7.1. Donne, attrici che interpretano se stesse. Fotografia e femminismo nell'Italia degli anni Settanta

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Dalla metà degli anni Settanta anche in Italia, in linea con quanto stava accadendo in tutta Europa e soprattutto negli Stati Uniti, quasi in risposta alla domanda che a inizio decennio aveva posto Linda Nochlin dalle pagine di Art News (Nochlin 1971, p. 122), sono molte le donne che calcano la scena artistica, operando attraverso inedite modalità espressive, in molti casi specificatamente legate al loro genere. Artiste e donne. Sebbene tale atteggiamento, che coniuga consapevolezza linguistica ed esigenze espressive profonde, venga declinato da ciascuna delle protagoniste di questo contesto in maniera personale, ci sono alcuni elementi che risultano ricorrenti nelle loro ricerche le quali, pur inserendosi per molti aspetti nelle trame del tessuto artistico dell’epoca, affondano le loro radici proprio nelle istanze legate al femminismo e pongono in primo luogo la complessa questione della ricerca di una (non schematizzabile) identità altra, diversa rispetto a quella maschile, che si iscrive nel quadro di una più complessa e articolata contestazione di tutta la storia culturale. Va riscritta la storia, va cambiato il presente a livello intimo e profondo, e siffatta operazione comporta una messa in discussione di ogni certezza, con aperture a punti di vista inediti: smontato il sistema, sono le più varie le istanze che hanno diritto di esistenza.

Il nuovo femminismo si impone in Italia sin dall’inizio del decennio, soprattutto grazie all’impulso dato delle rivoluzionarie posizioni di Carla Lonzi, il cui pensiero segna un passaggio imprescindibile, anche a livello internazionale, in seno alla riflessione sulla condizione femminile. Se la posizione di Lonzi ha avuto un’eco notevole, è pur vero che in Italia già dalla seconda metà degli anni Sessanta altre donne erano state attive nella medesima direzione: basti pensare al gruppo milanese DEMAU, che nasce tra il 1965 e il 1966. Intorno al 1975 queste posizioni, che si sono sviluppate (anche in direzioni non convergenti) attraverso l’azione di numerosi gruppi attivi sul territorio nazionale, trovano eco anche nell’ambito della cultura visiva e incoraggiano la diffusione di un profondo ripensamento sulle questioni identitarie, che interessa anche quante non abbracciano espressamente il femminismo.

In questo contesto, anche per le artiste la pratica fotografica diviene uno strumento ideale, e le immagini che ne derivano funzionano spesso secondo dinamiche che portano ad identificare le donne immortalate con delle attrici, intente però a rappresentare se stesse e non a recitare un copione. La fotografia è usata, in prima battuta, per contestare dialetticamente ma anche ironicamente quella visione della donna, stereotipata e maschilista, diffusa nell’immaginario collettivo, anche attraverso i sempre più incidenti media di massa. Un’operazione, questa, che si inserisce perfettamente in un più ampio alveo di analisi della comunicazione mediatica e del linguaggio tout court, nel quale molti artisti (a partire dai protagonisti della poesia visiva, tra i quali spicca Lucia Marcucci) stavano conducendo efficaci esperimenti; ma tale operazione nel caso delle artiste spesso si carica di valenze più incisive. La donna viene ʻmessa in scenaʼ negli irriverenti tableaux vivants nei quali Verita Monselles, in veste di regista, impone alle sue modelle una recita graffiante e grottesca. Come scrive Perna, le sue opere si basano «su un uso del medium fotografico inteso come strumento di registrazione di un intervento attivo sulla realtà, progettato e allestito accuratamente a monte della ripresa» (Perna 2013, p. 37), un set fotografico quindi, che funziona come un set cinematografico. In altri casi, però, è l’artista stessa a vestire i panni dell’attrice. Come avviene nei lavori della serie Miti & Cliché in cui Nicole Gravier interpreta il ruolo dell’attrice di fotoromanzi, posando in scene tipiche di quelle strisce dove però introduce elementi ʻdi disturboʼ capaci di capovolgerne il senso, sottolineando i cliché sottesi a una delle più popolari letture femminili dell’epoca. Attrice diventa anche Tomaso Binga, per esempio quando si fa ritrarre in un suo celebre lavoro del 1977, Bianca Menna e Tomaso Binga oggi sposi, nei duplici panni di se stessa e del suo alter ego maschile, che incarna il suo nome d’arte [fig. 1]. Ad un’operazione analoga ricorre anche Carla Cerati, che ha realizzato i racconti ʻdella vita di una donnaʼ: pannelli sui quali, attraverso un montaggio di immagini di diversa provenienza, l’autrice crea una fiction incentrata sulla condizione femminile a quel tempo, affermando inoltre l’impossibilità di definire secondo una logica univoca, come quella utilizzata dalla società, l’identità di una donna [fig. 2]. Questa tesi è più esplicita in un celebre lavoro di Marcella Campagnano; per realizzare L'invenzione del femminile: Ruoli, la fotografa scatta una serie di ritratti a figura intera in cui amiche e conoscenti interpretano i vari ruoli che le donne sono quotidianamente costrette a recitare [fig. 3]. Accanto al più esplicito aspetto di denuncia, questi lavori portano in filigrana anche un’idea di identità femminile come elemento fluido e non definito, ricco di possibili sviluppi. Questa dimensione innerva di sé le ricerche di molte autrici per le quali l’immagine fotografica si offre come uno specchio magico, il mezzo che consente di costruire un ʻalibiʼ immaginario, che diventa un luogo di ricerca del proprio essere. Come accade nei lavori di Libera Mazzoleni [fig. 4]. Per esempio, in Identità, attraverso immagini fotografiche l’artista svela un immaginario dove mette in scena tutti i ruoli a cui la donna è condannata nell’età contemporanea. Per altro l’autrice usa spesso la fotografia, che per lei non è una scelta esclusiva, non per definire i confini di un canone identitario, ma per formulare una serie di ipotesi esistenziali, in un percorso aperto e libero. Su questo terreno si gioca un’importante partita. Come sosteneva Ketty La Rocca, la fotografia consente una visione libera da pregiudizi, permette di riavvicinarsi alla sincerità del proprio sguardo e quindi del proprio essere. La necessità di cercare, al di fuori delle comuni certezze, quella che può essere una traccia per definire, a partire dalla propria esistenza, l’identità femminile celata per secoli, spinge infatti molte artiste a lavorare anzitutto con il proprio corpo in senso performativo, per far coincidere la riflessione con l'azione, oppure attraverso esperimenti condotti sull'immagine, alla ricerca di un inedito racconto di sé, che si contrapponga a quello maschile, facendo anche emergere aspetti finora censurati, al di là di ogni rigida intenzionalità. In questi casi, dunque, si procede sul registro dell’interrogazione: un’indagine intorno al proprio corpo è, per esempio, quella che compie con la macchina fotografica Iole de Freitas in Glass Pieces, Life Slides, un lavoro del 1975 strettamente legato all’omonimo film. Pertanto se molte operano su un piano di autoanalisi, pure il ritratto diviene, per la logica del rispecchiamento tra donne, una sorta di autoritratto e tale meccanismo resta in qualche modo sempre sotteso anche ad altre forme espressive.

Nel rapporto tra donne non può instaurarsi quel ruolo di oggettivazione che vuole l’immagine uguale alla realtà e l’operatore assente come soggetto. Viene così a rompersi quello schema per cui l’immagine è rubata da un occhio che si annulla e il ribaltamento della situazione imposta un campo privilegiato di indagine: l’autoanalisi del soggetto/oggetto della fotografia e lo studio dei meccanismi di rispecchiamento (Mattioli 1979, p. 176).

Questo meccanismo è evidente in molti lavori fotografici dell’epoca: penso, tra le altre, a Diane Bond, Paola Mattioli e Silvia Truppi [figg. 5-6]. In molte delle loro opere è possibile percepire, pur dentro una cifra di grande spontaneità, la volontà di mettere in scrittura delle immagini in cui altre donne (amiche, compagne, colleghe, o estranee coinvolte in un’operazione di ricerca che va ben oltre la questione puramente estetica) giocano davanti all’obbiettivo, si comportano liberamente, sono profondamente se stesse, pur essendo chiaramente consapevoli della sua presenza. Paradossalmente, queste donne sembrano recitare un ruolo in cui si riconoscono molto più che in quelli che interpretano quotidianamente. Ben lontane dai toni del reportage, le donne attraverso la fotografia riescono a ritrarre un’idea di se stesse non in termini cronachistici né categoricamente assertivi, ma in termini creativi, con risultati capaci di stimolare l’analisi, nella complice dialettica tipica della dimensione del gruppo. In questo modo la prassi fotografica si rivela il mezzo privilegiato per indagare il campo aperto delle possibilità, nate dal rifiuto di secoli di cultura sclerotizzata. È interessante notare come Lonzi pensasse che una complessa e profonda esperienza di scoperta, come quella che dovevano affrontare le donne, necessitasse di strumenti fluidi, mentre la fotografia, utile a documentare i fatti, nella sua rigidità e incapacità di seguire il flusso continuo della ricerca introspettiva, non risultasse essere uno strumento adeguato. A partire dagli anni Settanta, infatti, per Lonzi

iniziava a prender corpo l’ipotesi che gli unici strumenti atti a manifestare il proprio percorso esistenziale e creativo, garantendone il tratto necessariamente autentico, potessero contemplare solo le arti immateriali del tempo e le loro estensioni: ovvero, la scrittura – diaristica in primis -, il teatro e il cinema: ovvero, ancora, tutte quelle forme espressive che potevano assicurare la verosimiglianza dello svolgersi temporale proprio del farsi e dell’esperienza e una residuale, se non assente, compromissione con il sistema dell’arte in atto (Martini 2014, pp. 155-156).

In realtà però, come si è visto, sono molte le artiste e le fotografe che usano questo medium in un modo che sembra andare proprio nella direzione suggerita da Lonzi, ossia come uno strumento in grado di restituire la freschezza e la flagranza del guardarsi l’un l’altra, l’eccezionalità dei rapporti, la singolarità dei momenti, consentendo alle donne di rispecchiarsi nelle attrici della vita rappresentate e, quindi, di conoscersi meglio.

 

 

Bibliografia

V. Martini, ‘L’estrema critica di Carla Lonzi: 1968-1978’, in I. Bussoni, R. Perna (a cura di), Il gesto femminista. La rivolta delel donne: nel corpo, nel lavoro, nell'arte, Roma, DeriveApprodi, 2014, pp. 155-164.

P. Mattioli, ‘L'immagine fotografica’, in Lessico politico delle donne. Cinema, letteratura, arti visive, Milano, Gulliver, 1979.

L. Nochlin, ʻWhy Have There Been No Great Women Artistsʼ, Art News, 9, 69, 1971.

R. Perna, Arte, fotografia e femminismo in Italia, Milano, PostmediaBooks, 2013.