ideazione, regia, cura dei testi: Maria Arena
drammaturgia: Maria Arena e Daniela Orlando
con Emanuela Villagrossi e Daniela Orlando
e la partecipazione di Lucilla Scalia
musiche originali: Carmen Consoli
video: Maria Arena
light designer: Alessandro Arena
scene e costumi: Daniela Orlando
consulenza musicale: Stefano Ghittoni
tecnico luci: Antonello Scuderi
video assist: Giuseppe D’Alia
backstage: Anna Maria Di Giacomo
allestimento scenico: Salvo Pappalardo
responsabile tecnico: Aldo Ciulla
foto di scena: Salvo Scalia
L’abito indossato da Carmen Consoli è di Marella Ferrera.
Una produzione ZO centro culture contemporanee con il sostegno di Antonio Presti, Fondazione Fiumara d’Arte.
Le musiche di Carmen Consoli sono state registrate da Salvo Noto allo studio DUEPAROLE di Catania.
La voce di Emanuela Villagrossi è stata registrata da Cesare Malfatti al CHE Studio di Milano.
Per le riprese di Carmen Consoli si ringraziano Sergio Militti e Alfredo Martines.
Attori dei video: Giuseppe Calcagno, Adriana Harej, Antonio Di Pasquale, Daniela Orlando, Lucilla Scalia, Anna Maria Di Giacomo, Arturo Giusto, Martina Villari.