Emma Dante, Le sorelle Macaluso

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Il lutto si addice a Emma Dante. Basti pensare al finale folgorante di mPalermu, con la morte in scena di nonna Citta, che gela il tetro entusiasmo della famiglia Carollo vanificando l’ennesimo tentativo di uscire fuori dalla casa-prigione. E che dire della resurrezione solo sognata di Vita mia, forse il testo più commovente, in cui lo strazio della madre per la perdita del figlio raggiunge i toni dell’elegia e della farsa, grazie al fecondo equilibrio fra tormento e immaginazione. Altrettanto crudele, e non meno funerea, appare la recita straniata di Paride, protagonista del Festino, per quel tono incombente di tragedia risolto splendidamente nella rivelazione estrema di una colpa (la morte involontaria del fratello gemello) e di un bruciante senso di solitudine (sublimato appunto nel play within the play).

Con Le sorelle Macaluso, approdato al Biondo di Palermo dopo un mese dal debutto napoletano, Dante torna a misurarsi con quella che può dirsi ‘la terra del rimorso’, un paesaggio infestato dalle ombre dei vivi e dei morti, una soglia magica di visioni e abbandoni. Non si limita a ‘restaurare’ segni già codificati, nonostante un’evidente linea di continuità con le precedenti forme di pathos, ma propone una maniera nuova di mettere in scena i nodi dell’esistenza.

Per una coincidenza propizia, poco prima di assistere allo spettacolo visito – qualche metro più in là del Biondo – l’esposizione permanente di Palazzo Riso. Qui trovo una collezione di opere (I protagonisti internazionali in Sicilia) che mette in moto (per quelle strane epifanie dell’arte) una serie di prodigiose corrispondenze con la nuova direzione della scrittura scenica di Dante. La prima installazione a suggerirmi una delle possibili chiavi di lettura dello spettacolo è Cappotti neri di Christian Boltanski: una fila di piccole lampadine inchioda alla parete una giacca e una paio di pantaloni di scena, neri – come suggerisce il titolo. L’evanescenza, la transitorietà della vita e dell’arte è espressa attraverso la limpida evidenza del segno; l’abito è la traccia fantasmatica del corpo ormai assente, cancellato dal tempo. Allo stesso modo, nello spettacolo di Dante, i costumi sono un prezioso indizio identitario. Nel loro primo ingresso in scena tutti i personaggi indossano abiti scuri, salvo poi iniziare un frenetico rito di svestizioni che, oltre a stupire per un calcolato effetto metateatrale, rivelerà la precisa consistenza del loro stare al mondo: i vivi di lì alla fine indosseranno nuovamente i loro completi scuri, luttuosi, mentre i morti sfoggeranno i colori sgargianti delle loro ‘divise’. Ad ogni modo, il contrasto delle tinte accende i ricordi, confonde i piani di realtà e memoria, guida lo spettatore dentro uno sfavillante sogno ad occhi aperti.

La seconda opera a guidarmi nei recessi della scrittura scenica di Dante è sempre di Boltanski e ha in comune con la prima l’espressione della precarietà dell’umano, nonché l’adozione di una formula retorica di chiara derivazione teatrale. Théâtre dombres è una sorta di camera chiara, di stanza della memoria sulle cui pareti si riflette il profilo di una maschera e di un teschio, immagini-segni di un destino di morte, che lascia poco spazio alla speranza. Eppure, nonostante il carattere perentorio delle figure, il chiarore della luce soffusa suggerisce a chi guarda un brivido di eternità, un attimo di assorta contemplazione. È la stessa impressione suscitata dalle architetture luminose de Le sorelle Macaluso: il palco è immerso nel buio, ma la linea della ribalta è un’oasi di luce, uno spazio di confine fra i vivi e i morti. La dialettica luce/ombra diviene pertanto una precisa marca retorica, l’indizio che tra la dannazione e il lutto può sempre farsi largo la pietà.

Ed è proprio la pietà, o forse la compassione, a scandire la cifra stilistica dell’ultima opera che scelgo come via d’accesso all’orizzonte drammaturgico di Emma Dante. Mohamed El Baz dispone dodici file di bottiglie su tre colonne, etichettandole con il nome di un artista e lasciando fuoriuscire dal collo un drappo nero. La parete su cui poggiano gli oggetti è istoriata da una spada rossa, avvolta da un fiore. L’installazione, a tecnica mista, è una sorta di memoriale, di iscrizione funeraria, che però reca in sé il segno della vittoria: l’arte, infatti, se sa farsi memoria del gesto, se sa preservare i nomi dall’oblio, può vincere il giogo del destino, e per questo la composizione si intitola Fuck the dead. In un certo senso questa potrebbe essere la didascalia di tutto Le sorelle Macaluso, che in fondo vuole essere un denso corpo a corpo con la morte, una danza macabra elegiaca e nostalgica. Per di più il rigore geometrico della composizione è il medesimo con cui la regista scandisce i movimenti dei performer, stretti nella ‘schiera’ dell’esistenza, aggrovigliati in un vortice di parole, canti, pose e risate.

La cieca violenza degli spettacoli più celebrati (quel furore bestiale capace di scatenare le passioni più turpi) ha lasciato il posto a un lieve teatro di spettri, di matrice simbolista, in cui i corpi sembrano somigliare ai «burattini meravigliosi» di Diderot, designati nel suo Paradosso come modelli dell’attore ideale. A suggerire immediatamente questa lettura, a sipario ancora chiuso, ci pensano alcuni oggetti di scena, nella loro immobile eloquenza. Si tratta di quattro scudi lucenti, disposti nella linea di proscenio, e di quattro spade adagiate accanto a essi; sono relitti di epiche battaglie, di sontuosi duelli, feticci di antichi furori, di urla e ‘vastasate’. Specchio di epoche buie ma valorose, rimangono a terra per l’intera durata dello spettacolo, a segnare la riga dell’azione e del ricordo, con l’unica eccezione in cui quattro personaggi li brandiscono con foga, mimando la passione guerresca e scanzonata dell’Opera dei pupi.

Siamo ancora alle prime battute, ma Le sorelle Macaluso appare da subito una sorta di «dramma per marionette», una partitura rarefatta, solo a tratti ravvivata dal recupero di una dizione gioiosa, eccitata, sovraccarica, mentre l’inclinazione gestuale degli attori sembra richiamare la lezione simbolista di Maeterlinck, l’auspicio per cui «l’essere umano sarà sostituito da un’ombra, un riflesso, una proiezione di forme simboliche o da un essere funzionante come la vita anche se privo di vita». Le sorelle Macaluso altro non sono che spettri, larve, ombre di un universo familiare disfatto, scomposto, feroce, eppure poeticissimo, accorato e vibrante. Pur recuperando qualcosa della tempra sanguigna dei personaggi del passato, sono tutte creature d’aria, «uno stormo di uccelli sospesi tra la terra e il cielo» – come si legge nelle note di regia. La gravità dell’esistenza è un peso, una tara, da cui liberarsi semplicemente cambiando abito, indossando i grembiuli dell’infanzia, re-citando le voci di un tempo perduto. La drammaturgia è un coro festoso, un ricamo di suoni, una ressa di corpi: le sorelle parlano e si muovono all’unisono, finché non emergono le invidie, i piccoli soprusi, le allegre consuetudini. Non c’è spazio per l’azione, tutto si risolve in rapidi tableaux, necessari a ricomporre il cerchio dei legami. Il ricordo della prima gita al mare è il turning point dello spettacolo: quello che sembrava essere un istante di pura contemplazione si rivela improvvisamente il primo di una serie di scherzi fatali, capaci di rompere per sempre l’equilibrio tra i vivi per l’irruzione in scena dei morti. Una gara d’apnea si trasforma in tragedia, una delle sorelle muore e da lì il destino della famiglia Macaluso scivola via, verso un’ineluttabile catena di schianti.

È questione di fiato la vita, e anche il teatro, e ce lo dimostra la sorprendente performance delle attrici, segnata da un perfetto controllo delle emissioni di voce, dei gesti. La scena dell’annegamento è una danza di respiri e di mani, un disegno di linee e di pesi, la prova che il dolore può essere distillato. Le ‘supermarionette’ di Emma Dante vanno oltre lo strazio, ridono e cantano, ma soprattutto sanno vestire la morte, e ballare. Davvero struggente è il passo a due del padre e della madre, figure ambigue ma potenti dentro questo sconquassato orizzonte familiare. Il loro incontro si tinge di passione, di ritmo, i loro corpi sono un fascio di nervi e desiderio, e incantano. Altrettanto commovente è l’agonia di Davidù, aspirante calciatore dal cuore fragile, capace di trascinarsi in scena come un burattino stanco, prima di esalare l’ultimo respiro.

Se ai vivi non resta che marciare a schiera, nel giorno dell’ennesimo funerale, a Maria, la sorella più grande, è affidato il ruolo-cerniera dello spettacolo: entrata in scena per prima, danzando, a lei tocca l’ultimo giro di valzer, che suggella – nel momento supremo – il desiderio di tutta la vita. Lei che fin da bambina sognava di prendere lezioni di ballo nella scuola di fronte casa (chiamata epigrammaticamente Passi dangelo) riassume negli ultimi istanti prima del buio il senso di tutta l’opera, che tanto somiglia a un battito d’ali di rilkiana memoria:

Angelo e marionetta: allora finalmente c’è spettacolo.
Allora ecco s’aduna, quel che sempre,
esistendo disgiungiamo.
Allora, solo allora
dalle nostre stagioni si compone il cerchio
della piena evoluzione. Alto sopra di noi
recita, allora, l’Angelo.

 

Le sorelle Macaluso

Testo e regia: Emma Dante

Luci: Cristian Zucaro

Armature: Gaetano Lo Monaco Celano

Assistente alla regia: Daniela Gusmano

Foto e Grafica: Carmine Maringola

Interpreti: Serena Barone (Lia), Elena Bogogni (Antonella), Sandro Maria Campagna (Padre), Italia Carroccio (Gina), Davide Celona (Davidù), Marcella Colaianni (Cetty), Alessandra Fazzino (Maria), Daniela Macaluso (Pinuccia), Stephane Taillander (Madre)

Produzione:

Teatro Stabile di Napoli

Théâtre National Bruxelles

Festival dAvignon

Folkteatern Göteborg

In collaborazione con Atto unico Compagnia Sud Costa Occidentale