Elisabetta non divenne mai reale nel senso in cui era stata reale la regina Vittoria, eppure non divenne mai creatura di invenzione nel senso in cui lo sono Cleopatra e Falstaff. La ragione sembrerebbe il fatto che si sapeva poco […] la sua invenzione era sotto controllo. Così la regina si muoveva in un mondo ambiguo, fra fatto e finzione, né corporea né incorporea. C’è un senso di vuoto e di sforzo, di tragedia senza crisi, di personaggi che si incontrano ma non cozzano.
Virginia Woolf
Fuori continua a nevicare. Non c’è pace per la regina Cristina. Non è sola nella stanza della locanda, ma un velo di inquietudine le impedisce di godere a pieno del tepore del fuoco e delle attenzioni del suo amante, totalmente ignaro di trovarsi al cospetto della potente sovrana di Svezia. Così abbandona il giaciglio, si alza in piedi e inizia a muoversi nell’ambiente, sfiorando le superfici dei mobili e delle pareti, accarezzando gli oggetti. Quando l’uomo le chiede spiegazioni, la sua risposta evoca lo spettro di un’esistenza stritolata in una morsa di doveri e convenzioni: «Sto memorizzando questa stanza. In futuro, nella mia memoria, trascorrerò tante ore in questa stanza… Ho immaginato la felicità, ma è qualcosa che non si può immaginare. La felicità bisogna provarla, è una gioia infinita. Oh, sapessi quanto mi sento felice adesso!… Questo deve avere provato il signore quando ha finito di creare il mondo e tutte le sue creature, a cui aveva dato vita…».
Al cinema succede, molto spesso, che una regina sia chiamata a interpretare una regina. E che un siffatto amalgama di royal personae (Ford, Mitchell ,2009) torni a manifestarsi nel tempo, assumendo forme diverse e disseminando nel firmamento audiovisivo crossmediale preziosi percorsi fotogenici di queenliness. Nel caso della ‘divina’ Greta Garbo – qui alle prese con le vicende pseudo biografiche di Cristina di Svezia accanto al suo partner storico John Gilbert (Queen Christina, R. Mamoulian, 1933) –, le risonanze non si contano e concorrono ad attestare un’unica fisionomia di mistero, bifronte (Jandelli, 2007), incontestabilmente ‘d’opposizione’ (Balázs, 2002), che «[…] non si impegna in nessun esercizio di travestimento; è sempre se stessa, sotto la corona o sotto i grandi feltri abbassati porta senza finzione lo stesso viso di neve e solitudine» (Barthes, 1994, p. 42) [Fig. 1]. Quello che però, di fatto, accade nella sopracitata sequenza riguarda il modo in cui l’ingombro ontologico del suo corpo regale ‘abita’, anche se in via del tutto provvisoria (e pertanto più libera), lo spazio circostante, che diventa il contenitore mnemonico di un ‘sito psichico complesso’ (Bruno, 2015): esplorando apticamente la stanza, la regina plasma i contorni di una vera e propria esperienza demiurgica, a carattere narrativo, e ‘compone’ idealmente un nuovo episodio nell’estenuante processo concernente il racconto del sé. Benché rappresa nella bolla silenziosa della classicità, questa multiforme kinetic queen si muove già nel solco della smarginatura, in una dimensione atemporale stratificata che riunisce in un unico discorso la storia e la geografia, la scrittura e il cinema, le regine e le dive. E, soprattutto, i corpi e le stanze.
Negli anni della serialità complessa, in cui il cosiddetto royal biopic vive un’incredibile stagione di (ri)fioritura, proviamo a riprendere il filo e a imbastire alcune suggestioni. Se è una regina a essere rappresentata, al cinema o nelle serie televisive, è come se l’immagine inevitabilmente si inspessisse, perturbando il sistema delle referenze e sparigliando le carte nel gioco spettacolare del credito. Due corpi entrano in competizione, di cui uno è ‘di troppo’, come nota Jean-Louis Comolli: «Qualcosa di indecidibile gli galleggia intorno, una sfocatura nell’immagine, una duplicazione: c’è un fantasma in questo corpo. In ogni caso sussiste una qualche conoscenza storica, un referente che costituisce uno schermo per l’immagine e impedisce all’interprete e alla messa in scena di giocare sull’auto-evidenza (non può che essere me) o sull’asserzione (sono io!)» (1977, p. 47). Tale doppiezza si addiziona a quella vissuta dalla personaggia, diegeticamente esposta al conflitto identitario irrisolvibile tra l’entità ‘donna’ e l’entità ‘corona’, confluendo in un unico corpo filmico, totalmente illeggibile.
In un ideale pantheon audiovisivo che raccoglie tutte queste regine doppie, ce n’è una che spicca sulle altre, a causa di una circostanza tanto banale quanto eclatante: è ancora viva (almeno mentre scriviamo). Non è questa la sede per discutere dello spessore iconografico di Sua Maestà Elisabetta II del Regno Unito o della sua iperesposizione mediatica: in settant’anni di regno, la sovrana più longeva della storia non ha mai smesso di ‘apparire’ nelle sostanze più disparate, portando avanti, in molti casi suo malgrado, un dialogo fecondo con il cinema e con la serialità: «[…] potremmo intendere Sua Maestà come l’Alfa e l’Omega di un sistema immaginifico circolare che si ‘ri-definisce’ e ‘auto-alimenta’ continuamente rispetto a sé stesso, e così facendo si distingue nel tempo, da quello di ogni altro monarca» (Pasetti, 2022, p. 13) [Fig. 2]. Scorrendo i titoli della corposa filmografia associata alla sua figura, conviene ragionevolmente soffermarsi sul trittico crossmediale ideato dallo sceneggiatore, drammaturgo e showrunner Peter Morgan, colui il quale, ad oggi, ha dato il contributo più rilevante alla causa immaginifica di Elisabetta II nell’era del biographical turn (Renders, Haan, Harmsma, 2006). Morgan le dedica, nell’ordine, un film, una pièce teatrale e una serie (produzione di punta del colosso Netflix): The Queen (S. Frears, 2006) e The Audience (2013), interpretati da Helen Mirren; The Crown (2016-2020), quattro stagioni già realizzate e una quinta in gestazione, con il perturbante avvicendamento tra Claire Foy e Olivia Colman nella parte di Elisabeth (e una terza queen, Imelda Stauton, attualmente impegnata sul set) [Fig. 3].
Il film diretto da Frears celebra la nascita fotogenica della queenliness di Helen Mirren, nello stesso anno in cui l’attrice è stata anche Elizabeth I in una produzione televisiva HBO [Fig. 4]. Doppiamente regina e doppiamente ‘elisabettiana’, la pluripremiata Mirren accede all’immagine della maestà con tatto performativo impressionista: il gioco d’attrice è meno percepibile, la diva si eclissa e la dimensione ordinaria dell’essere umano prevale sul tratto iconico. La sua Elisabeth di The Queen è una regina prigioniera del surcadrage mediatico alle prese con l’accettazione del cambiamento: Frears e Morgan scelgono di raccontare il dietro le quinte della settimana in assoluto più critica per la sovrana inglese (quella della morte di Lady Diana Spencer), ma non affondano nella carne viva del dolore [Fig. 5]. Tutt’altra impostazione per The Crown, più sfacciatamente biop(s)ic, che invece sfrutta le potenzialità compositive del meccanismo seriale sia per dilatare le proporzioni narrative (e melodrammatiche) del ritratto sia per sbilanciare verso l’interno l’indagine sul corpo regale e sullo spazio privato della famiglia Windsor (Pierini, 2022).
A metà strada tra The Queen e The Crown, con i quali evidentemente intreccia una fitta rete di rimandi, The Audience affronta l’enigma della regalità su un piano diverso, che però sembra parlare più fluentemente la lingua del cinema. Prodotto e portato in scena per la prima volta al Gielgud Theatre di Londra nel febbraio 2013 per la regia di Stephen Daldry, la pièce ha potuto beneficiare anche di un fugace passaggio in sala come film evento, mentre una revised version dello spettacolo è stata allestita due anni dopo all’Apollo Theatre con cast completamente rinnovato e Kristin Scott Thomas nei panni della protagonista. Ancora una volta, Peter Morgan sviluppa il nodo dicotomico pubblico-privato (già ampiamente dibattuto in The Queen) partendo dal rapporto tra Elisabetta II e i suoi Primi Ministri. Secondo l’autore, infatti, la situazione dell’udienza reca in sé un potenziale drammaturgico enorme: in una stanza chiusa, due esseri umani sono costretti a ‘parlare’, in virtù dei ruoli pubblici che ricoprono, ma il loro è un incontro completamente privato – nessun altro è presente, il colloquio non viene registrato, ciò che viene detto resta tra le quattro mura [Fig. 6]. In quello che si configura come un paradossale rapporto di terapia, può succedere quindi che si creino delle crepe emotive nell’integrità dei protagonisti e che attraverso il flusso delle parole si liberi qualcos’altro, un racconto diverso, un’ulteriore ipotesi di «fuori campo attivo» (Brogi, 2022), una veduta alternativa, una messa a fuoco sui vuoti, sulle assenze, sugli interdetti, perfettamente compresa nello spazio scenico di una stanza: la fatidica Private Audience Room, situata al primo piano di Buckingham Palace.
Morgan concepisce The Audience in due atti: la cronologia degli incontri non è lineare, alcuni PM vengono solo evocati, altri tornano più volte. Tra aneddoti storici, riferimenti alla politica estera e questioni di protocollo, vediamo scorrere le varie conversazioni in un affascinante montaggio senza soluzione di continuità all’interno del quale la regina funge da raccordo atemporale, mirabile kinetic queen: Mirren passa da un’età all’altra senza quasi mai abbandonare il palcoscenico, gestendo i cambiamenti di look attraverso piccoli giochi di trasformismo che rivelano, ogni volta, un’immagine precisa della regina, uno strato invisibile celato nella pericoresi re(g)al-divistica. L’unica Elizabeth che non può interpretare è la versione young, basica, non ancora scissa: una riottosa piccola principessa, cresciuta in ambiente borghese, che addirittura arriva ad auspicarsi la nascita di un erede ‘maschio’. I dialoghi tra l’adulta e la bambina serbano i passaggi introspettivi più toccanti, in cui il conflitto ruolo-persona si inasprisce: alcuni di essi includono anche un’altra figura femminile, la nanny scozzese Bobo Macdonald, il terzo anello narrativo di una genealogia obliqua su cui l’architettura emotiva sovrana letteralmente si fonda («It’s the Bobo in me») [Fig. 7].
Mentre la voce di Elizabeth riesce a mantenere perfettamente l’intonazione acuta della maestà, rivendicando il privilegio della privatezza, dell’imparzialità, della discrezione, dell’invisibilità, del nascondimento («I don’t wish to be known!»), è la stanza a farsi incubatrice, palinsesto, teatro di memorie. Non a caso, si tratta di un ambiente anacronistico come il salotto, una drawing room – letteralmente una ‘stanza in cui ritirarsi’, dal verbo to withdraw, che in qualche modo richiama anche la suggestione tattile di una mano che traccia una linea, un disegno, o che scrive qualcosa con l’inchiostro. E sappiamo bene che il salotto è uno degli spazi domestici in cui il soggetto femminile ‘ha avuto luogo’ nella storia, attraverso la pratica mondana istituita nel diciassettesimo secolo in Francia da donne come Madame de Rambouillet o Madame de Scudery, che si sono sottratte dalle logiche predatorie, violente e ripugnanti della vita di corte, aprendo le loro dimore private al piacere della galanteria e all’arte della parola, orale e scritta (Craveri, 2001). Pur essendo lontana anni luce dalla celebre ‘camera azzurra’ delle Prétieuses, la Private Audience Room svolge un ruolo altrettanto significativo nella parabola del corpo regale di Elizabeth – sulla scena è poco più che una stanza bidimensionale, un fondale; sono le parole dell’Equerry a rivelarla nel dettaglio, a darle consistenza materica e profondità storica – poiché spalanca lo spazio libero della conversazione: un interstizio commedico rivestito di tappezzeria melodrammatica, in cui il racconto viene, ancora una volta, messo in forma nello stampo dinamico della memoria e i fantasmi possono essere convocati, in parte esorcizzati, mai ‘strangolati’. Forse allora la vera alternativa è quella di ‘farsi’ spettro: sostanza immutabile, permanente, elementare, silenziosa, pronta in ogni momento a uscire di scena per poi ritornare e guadagnarsi l’applauso. Le regine e le dive non fanno altro da secoli [Fig. 8]. Del resto, quando William Shakespeare decide di espellere la regina Ermione dalle stanze del romance (Il racconto d’inverno) e di farla riapparire solo nell’ultima scena sotto forma di statua – una statua viva, perfettamente in grado di risvegliarsi – non ci sta forse suggerendo, nemmeno tanto indirettamente, che ogni regina incarna il radioso simulacro di un’attrice e che nella fierezza della posa dimora sempre un desiderio inestinguibile di libertà, resilienza e ribellione?
Quante volte, del resto, i romanzi, come i film, raccontano spazi da cui protagoniste sconosciute appaiono e scompaiono, mentre man mano scopriamo che le cose e le persone sono diverse da ciò che si credeva a prima vista. È interessante, infatti, notare che proprio questo meccanismo di presenza e sparizione è un motivo simbolico che ritorna soprattutto in finzioni e racconti riguardanti le donne, come se l’elemento femminile, non come essenza ma in quanto alterità, fosse un segno particolarmente efficace per raccontare l’esperienza della vita, e dei suoi significati, in quanto passaggio, metamorfosi, scoperta, cambiamento. Pensare l’Altro, l’Altra, è sempre, del resto, la situazione più creativa di tutte, perché ci ricorda che gli esseri umani, prima di ogni altra cosa, sono creature fatte di narrazioni, e stanno al mondo in modo differente, anche a seconda delle forme in cui si raccontano o sono raccontate. (Brogi, 2022, p. 6)
Post Scriptum. La regina Elisabetta II si è spenta giovedì 8 settembre, nella sua camera da letto del castello di Balmoral, due giorni dopo aver incontrato il suo quindicesimo Primo Ministro: una donna, un’altra Elizabeth (Truss). Queste le parole di commiato su Instagram di Helen Mirren: «I’m proud to be an Elizabethan. We mourn a woman, who, with o without the crown, was the epitome of nobility».
Bibliografia
B. Balázs, ‘L’eroe, la bellezza, il divo e il caso Greta Garbo’, in Id. Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, tr. it., Torino, Einaudi, 2002, pp. 331-335;
R. Barthes, ‘Il viso della Garbo’, in Id., Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1994, pp. 41-43;
D. Brogi, Lo spazio delle donne, Torino, Einaudi, 2022;
G. Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema, tr. it., Milano, Jonah&Levi, 2015;
J.-L. Comolli, ‘Historical Fiction. A Body Too Much’, Screen, n. 19, 1978, pp. 41-54;
B. Craveri, La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi, 2001;
E.A. Ford, D.C. Mitchell (edited by), Royal Portraits in Hollywood: Filming the Lives of Queens, Lexington, University Press of Kentucky, 2009;
C. Jandelli, Breve storia del divismo cinematografico, Venezia, Marsilio, 2007;
A.M. Pasetti, Dio salvi la Regina! Elisabetta II sovrana di iconologia tra fiction e realtà, Milano, Bietti, 2022;
M. Pierini, ‘The Crown. La regina delle serie’, in La grande storia e il piccolo schermo. Strategie di riscrittura nel periodo drama contemporaneo, a cura di A. Bellavita, Milano-Udine, Mimesis, 2022, pp. 87-99;
H. Renders, B. de Haan, J. Harmsma (edited by), The Biographical Turn. Lives in History, London, Routledge, 2016.