1. Il Salviatino e Paola Ojetti
«Da questo poggio dov’è casa mia, vedo tutta Firenze, quella bella, quella antica, quella di macigno e di marmo» (U. Ojetti [1914] 1954, p. 3). Così Ugo Ojetti, critico d’arte, giornalista e ‘accademico d’Italia’, descriveva nei suoi Taccuini la posizione privilegiata del Salviatino, la villa storica immersa nel verde di Fiesole dove dal 1913 si stabilì con la moglie Fernanda Gobba e la figlia Paola [fig. 1]. Il salotto della sua abitazione non si affermava soltanto sul profilo rinascimentale della città, ma anche sul panorama mondano italiano: durante il ventennio divenne infatti un importante luogo di ritrovo per artisti, intellettuali e gerarchi. All’interno di questo contesto pienamente integrato nella società fascista, si era formata tra anni Trenta e Quaranta una rete femminile: attraverso i loro rapporti di amicizia, alcune professioniste della scrittura e del giornalismo (anche nelle vesti della critica cinematografica e della sceneggiatura) conoscevano nuove occasioni lavorative, ponevano le basi per collaborazioni presenti e future e si prestavano un inedito supporto.
Mentre nuove opportunità e cambiamenti nelle possibilità di vita delle donne italiane convivevano e si scontravano con l’ideologia patriarcale e repressiva del fascismo (Benadusi 2014), il regime dispiegò nei confronti del lavoro femminile una radicale politica di discriminazione che faceva certamente leva su pregiudizi di vecchia data ma ne accentuava gli svantaggi e lo sfruttamento (De Grazia, 1992, p. 167). In questo quadro, le professioni intellettuali erano difficilmente accessibili alle donne. Eppure, alcune attività, come la scrittura, il giornalismo e la traduzione, in particolare se non si mostravano, in apparenza, di prestigio (come il lavoro di pubblicista o la letteratura rosa), parevano offrire una veste maggiormente consona al lavoro femminile. Ciò poteva accadere per una supposta posizione ancillare rispetto allo status autoriale, ma anche per la flessibilità di alcune figure e per la possibilità di svolgere certi compiti in una dimensione domestica (De Grazia, 1992, pp. 195-196; Ferrando, 2020). Proprio gli spazi della casa potevano configurarsi come un inedito territorio di emancipazione professionale, in particolare in contesti facoltosi e di prestigio sociale.