«Non ci si dice molto perché
non c’è molto da dire, ogni
volta
è come se ci inseguisse
qualcosa».
Riccardo Frolloni, Materiali II
La scrittura franta di Riccardo Frolloni può essere la giusta porta d’accesso alla geografia emotiva e fisica de Le sorelle Macaluso, seconda prova cinematografica di Emma Dante che, dopo il debutto veneziano, ha appena conquistato cinque prestigiosi Nastri d’argento. Entrare dentro gli spazi di questo film attraverso la lente di Frolloni significa fare innanzitutto i conti con il perimetro degli interni, continuamente esposti a epifanie d’altrove: un verso della lirica Materiali I – «la casa era prima di terra e poi / d’aria»[1] – consente di inquadrare con un solo movimento quella che a tutti gli effetti sembra essere la promessa su cui si fonda la riscrittura per immagini della pièce, ovvero la possibilità che le protagoniste possano davvero trasformarsi in «uno stormo di uccelli che partecipano al proprio funerale e a quello degli altri».[2] La dimensione del lutto, a cui si accompagna una comunità di affetti e ricordanze fra vivi e morti, appartiene del resto al codice drammaturgico di Dante da sempre, per un’intrinseca vocazione al tragico mitigata a tratti da una controspinta umoristica, secondo un principio di contraddizione che insiste irrimediabilmente in quella lancinante ‘terra di teatro’ che è la Sicilia. Ereditando il sangue e gli spasmi di una imagery intimamente isolana, Dante attribuisce alle sue figure, e in particolare alle sorelle Macaluso,[3] un’ansia di assoluto che confligge con gli umori terragni, con la cupa violenza di ogni liturgia familiare, e così al centro dell’azione performativa si ritrova spesso lo scarto tra la furia del vivere e la disperazione del morire.
Se l’orizzonte della scena lasciava già percepire una strenua lotta fra le ombre dei vivi e dei morti («Un controluce impedisce ai nostri occhi di vedere sul fondo. Sul fondo c’è l’oscurità. […] Dal fondo, a poco a poco, appaiono tre, cinque, sette, dieci facce. Sono vivi e morti mescolati insieme»),[4] il cinema riplasma le esistenze di queste ‘personagge’ nel segno di uno sbilanciamento fra tempo e memoria, fra spazi e gesti, sull’orlo di una crisi che attraversa presente e passato e sembra aver cancellato le speranze del futuro. Eppure, nonostante un senso di tragedia strisciante, il film celebra l’intensità dei legami, la dimensione creaturale del vivere e del sentire, dentro un confine (la casa, il mare, la strada, l’inquadratura) che vibra senza requie, trasformando i corpi e le cose, l’aria e l’acqua in ‘superfici’, nell’accezione multistrato di Giuliana Bruno.[5] Le immagini producono un’alchimia peculiare, secondo la quale «ogni affetto ha un luogo e, reciprocamente, i luoghi possono restituirci una varietà di emozioni»:[6] in tale transitività si coglie l’anomalia dello sguardo di Dante, ovvero di un cinema che diviene «medium poroso e materiale».[7]
1. Tradire lo spettacolo
Come già in Via Castellana Bandiera, il soggetto de Le sorelle Macaluso appartiene al repertorio della stessa autrice, capace di singolari torsioni dalla pagina allo schermo, grazie alla vigile mediazione di scrittori acuti e sensibili quali Giorgio Vasta ed Elena Stancanelli, che con lei danno forma allo script. La sceneggiatura conserva però della pièce «solo lo scheletro, lo spunto, caro alla regista, del rovistare in glorie, sogni, miserie, violenze, affetti di una famiglia»;[8] il grumo di dolore richiama senza dubbio l’architettura dello spettacolo ma per il resto gli sforzi creativi del trio di autori sono stati rivolti verso manovre di rilocazione della vicenda, verso nuovi investimenti emotivi e performativi. Le protagoniste, che in scena erano sette, si riducono a cinque e appaiono le sole depositarie dei legami di sangue; i genitori, figure decisive negli equilibri del testo teatrale, restano fuori campo, esclusi, e con essi la dimensione genealogica del nido. Tutto allora è esposto nella orizzontalità della sorellanza, spazio di negoziazioni identitarie e feroci compromessi, in cui si agitano «rivalità, competizione, differenze» e non mancano «alleanze, identificazioni, consonanze».[9] La scelta di concentrare l’azione all’interno del «dispositivo sororale»[10] risulta decisiva perché convoca – senza appesantire la narrazione – archetipi universali e contemporaneamente amplifica i riverberi fantasmatici già presenti nella pièce: l’indissolubilità del rapporto tra le cinque ha a che fare con una sfera primordiale, con l’appartenenza a un regno in cui l’amore scortica, punisce, affatica ma riesce anche a consolare, per effetto di potenti inarcamenti fra un tempo e l’altro.
La conferma del perfetto allineamento con il modello di ‘sorellanza utopica’, prepotentemente ancorata alla dimensione del doppio, è data dalla moltiplicazione dell’agency delle personagge attraverso uno straordinario lavoro di casting (a cura di Maurizio Mangano) e un efficace training attoriale: le cinque sorelle sono interpretate nei tre atti da attrici diverse, secondo un disegno corale di grande potenza espressiva, che rende plastica la dialettica tra identità e differenza. Ad eccezione di Antonella, attrice bambina che non cambia pelle e torna a ‘visitare’ gli spazi della casa come angelo perduto, le altre figure si sdoppiano (è il caso di Maria, che non raggiunge il terzo tempo dell’esistenza perché minata nel fisico e nell’animo da un cancro) e si triplicano, dando corpo a un movimento metamorfico che rappresenta una delle linee di tensione del film. Dante seleziona un coro di interpreti e lavora con loro sul motivo della variazione: l’effetto di questo serrato esercizio compositivo è una fitta partitura di rime, una trama sottile di gesti ripetuti, capaci di rendere riconoscibili i profili anche fra un atto e l’altro. La continuità di pose (Pinuccia davanti allo specchio a mettersi il rossetto, Katia in piedi sulle scale con le chiavi che non entrano nella serratura, Lia intenta a leggere ad alta voce) fa sì che l’universo familiare mantenga saldi i vincoli di reciprocità e condanna, perché tutto ciò che resta uguale nel corso di un lungo intervallo (la storia si distende idealmente dagli anni ’90 al 2040) contribuisce a ribadire il senso di colpa, sentimento su cui si agglutinano tutti i destini delle protagoniste.
Quando ho girato il film, ho ripensato allo spettacolo perché sentivo che mancava qualcosa che là era fortissimo: il senso di colpa. Non c’era nella sceneggiatura forse anche perché sarebbe stato retorico vederlo scritto: nello spettacolo è il motore della vicenda mentre nel film mancava del tutto e l’ho scoperto solo mentre giravamo; grazie allo spettacolo ho allora lavorato per costruire questa sensazione intorno all’ossessione dell’incidente che determina il senso di colpa che blocca le vite delle sorelle, rattrappendole.[11]
Le immagini più eloquenti delle esistenze rattrappite delle protagoniste appartengono all’ultimo tempo del film, quello della vecchiaia, ed è soprattutto Lia – la responsabile della sciagura – a incarnare le ferite del ricordo, con il suo volto solcato da rughe profonde, che testimoniano il peccato originale intorno al quale gravita l’intera storia. A scheggiarsi irrimediabilmente però sono anche le pareti e i mobili della casa-grembo, luogo di rivelazioni e nascondimenti, di assalti e meditazioni. La forza della rinnovata drammaturgia dell’opera risiede allora nella accentuazione del rapporto fra esseri e ambienti, resa possibile dall’elaborazione di un metodo creativo fuori dagli schemi. Le riprese sono state anticipate infatti da quattro settimane di prove, durante le quali le tre generazioni di attrici hanno condiviso lo spazio del set, sottoponendosi – a detta della stessa Dante – a una sorta di «jam-session di gesti»,[12] che ha favorito lo scambio fra le interpreti e ha reso più fluidi i raccordi espressivi. L’autenticità del percorso laboratoriale si coglie nelle parole della scenografa Emita Frigato, secondo la quale il «set sembrava un apparato digestivo che stava lavorando per metabolizzare questo tempo e questo racconto vivendo i giorni dentro la casa».[13]
Grazie a questa peculiare incubazione, Dante giunge a riallineare le traiettorie dello spettacolo e del film senza rinunciare a una cifra paradossale, quella dell’antinomia. I dodici corpi, educati a una ferrea grammatica di movimenti, agiscono contemporaneamente in direzioni contrarie: mimano alcuni gesti-matrice ma introducono la logica dello scarto, della differenza, perché il tempo scava, muta, distrugge, e il cinema non è altro che ‘la morte al lavoro’. Riaffermando l’idea di Cocteau,[14] la regista spinge la vicenda oltre il confine fra visibile e invisibile, allestisce una «macchina infernale»[15] che avvolge oggetti e persone, scardinando il piano della verosimiglianza in favore di un’estetica delle emozioni, in grado di mettere in mostra le ‘pieghe dell’anima’.[16]
2. Fori di luce
L’avventura delle sorelle Macaluso scaturisce dal buio, dal fondo nero di una parete contro cui si avventano – in un atto dal chiaro sapore inaugurale – Lia e Antonella, desiderose di spezzare l’argine che le separa dal mondo, ostinate nel ‘bucare’ il cemento in cerca di un nuovo punto di vista.
Il prologo dura solo qualche minuto ma si tratta di istanti decisivi per mettere in quadro il respiro dell’opera. Dante in poche battute riesce ad esplicitare una potente metafora cinematografica (tramite la suggestione del cono di luce) e dichiara al contempo, seppur ancora sommessamente, la polarità cruciale fra Lia e Antonella, destinate a incarnare le traiettorie più dolorose della storia. Le due bambine non cedono di fronte alla resistenza del muro, riescono a sbriciolarlo e a dar vita, involontariamente, alla magia della settima arte: a marcare la fantasmagoria ci pensa la piccola di casa, che si lascia scappare un emblematico «Fammi vedere pure a me», quasi a rivendicare la volontà di partecipare al rito del 'vedere attraverso'. Questo breve incipit, lungi dal restare un episodio extra diegetico, una sorta di cornice esterna al perimetro del racconto, si rivela in realtà evento-matrice perché dopo una vertiginosa ellissi sarà ancora Lia – da vecchia – a poggiare il suo occhio dentro il foro sulla parete e a rendere finalmente visibile il momento dell’incidente che ha causato la morte di Antonella.
La tragedia della famiglia Macaluso coincide così con il cinema della memoria di Lia, con le intermittenze della sua coscienza sdrucita, lacerata dalla colpa: riaprire quel varco significa assumere su di sé, una volta per tutte, il peso del destino, la violenza del non detto, e significa altresì trasformare il punto cieco delle loro esistenze in un lampo di luce.
È questa la scommessa de Le sorelle Macaluso, illuminare l’infraordinario, ciò che giace sotto la superficie delle cose, che stringe i nervi, quel che avvampa di giorno e poi lentamente scolora, lasciando solo macchie sbiadite, polvere unta dal tempo. È ancora la scenografa Frigato a sintetizzare mirabilmente il senso di Emma Dante per l’arte della celluloide, nonché la differenza con le ombre vive del teatro:
La macchina da presa – il cinema – entra più nelle pieghe, indaga nei dettagli, sente il respiro, è molto più organica, in qualche modo, di quanto sia il teatro. A teatro devi urlare con la voce, al cinema puoi sussurrare: è esattamente l’opposto, e non solo dal punto di vista della scenografia. Emma con la macchina da presa riesce proprio a infilarsi dentro al corpo, con il teatro esibisce questo corpo, è più esterna.[17]
L’obiettivo cinematografico di Dante è ubiquo: si appiccica ai mobili, scende sotto la superficie del mare, vola alto assecondando la fuga dei colombi (creature celesti che segnano in profondità la vicenda), si conficca nelle viscere di animali inermi, mimando simbolicamente la malattia di Maria, la sua estenuante morte-in-vita.
La mobilità dello sguardo, la costante ricerca di rime e figure di pathos, producono un doppio effetto di racconto: il primo lungo frammento narrativo, che assorbe il miraggio di una gita al mare, è annegato nella luce calda dell’estate palermitana, vibra sulle note di Franco Battiato e Gerardina Trovato ed esplode nella sequenza sulla spiaggia di Mondello, che rappresenta un portentoso inno alla vita; la pienezza della bella stagione si congela però allo scoccare della prima mezzora e lascia il posto a una mesta danza di ombre. L’età dell’innocenza dura un soffio, giusto il tempo di un tuffo in acqua, e cede poi il passo al valzer dei rimorsi, scandito da una fotografia livida, incupita dall’asfissia degli interni, in cui i corpi fanno attrito e stentano a ritrovare l’armonia dell’infanzia. La ciclicità dei ritmi della vita passa attraverso piani ricorrenti, chirurgiche transizioni di montaggio, spesso anticipate dal volo dei colombi, più di un’anafora, un vero e proprio senhal emotivo e retorico.
La progressione della fabula è fatale, non dà scampo, ma anche se si avverte il progressivo scivolare del destino delle personagge verso il punto di fuga della morte il tempo del commiato è addolcito da sintomatiche epifanie, da gesti amorevoli, da tenui bagliori che testimoniano la resistenza di persone e cose. Del resto l’organismo che più di altri cicatrizza le ferite è la casa, lo spazio-utero che protegge le sorelle e le tiene al riparo, cristallizzando l’orrore delle loro vite, accumulandone i detriti, come dimostra la lunga preparazione dell’uscita di scena di Lia, il suo ultimo rondò malinconico tra le vestigia di pessimo gusto di tutta la vita.
Se Via Castellana Bandiera si appellava agli spasmi di una strada-intestino, Le sorelle Macaluso tematizza l’idea di uno spazio-mondo diviso in due ordini (la casa e la soffitta), corrispondenti a due diverse istanze: la dimensione tragica del vivere, con le sue trappole, le minacce, i compromessi; la proiezione onirica, l’oltretempo della favola, visualizzato dalle colombe, dal loro regno celeste, fatto di fughe e ritorni, di un’incomprensibile migrare da e verso le gabbie. L’oscillazione fra dentro e fuori, alto e basso, casa e mare determina il superamento dei vincoli tradizionali del reale, l’aprirsi nel corpo del film di un processo simile alla smarginatura sperimentata da Ferrante dentro l’orlo della quadrilogia dell’Amica geniale: anche qui, come nell’epica affabulante della scrittrice, le soggettività sono ‘striate’, sensibili, vivono solchi di vertigine e si lasciano attraversare da istinti di rivolta, che coincidono con momenti d’estasi. Accade allora che tutto ciò che non può essere mostrato a occhio nudo venga affidato al filtro dell’immaginazione, alla carezza paziente della macchina da presa, sorella tra sorelle, nel vortice di un linguaggio – il cinema – capace di cavare immagini da un piccolo foro nel muro, perché sognare si può, come ci ricorda Gerardina Trovato, «senza tempo, senza nome».
1 R. Frolloni, ‘Materiali I’, in Id., Corpo striato, Nuovi Argomenti, 17 settembre 2020, < http://www.nuoviargomenti.net/poesie/riccardo-frolloni-corpo-striato/ > [accessed 20 settembre 2020].
2 E. Dante, Le sorelle Macaluso, Note di regia, < http://www.emmadante.com/le-sorelle-macaluso/ > [accessed 20 settembre 2020].
3 Arabeschi ha dedicato allo spettacolo due diversi approfondimenti: cfr. S. Rimini, ‘Emma Dante, Le sorelle Macaluso’, Arabeschi, II, 3, gennaio-giugno 2014, < http://www.arabeschi.it/emma-dante-le-sorelle-macaluso/ > [accessed giugno 2021]; A. Barsotti, ‘Le sorelle Macaluso tra la vita e la morte nella tetralogia della famiglia siciliana’, Arabeschi, 5, 10, luglio dicembre 2018, < http://www.arabeschi.it/le-sorelle-macaluso-tra-la-vita-e-morte-nella-tetralogia-della-famiglia-siciliana-/ > [accessed giugno 2021].
4 Ibidem.
5 «Spazio di confine fra mondo interno ed esterno, soglia che separa il visivo dal tattile, la superficie è anche e soprattutto un luogo di relazioni materiali. Per scoprire la materialità delle immagini che popolano il contemporaneo e coglierne la portata, diventa allora indispensabile esplorare lo spazio di tali relazioni e il modo in cui vengono mediate attraverso superfici che assumono di volta in volta le fattezze di una pelle, di un vestito, di uno schermo cinematografico o di una tela» (G. Bruno, Superfici. A proposito di estetica, materialità, media, Monza, Johan & Levi, 2016).
6 Ivi, p. 27.
7 Ibidem.
8 M. Marino, ‘Le sorelle Macaluso: una ballata di ombre’, Doppiozero, 17 settembre 2020, < https://www.doppiozero.com/materiali/le-sorelle-macaluso-una-ballata-di-ombre > [accessed settembre 2020].
9 C. Cao, M. Guglielmi, ‘Da Sofocle a Ferrante. Parlare di sorellanza oggi’, in C. Cao, M. Guglielmi (a cura di), Sorelle e sorellanze nella letteratura e nell’arte, Franco Cesati, 2017, p. 13.
10 Ivi, p. 23.
11 C. Borroni, ‘Intervista a Emma Dante: Le sorelle Macaluso’, Cineforum, 18 dicembre 2020, < https://www.cineforum.it/intervista/Intervista-a-Emma-Dante-Le-sorelle-Macaluso > [accessed gennaio 2021].
12 Ibidem.
13 L. Cantisani, ‘Ritratti d’autore. Intervista a Emita Frigato’, Persinsala. Cultura e critica dell’audiovisivo e del multimediale, 4 ottobre 2020, < https://www.persinsala.it/web/interviste/emita-frigato-2662.html > [accessed ottobre 2020].
14 Intervenendo a un incontro pubblico sulla piattaforma miocinema.it Dante cita proprio la battuta di Cocteau, autorizzando la sovrapposizione tra il suo film e l’immaginario visionario del poeta-regista francese.
15 Per un approfondimento sulle teorie di Cocteau si veda E. Bruno, Film. Antologia di un pensiero critico, Roma, Bulzoni, 1997.
16 Sulla scia delle riflessioni di Deleuze, si vuole qui richiamare il corto circuito fra la materialità dei corpi e degli ambienti del film (su tutti la casa, come si vedrà) e le risonanze affettive che tale materialità veicola: si tratta della qualità più evidente della regia di Dante, capace di proiettare la visione oltre il limite dello sguardo, nelle pieghe del tempo e dell’anima per l’appunto. Cfr. G. Deleuze [1988], La piega. Leibnitz e il barocco, trad it. di D. Tarizzo, Torino, Einaudi, 2004.
17 L. Cantisani, ‘Ritratti d’autore. Intervista a Emita Frigato’.