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Shirley Clarke
Unica regista tra i 22 firmatari del Manifesto del New American Cinema nel 1960, cofondatrice della Film-Makers’ Cooperative nel 1962, Shirley Clarke (Brimberg, NYC 1919 – Boston 1997) è stata protagonista del rinnovamento cinematografico statunitense fin dagli esordi ispirati alla sua formazione di danzatrice e coreografa (con Martha Graham, tra gli altri) [fig. 1].
Di famiglia agiata e la maggiore di tre figlie, Shirley era una ribelle già da bambina. Fece ottimi studi universitari e nel 1942, per sottrarsi al severo controllo paterno, sposò un fotolitografo di nome Bertram Clarke, padre della sua unica figlia Wendy, dal quale divorziò nel 1963. Nei primi anni Cinquanta intraprese un nuovo percorso creativo, scegliendo il cinema come privilegiata «stanza tutta per sé», e inaugurando la sua carriera di filmmaker con cortometraggi di cinedanza, ai quali collaborò il marito, e che presto avrebbero lasciato il posto a lungometraggi in parte ispirati al cinéma-vérité. Nel 1955 si iscrisse all’Institute of Film Techniques di New York. Allieva di Hans Richter, ebbe tra i compagni di classe Jonas Mekas, come lei habitué delle programmazioni della Cinema 16 Film Society di Amos Vogel. Fece parte della Independent Film-Makers Association (1953-1955), che la inserì nel milieu artistico del Greenwich Village animato da Maya Deren, Stan Brakhage, Lionel Rogosin e lo stesso Mekas.
Dalle iniziali prove di cinedanza, sulla scorta del magistero dereniano, divenne autrice capofila di film sul mondo degli afroamericani, realizzando una trilogia cinematografica dalla forte tensione politica e matrice autoriflessiva: The Connection, The Cool World, Portrait of Jason. Attratta da una umanità ai margini e fuori dai ranghi, Shirley si dedicò a esplorarla con uno sguardo diretto e anticonvenzionale, che ispirerà diversi registi contemporanei: da John Singleton a Larry Clark, Spike Lee, Mike Figgis, tra gli altri.
In seguito, sperimentò il video agli albori e nel 1969, dopo il fallimento di un progetto hollywoodiano (Shelley Winters voleva affidarle la regia di una sua sceneggiatura), interpretò il personaggio della regista in Lions Love di Agnès Varda, un ritratto della scena hippie al tramonto, con l’amica warholiana Viva. Dal 1975 fu docente di cinema e video per circa un decennio alla UCLA, e tornò poi a New York occupandosi di TV e programmi via cavo. Nel 1989 le fu assegnato il Maya Deren Award per i suoi contributi alle arti di cinema e video. Assai più che negli Stati Uniti, fu in Europa che i suoi film riscossero premi e apprezzamento critico nei maggiori festival cinematografici. Tuttavia, Shirley Clarke non è conosciuta quanto merita: al di là di retrospettive e relativa stampa, su di lei non esiste uno studio monografico.
1. Dagli esordi ai lungometraggi docufinzionali
Il rapporto del New American Cinema con la letteratura e la cultura beat investe l’improvvisazione, imparentata a quella del jazz, e il piacere del gesto e della corporeità, che richiama l’action painting e gli happening teatrali. Un «cinema della nuova generazione», scrive nel 1960 Jonas Mekas, il carismatico leader del Group, in cui Clarke si inscrive, pronta a cogliere i fermenti del suo tempo: per una proiezione newyorkese di protesta contro la guerra in Vietnam realizzò Butterfly (1967) in collaborazione con la figlia Wendy.
L’esordio ufficiale dietro la mdp era avvenuto con Dance in the Sun (1953), protagonista il danzatore-coreografo Daniel Nagrin. Una sperimentazione di cinedanza che sarà applicata anche nel cortometraggio successivo, In Paris Parks (1954), con Wendy bambina che gioca in un parco parigino, tra zoo e marionette, coetanei e anziani: una danza informale creata dal montaggio ritmico e assecondata dalla vibrante musica in sottofondo. Questa esplorazione prosegue in altri tre cortometraggi: Bullfight (1955), A Moment in Love (1957) e Bridges-Go-Round (1958). In Bullfight la regista «si sgancia da qualsiasi tentazione narrativa per lavorare sulla pura emozione» (Amaducci 2021, p. 49), intersecando in un montaggio contrappuntistico una corrida e una danzatrice. La coreografia è della grande danzatrice e cofondatrice dell’Actor’s Studio Anna Sokolow, che ora figura tra il pubblico, ora si alterna nei ruoli di torero e toro. Anna Sokolow coreografa anche A Moment in Love, ritenuto il capolavoro della sua collaborazione con Clarke, in cui una giovane coppia balla un’onirica danza amorosa librandosi in cangianti spazi fantasmatici (boschi, dune, acque, rovine). Bridges-Go-Round è un inebriante esperimento formale, in cui i ponti di Manhattan sono gli astratti danzatori di un mesmerizzante girotondo di colori, sovrimpressioni e ondulazioni visive [fig. 2]. In origine il film, muto, era stato incluso nel documentario collettivo Brussels Loops, voluto dal Dipartimento di Stato per l’Esposizione Internazionale di Bruxelles del 1958. In seguito la regista ne ha rilasciato due versioni (la seconda più lunga di nove secondi rispetto alla prima) scandite da due diverse colonne sonore: del musicista jazz Teo Macero la prima, e dalla musica elettronica di Bebe e Louis Barron la seconda (brani già di Il pianeta proibito di Fred M. Wilcox del 1956).
Skyscraper (1959), girato in collaborazione con Van Dyke, Jacoby, Pennebaker e Galantine, è «una commedia musicale», commentava Clarke (1965, p. 12), sulla costruzione del Tishman Building a Manhattan. Accompagnato dal jazz di Teo Macero e dai dialoghi extradiegetici di John Sylvester White, sceneggiatore del film, concerta in voce over i lavori del cantiere, celebrando un inno a New York e allo sforzo e alla creatività profusi per farle ‘toccare il cielo’. Scary Time (1960), commissionato dall’Unicef, mostrava lo stato dei bambini in povertà, (d)eludendo le aspettative (auto)celebrative dell’ONU, che non lo distribuì.
«Una sorta di autopsia spirituale dell’uomo contemporaneo» (Mekas 1962, p. 69), The Connection (1961) è l’esordio nel lungometraggio, ispirato all’omonima pièce di Jack Gelber, messa in scena con successo dal Living Theatre nel 1959 [fig. 3]. Premio della critica a Cannes nel 1961, questa docufiction, sceneggiata dallo stesso Gelber e girata in un fulgido bianco e nero, presenta dei jazzisti neri eroinomani in attesa del loro pusher, e un regista alle prese con un documentario vérité sui musicisti. La mise en abîme stilistica e tematica del film, tra cinema, jazz e teatro, poggia sullo sguardo ‘partecipante’ della cinepresa, e invita a guardare «come nei film di Antonioni» (Dixon 1997, p. 40) [fig. 4]. Una visione giocata nel contrappunto tra conversazioni, monologhi beat e assoli musicali, stralunato Kammerspielfilm su una umanità alla deriva, senza pentimenti e vittimismi. Alla sua uscita il film scatenò un putiferio e fu sequestrato dalle autorità (Clarke non volle togliere la parola «shit», usata per indicare l’eroina), ma dopo 18 mesi di battaglie legali, la regista, appoggiata anche da Mekas sul «The Village Voice», conquistò una vittoria esemplare contro la censura.
The Cool World (1963) e Portrait of Jason (1967) completano la trilogia sul mondo degli afroamericani, all’insegna di un’empatia profonda verso i personaggi, di un’improvvisazione raffinata, di un ritmo musicale del montaggio e dei movimenti della mdp. Girato a Harlem e ispirato all’omonimo romanzo del 1959 di Warren Miller, The Cool World descrive la vita delle gang giovanili afroamericane, la prostituzione dei minori, la brutalità della polizia contro la comunità nera del quartiere newyorkese [fig. 5]. Inizialmente Clarke pensò di girare una sequenza con Malcolm X nella parte di sé stesso, ma, nonostante l’approvazione di quest’ultimo decise di tagliarla, scegliendo di non inserire nessun personaggio esistente. Il suo ruvido film-inchiesta metabolizzava in modo originale la lezione fotografica di Walker Evans, Robert Frank, William Klein, e quella cinematografica della Scuola di New York (a sua volta debitrice del magistero di De Sica e Zavattini), contribuendo a suo modo all’iniziativa Shoot Your Way Out del NAC (1966), sintonica anch’essa con le ideazioni zavattiniane dei cinegiornali della pace e dei cinegiornali liberi. Il film non fu distribuito in alcune città statunitensi, tra cui Boston: puntava il dito sulla irrisolta questione degli afroamericani, la ‘questione americana’ per eccellenza, stigmatizzata dalla stessa Clarke in perfetta concordanza con James Baldwin.
Documentario ‘performativo’ su Jason Holliday, alias Aaron Paine, gigolò omosessuale afroamericano e aspirante cabarettista, Portrait of Jason radicalizza la riflessione di Clarke sul cinema, esaltando la qualità «relazionale» (Bourriaud 2010) del suo lavoro. Questo film-intervista di 105 minuti, girato nel loft della regista al Chelsea Hotel, esplora l’esuberante personalità del protagonista e le questioni formali sollevate dal cinéma-vérité. Durante le 12 ore di riprese notturne, Holliday racconta la sua vita nell’America puritana e razzista di fine decennio con monologhi confessionali ripresi con camera fissa. Le interferenze (le domande di Clarke in voce fuori campo, il controllo sui tempi e le posizioni di Jason) e il montaggio esibiti (stacchi con fuori fuoco, dissolvenze in nero, talora l’asincrono del labiale di Jason) sono indici stilistici trasgressivi dello stesso cinéma-vérité. Il film, spiegava Clarke in una intervista (Rice 1972), intendeva «mostrare a Leacock e Pennebaker le pecche nel pensiero sul cinéma-vérité. Se giri per 12 giorni e monti solo i punti di climax, fai una schifezza. La mia teoria era che non togli le parti noiose – il modo con cui si raggiungono quei climax, o un’idea o altro. Jason è due ore di film in tempo reale, non un tempo cinematografico».
Al 1967 risale anche l’assolvimento di un incarico impegnativo che era stato affidato alla regista dagli organizzatori dell'Esposizione Universale di Montreal. Il tema era l’Uomo e il suo mondo (Man and His World), e la sezione cinematografica assegnata a Clarke, Man in Polar Region (alias Polar Life), si dispiegava su un carosello di 11 schermi mobili. La cineasta fu una parte importante di questo progetto, diretto da Graeme Ferguson: nei titoli di coda è indicata come responsabile dell’«Editing concept and continuity», ma di fatto fu anche coinvolta nel montaggio stesso del lavoro.
2. Pioniera del video: il loft-studio come laboratorio di arte partecipata
Prima del passaggio alla fase videografica, Clarke realizza altri due ritratti documentaristici: Robert Frost, A Lover’s Quarrel with the World (1963), su invito del presidente Kennedy, e Ornette, Made in America (1985), dedicato a una leggenda del free jazz, il sassofonista Ornette Coleman [fig. 6].
Il primo, sul poeta laureato Robert Frost e Oscar per il miglior documentario nel 1964, subì l’intervento del produttore Robert Hughes in fase di montaggio pur restando nei crediti la regia di Clarke, che peraltro partecipò all’assegnazione degli Oscar. Il secondo, dalla gestazione ventennale, intreccia immagini di repertorio, interviste, clip televisive e scene finzionali filmate in formati diversi, componendo la fibrillante costellazione esistenziale di Coleman. Fascinoso omaggio a un musicista geniale e al cinema come mezzo esperienziale e di scandaglio intimo, il film esalta la consapevolezza etica ed estetica dell’autrice. Una consapevolezza che Clarke aveva esplicitato nel bel documentario a lei dedicato, Rome brûle (Portrait de Shirley Clarke), girato a New York nel 1970 da Noël Burch e André S. Labarthe, in presenza tra gli altri di Yoko Ono e Jacques Rivette.
Dalla fine degli anni Sessanta Shirley sperimenta l’elettronica, in sintonia con l’idea di un cinema espanso (Stan Van-DerBeek, Gene Youngblood) e «con l’intuizione e la scoperta [da parte di artisti come Nam June Paik] della natura metamorfica dell’immagine elettronica» (Lischi 2019, p. 28). Folgorata dalla mobilità e dalla istantaneità del video, che le appare una evoluzione coerente del suo lavoro e quanto di più vicino all’euforia della danza, si avventura con entusiasmo nell’apprendistato del nuovo medium. Tra il 1969 e il 1975 realizza centinaia di video, spesso in collaborazione con la figlia Wendy, come risulta anche dalla mostra Eye on A Director: Shirley and Wendy Clarke, curata da Katerina Llanes e Carson Parish nel 2016 presso il Museum of Art and Design di New York [fig. 7].
Nel 1971 Clarke fu ideatrice e direttrice artistica di The Tee Pee Videospace Troupe, un collettivo di artisti attivo fino al 1975, tra cui la stessa Wendy, provenienti da diverse discipline e interessati alla sperimentazione con la nuova tecnologia elettronica. Nel suo attico-studio al Chelsea Hotel si tenevano i workshop della TP, in seguito anche itineranti, che attirarono l’attenzione di una folla di artisti (Peter Brook, Ornette Coleman, Corso, Ginsberg, Orlovsky, Paik, Jean-Paul Léaud e Nick Ray, tra gli altri). Questi laboratori promuovevano una partecipazione attiva e interazione giocosa col nuovo medium, tra live video e sequenze preregistrate, per stimolare una nuova percezione e una creatività ‘diffusa’. Nei video-painting, ad esempio, i partecipanti disegnavano degli autoritratti usando il monitor del video come uno specchio e assistendo alla visione, condivisa col pubblico, del loro work in progress. Alla fine, i video venivano raccolti e discussi insieme, incoraggiando l’inventività dei presenti alla luce dei suggerimenti di Clarke sull’uso del mezzo. Questi collage visivi erano una sorta di corrispettivo elettronico dei giochi surrealisti (i cadavre exquis) e contribuivano al processo collaborativo-partecipativo, e in buona parte improvvisato, della TP. Alcuni workshop si tennero anche nei musei ed esercitarono una forma di critica istituzionale verso la ‘cultura seria’ del mondo dell’arte, trasformando questi spazi in una sorta di parco giochi o in una festa.
Di queste attività, peraltro incomprensibili a chiunque non partecipasse ai seminari, non resta quasi registrazione. Il video era per Clarke un mezzo particolarmente adatto ad esplorazioni in tempo reale basate sui procedimenti effimeri e performativo-installativi nel ‘videospazio’. Il suo studio-loft era corredato di telecamere e monitor impilati uno sull’altro in strutture totemiche che simulavano la forma umana e decoravano gli spazi. Inoltre, la regista guarniva le attrezzature video con decori ‘femminili’ (vernice rosa, glitter e adesivi), e tendeva a sdrammatizzare l’iniziazione tecnologica da parte delle donne e a demistificare l’uso dogmatico del video da parte di collettivi coevi [fig. 8]. Il video era altresì usato da Clarke in forma diaristica per registrare eventi, come il video-ball realizzato durante la mostra d’arte tenuta a Syracuse (New York, 1972) da John Lennon e Yoko Ono, oppure per promuovere ‘eventi workshop’, come Midnight To Dawn (1974). In sostanza, i laboratori della TP esibivano un modo diverso di pensare il rapporto tra cultura di massa e pubblico rispetto a quello egemone tra gli altri collettivi di video. E «si potrebbe anche dire che Clarke suggeriva che conoscere il video fosse, in definitiva, un altro modo per conoscere sé stessi» (Capper 2013, p. 63). In elettronica sono realizzate le ultime due parti di Four Journeys into Mystic Time, del 1978, un lavoro complesso coreografato da Martin Scott e diviso in quattro parti (Initiation, Trans, One-Two-Three, Mysterium), con cui la regista concluse le sue sperimentazioni di screendance.
Nei primi anni Ottanta Shirley s’impegnò in una nuova impresa creativa, che incrocia teatro e video: le video-drammatizzazioni Savage/Love (1981) e Tongues (1982), due monologhi poetici scritti per il teatro da Joseph Chaikin e Sam Shepard (première a San Francisco nel 1978). Grazie al dinamismo della videocoreografia di immagini, suoni e testo di Clarke, l’opera, interpretata dallo stesso Chaikin, catalizza e distilla gli stili personali dei tre artisti nella performance lirica di un uomo, ora in cerca di sé stesso e dell’amore (Savage/Love), ora in dialogo con la morte (Tongues).
È un’altra prova esemplare della capacità di Shirley Clarke di restituire la sua adesione emozionale all’oggetto dello sguardo. Uno sguardo capace di cogliere le scintille dello «splendore del vero» dei suoi protagonisti e al contempo le opacità e oscurità del contesto, coscienziale o sociale che sia. Un gesto di mirabile modernità cinematografica (De Vincenti 2013), che celebra con finezza l’osmosi tra pubblico e privato e il legame tra cinema, video e vita.
Ringrazio vivamente: Wendy Clarke, Dennis Doros (Milestone Films), Nicolas Dulac (Cinémathèque québécoise, Montréal), Paul Gordon (Library and Archives Canada, Government of Canada), MM Serra (Film-Makers’ Cooperative, NYC), Timbi Shepherd (Anthology Film Archives, NYC), Mark Warhall, Katie Trainor, Ashley Swinnerton (Museum of Modern Art, NYC).
Per la gentile concessione ringrazio: Milestone Films and The Shirley Clarke Estate (figg. 1-3 e 5-8) e RE:VOIR (fig. 4).
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