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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Tra casa e ‘palazzo’ del governo si dipana una rete di relazioni che attinge al carattere polifunzionale degli edifici nelle loro pratiche d’uso, agli assetti socio-economici e ai regimi simbolici socio-culturali, nella loro mutua interazione. Il contributo intende riflettere sulla messa in scena delle spazialità in questione nella rappresentazione di donne ai vertici del governo della res pubblica proposta dall’attuale serialità televisiva e in narrazioni ambientate nel presente. In particolare ci si soffermerà su due prodotti, la serie danese Borgen e la spagnola Privacy (Intimidad), entrambe attualmente disponibili in Italia su Netflix. Nella loro dislocazione in un Nord e un Sud dell’Europa sono parse infatti offrire una interessante, e talora inattesa, prospettiva di osservazione.

A web of relationships unravels between home and government ‘palace’ that draws on the multifunctional character of buildings in their practices of use, socio-economic arrangements, and socio-cultural symbolic regimes in their mutual interaction. The paper intends to reflect on the enactment of the spatialities involved in the portrayal of women at the top of the Res Publica proposed by current television seriality and in narratives set in the present time. In particular we will focus on two productions, the Danish TV series Borgen and the Spanish Privacy (Intimidad), both currently available in Italy on Netflix. In their dislocation in Northern and Southern Europe they indeed seemed to offer an interesting, and sometimes unexpected, perspective of observation.

Tra casa e ‘palazzo’ del governo si dipana una rete di relazioni che attinge al carattere polifunzionale degli edifici nelle loro pratiche d’uso, agli assetti socio-economici e ai regimi simbolici socio-culturali, nella loro mutua interazione. Come ricorda Carlo Tosco nel suo Il castello, la casa, la chiesa (2003), l’architettura è infatti un fenomeno complesso non certamente riducibile al mero aspetto costruttivo. I due riferimenti architettonici configurano dunque campi dinamici di interazioni, più o meno polarizzate, di cui l’edificio costituisce solo una delle componenti. Singolarmente e nella reciproca tensione, risultano particolarmente sensibili in un’ottica di genere, indagata del resto da una consolidata tradizione di studi. Il contributo intende riflettere sulla messa in scena delle spazialità in questione nella rappresentazione di donne ai vertici del governo della res pubblica proposta dall’attuale serialità televisiva e in narrazioni ambientate nel presente. In particolare ci si soffermerà su due prodotti, la serie danese Borgen - Il potere (Borgen, 2010-2022; S. 4, Ep. 38)* e la spagnola Privacy (Intimidad, 2022; S. 1, Ep. 8), entrambe attualmente disponibili in Italia su Netflix. Nella loro dislocazione in un Nord e un Sud dell’Europa sono parse infatti offrire una interessante, e talora inattesa, prospettiva di osservazione.

 

1. Donne (seriali) al Palazzo del governo

La serialità televisiva è un osservatorio privilegiato per monitoraggi di genere e luogo di promozione di politiche di gender balance, più o meno compiutamente realizzate. Negli ultimi decenni una significativa gamma di proposte è stata incentrata sull’ascesa di donne a ruoli apicali nelle istituzioni pubbliche di governo (Moïsi 2017). Vi si annoverano narrazioni con esplicita matrice biografica ora a valenza documentaristica (tra tutte, il biopic in cinque episodi Thatcher: A Very British Revolution, 2019) ora liberamente ispirate al fascino imperituro di grandi regine e personalità. Di carattere invece finzionale (inteso qui nell’accezione di non direttamente attribuibile a un referente individuale dichiarato), Borgen - Il potere (Borgen, 2010-2022; S. 4, Ep. 38)* e Privacy (Intimidad, 2022; S. 1, Ep. 8) si alimentano di tendenze sociali e cronache contestuali.

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1. Il giallo in bianco e nero

Il rapporto tra letteratura e televisione italiana è antico e prolifico. La RAI rigidamente in bianco e nero, monocanale e pedagogica, è ansiosa di cooptare prodotti provenienti da altri e più nobili ambiti mediali (il teatro, il cinema, l’editoria) in una necessaria operazione di legittimazione nei confronti di una classe dirigente abbastanza scettica sul nuovo medium.

In Italia il romanzo poliziesco nasce negli anni Trenta senza avere alle spalle la solida tradizione del poliziesco inglese, francese o addirittura statunitense, per cui i primi thriller italiani sono ambientati in Paesi stranieri. Tuttavia nella letteratura italiana esiste un modello di riferimento rappresentato da Il cappello del prete (1888), il romanzo di Emilio De Marchi considerato il primo thriller italiano, sulla cui scia si inseriscono alcuni autori che ambientano le opere nel nostro Paese. Tra questi Alessandro Varald, che crea il commissario Ascanio Bonichi, impegnato a dipanare le ombre di una Roma sotto il regime fascista dove le storie si svolgono tra palazzi principeschi e pensioni equivoche, o Augusto De Angelis (ucciso dai fascisti nel 1944), autore di romanzi di qualità incentrati sul personaggio del commissario De Vincenzi, poi in tv sul Programma Nazionale nel 1974 con il volto di Paolo Stoppa. A partire dal secondo dopoguerra altri autori e registi, in una feconda osmosi tra letteratura, cinema e televisione, si dedicheranno al genere poliziesco: Mario Soldati con il film La mano dello straniero (1954) o Carlo Emilio Gadda con il romanzo che lo rese noto al grande pubblico Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana (1957), da cui nel 1983 fu tratta una miniserie in quattro puntate interpretata – tra gli altri – da un gigante Flavio Bucci.

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Nel 2019 è stato pubblicato per Franco Cesati Editore, all’interno di una collana dedicata alla teoria e alla geografia della letteratura e diretta da Federico Bertoni e Giulio Iacoli, il volume Spazio mediale e morfologia della narrazione, a cura di Sara Martin e Isotta Piazza. Il testo ospita gli interventi dell’omonimo convegno tenutosi presso l’Università di Parma nel 2018 nell’ambito del progetto The medial space.

Il punto di partenza (e di destinazione come vedremo) per la storia della nozione di ‘spazio mediale’ ha origine nel campo degli studi letterari. Si ritrova in particolare in una ricerca sulla letteratura di fine Ottocento di Isotta Piazza, Lo spazio mediale. Generi letterari tra creatività letteraria e progettazione editoriale (Cesati, 2018). In questo nuovo volume, però, un gruppo di studiosi e di studiose prova a estendere tale categoria interpretativa a tutti quei media o «format editoriali» che contribuiscono alla «morfologizzazione della narrazione» (p. 9), come il cinema, la televisione e i media digitali.

Si tratta di una formula che va oltre i confini dell’opera. Il concetto di ‘spazio mediale’, infatti, riguarda l’influenza che svolgono sul testo e sul contenuto aspetti materiali e immateriali della produzione come i supporti, i media di riferimento, i generi o le relazioni fra autore, sistema produttivo e pubblico.

È l’idea complessiva che emerge dal confronto delle trattazioni accolte nel libro. Anche se suddivisi in tre sezioni ‒ dedicate rispettivamente a spazio mediale e letteratura, audiovisivo e transmedialità ‒ i saggi contribuiscono singolarmente alla definizione del concetto proponendo l’analisi di un caso di studio. Nei primi due interventi della prima parte Carlo Zanantoni e Isotta Piazza affrontano il rapporto fra editoria e forme brevi, sull’esempio dell’attività di Pirandello per il Corriere della Sera, e i legami tra letteratura e web. Nella seconda sezione Sara Casoli spiega come i personaggi travalichino diversi spazi mediali attraversando più media, dai racconti agli immaginari della serialità contemporanea, seguita da Sara Martin che si concentra sulla rimediazione filmica e seriale del romanzo The Handmaid’s Tale di Margaret Hatwood. Nell’ultima parte, invece, Giulio Iacoli propone un approfondimento sulla transmedialità attraverso l’analisi dell’adattamento di Il giocatore invisibile, film di Stefano Alpini tratto dall’omonimo libro di Giuseppe Pontiggia. Qui si inseriscono anche gli studi di Giulia Benvenuti e Paolo Giovannetti sulle transizioni tra letteratura e cinema di alcune serie italiane come Gomorra, Romanzo Criminale e Suburra. Il segmento conclusivo del volume ospita infine una sintesi degli spunti emersi durante la tavola rotonda affidata a Gianni Turchetta e Mara Santi e al dialogo tra Giulio Iacoli e il regista Stefano Alpini. Turchetta, in particolare, sottolinea che la prospettiva pragmatica dello spazio mediale dei testi letterari o audiovisivi ‒ definita nel corso delle analisi precedenti come l’insieme delle influenze reciproche fra le scelte di produzione, le forme e i temi esposti ‒ emerge con più evidenza in età moderna grazie allo sviluppo dell’editoria ma può essere estesa nel tempo a ogni atto creativo, ciascuno con le proprie peculiarità. Le possibilità di adattamento, traduzione o attraversamento dei contenuti fra spazi mediali diversi, invece, secondo Mara Santi può consentire la creazione di nuove macrocategorie come quella di ‘politesti’, con cui si supera il limite stesso del testo unico. Ma da questo confronto emerge anche, come notano nell’introduzione le curatrici, un’attenzione complessiva a prodotti intermediali situati al confine fra diversi media.

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  • Arabeschi n. 15→

Ecce Video. Tv e letteratura dagli anni Ottanta a oggi di Costanza Melani e Monica Venturini (Firenze, Franco Cesati, 2019) si situa nell’ambito degli studi sul rapporto tra parola e immagine prendendo in esame il tema della televisione nella letteratura italiana, ma anche quella che si potrebbe definire la ‘televisionizzazione’ della scrittura letteraria, legata alla sua progressiva assimilazione di modalità televisive di racconto; non poche pagine, inoltre, sono dedicate alle riscritture televisive della letteratura e alle nuove frontiere della serialità, secondo un articolato approccio intermediale che il volume condivide, ad esempio, con gli atti del convegno catanese del 2013 Una vernice di fiction. Gli scrittori e la televisione (a cura di Stefania Rimini, Catania, Duetredue, 2017).

Dopo la prefazione di Stefano Bartezzaghi, che mette a fuoco l’odio dei letterati non tanto verso «la tv quanto verso le ragioni per cui ci tratteniamo dentro a ciò che più diciamo di odiare» (p. 12), nella Breve – ma fondamentale – premessa Melani e Venturini preannunciano che il discorso sarà di necessità inserito in un più ampio quadro comparatistico cui fa da traino la letteratura statunitense. A partire dagli anni Sessanta, infatti, autori come John Updike, Don DeLillo, Thomas Pynchon hanno saputo magistralmente raccontare la televisione mettendo in evidenza, in maniera realistica o surreale, come essa non sia «solo un elettrodomestico da guardare, ma […] una delle componenti ineludibili della vita, […] un fornitore di storie, di sogni, di ambizioni, di desideri, di immagini» (p. 97), e pertanto un formidabile strumento di potere e di costruzione dell’immaginario. In particolar modo, le studiose fanno leva sulla riflessione di David Foster Wallace per impostare la cornice teorica del volume, specie quando l’autore di Infinite Jest colloca verso la metà degli anni Ottanta la nascita di un nuovo tipo di narrativa postmodernista, la image fiction: gli scrittori progressivamente metabolizzano l’estetica dello zapping e la post-realtà entra nella fiction nei termini (tematici) di un’opacizzazione della differenza tra reale e mediale, come si vede esemplarmente in Glamorama di Bret Easton Ellis (1998).

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