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Tra le pratiche concettuali degli anni Settanta, la Narrative Art si distingue per l’indagine condotta sulle fratture e sulle ambiguità del rapporto tra fotografia e scrittura. Come afferma Franco Vaccari, «lo spazio mentale della Narrative Art è quello incerto, ma pieno di fermenti, dove non esistono ancora configurazioni stabili, formulazioni esplicite, concetti definiti, ma dove è possibile cogliere questi elementi allo stato nascente. La Narrative Art è una pratica del senso e si applica a realtà fugaci, mobili, sconcertanti e ambigue, che non si prestano alla misura precisa, al calcolo esatto, al ragionamento rigoroso». Partendo da una contestualizzazione storico-critica del fenomeno, il saggio evidenzia il carattere ipertestuale dei rapporti tra scrittura e fotografia proposti dalla Narrative Art e analizza le strategie di narrazione del sé attuate da Christian Boltanski, Jean Le Gac e Didier Bay, rintracciando in esse dinamiche trasformative proprie dei fototesti autobiografici.

Among the conceptual practices of the nineteen seventies, Narrative Art is notable for its investigation into the fractures and ambiguities found in the relationship between photography and writing. As Franco Vaccari states, «the conceptual dimension of Narrative Art is an uncertain one, but highly fertile, where stable configurations, explicit formulations and clearly-defined concepts do not yet exist, but where it is possible to grasp these elements in their germinal state. Narrative Art is a practice of meaning applied to fleeting, mobile, disconcerting and ambiguous realities, which do not lend themselves to precise measurement, exact calculation, or rigorous reasoning». Starting from a historical-critical contextualization of the phenomenon, the essay highlights the hypertextual nature of the relationships between writing and photography seen in Narrative Art and analyses the self-narrative strategies implemented by Christian Boltanski, Jean Le Gac and Didier Bay, exploring the transformative dynamics intrinsic to autobiographical phototexts.

 

Un uomo è sempre un narratore di storie;

vive circondato dalle sue storie e dalle storie altrui,

tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse,

e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse.

Ma bisogna scegliere: o vivere o raccontare.

Jean-Paul Sartre[1]

 

La comprensione che ognuno ha di se stesso è narrativa:

non posso cogliere me stesso al di fuori del tempo

e dunque al di fuori del racconto.

Paul Ricoeur[2]

 

Fotografia e scrittura giocano un ruolo centrale nella stagione della ‘smaterializzazione dell’oggetto artistico’:[3] innumerevoli artisti ricorrono infatti a questi mezzi per condurre operazioni variamente ascritte all’Arte Povera, all’Arte Processuale o alla Body Art ma tutte riferibili, invero, alla più vasta categoria di Arte Concettuale. A dispetto di ogni uso tattico, settario o militante del termine, la concettualità costituisce un denominatore comune a tutte le ricerche tese a rivendicare la priorità dell’idea e del processo sulla forma o a mettere in discussione ogni convenzione semantica. Non si compie infatti azione, processo o verifica senza intenzione, ipotesi o idea, cioè senza presupposti di ordine noetico; e non c’è operazione di questo tipo che non necessiti di supporti informativi, quali appunto fotografia e scrittura, per essere attuata, documentata, descritta e divulgata. Per dare un ordine generale alle molteplici forme assunte dall’Arte Concettuale è allora opportuno concentrarsi sulla funzione attribuita di volta in volta a questi mezzi: ‘analitica’, cioè tesa a verifiche interne e riflessioni tautologiche, o ‘mondana’, ossia volta a una più diretta e immediata presa sulla realtà fisica e sulle dinamiche dell’esistenza.[4]

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Il lutto si addice a Emma Dante. Basti pensare al finale folgorante di mPalermu, con la morte in scena di nonna Citta, che gela il tetro entusiasmo della famiglia Carollo vanificando l’ennesimo tentativo di uscire fuori dalla casa-prigione. E che dire della resurrezione solo sognata di Vita mia, forse il testo più commovente, in cui lo strazio della madre per la perdita del figlio raggiunge i toni dell’elegia e della farsa, grazie al fecondo equilibrio fra tormento e immaginazione. Altrettanto crudele, e non meno funerea, appare la recita straniata di Paride, protagonista del Festino, per quel tono incombente di tragedia risolto splendidamente nella rivelazione estrema di una colpa (la morte involontaria del fratello gemello) e di un bruciante senso di solitudine (sublimato appunto nel play within the play).

Con Le sorelle Macaluso, approdato al Biondo di Palermo dopo un mese dal debutto napoletano, Dante torna a misurarsi con quella che può dirsi ‘la terra del rimorso’, un paesaggio infestato dalle ombre dei vivi e dei morti, una soglia magica di visioni e abbandoni. Non si limita a ‘restaurare’ segni già codificati, nonostante un’evidente linea di continuità con le precedenti forme di pathos, ma propone una maniera nuova di mettere in scena i nodi dell’esistenza.

Per una coincidenza propizia, poco prima di assistere allo spettacolo visito – qualche metro più in là del Biondo – l’esposizione permanente di Palazzo Riso. Qui trovo una collezione di opere (I protagonisti internazionali in Sicilia) che mette in moto (per quelle strane epifanie dell’arte) una serie di prodigiose corrispondenze con la nuova direzione della scrittura scenica di Dante. La prima installazione a suggerirmi una delle possibili chiavi di lettura dello spettacolo è Cappotti neri di Christian Boltanski: una fila di piccole lampadine inchioda alla parete una giacca e una paio di pantaloni di scena, neri – come suggerisce il titolo. L’evanescenza, la transitorietà della vita e dell’arte è espressa attraverso la limpida evidenza del segno; l’abito è la traccia fantasmatica del corpo ormai assente, cancellato dal tempo. Allo stesso modo, nello spettacolo di Dante, i costumi sono un prezioso indizio identitario. Nel loro primo ingresso in scena tutti i personaggi indossano abiti scuri, salvo poi iniziare un frenetico rito di svestizioni che, oltre a stupire per un calcolato effetto metateatrale, rivelerà la precisa consistenza del loro stare al mondo: i vivi di lì alla fine indosseranno nuovamente i loro completi scuri, luttuosi, mentre i morti sfoggeranno i colori sgargianti delle loro ‘divise’. Ad ogni modo, il contrasto delle tinte accende i ricordi, confonde i piani di realtà e memoria, guida lo spettatore dentro uno sfavillante sogno ad occhi aperti.

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