Due sono gli archetipi femminili, le immagini cardine nella vita letteraria di Virginia Woolf connesse allo spazio domestico nel quale vengono relegate le donne: l’angelo del focolare e la pazza in soffitta (Fusini, 2021a, pp. 22-23, pp. 251-252). Sono figure, a mio avviso, che si riflettono come un’ombra sulle protagoniste di Ossessione (1943), La terra trema (1948) e Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti. Pellicole su cui mi soffermo, focalizzando l’attenzione su quel «femminile in movimento» che in letteratura e al cinema, mentre transita da una stanza all’altra, da un campo a un «fuori campo attivo», rende visibile, ma soprattutto reversibile, l’«identità» (Brogi 2022, pp. 6, 80) di genere di cui ci si riappropria.
1. L’angelo del focolare e la pazza in soffitta
Nella numerosa, composita, allargata famiglia d’origine di Virginia Woolf, formata da otto figli, tra maschi e femmine, nati in prime e secondo nozze, ci sono due sorellastre che, concepite nei talami genitoriali pre-vedovanza e precedenti al re-matrimonio, aleggiano come presenze fantasmatiche, l’una angelicata, l’altra demoniaca, tra le pagine, nella mente e nell’anima della scrittrice.
L’una è la «perfetta controfigura della madre […] addestrata» con severità vittoriana per esserne il «braccio destro» o per prenderne il posto lasciato vacante quando costei scompare prematuramente e Virginia Woolf, che è nata a Londra il 25 gennaio 1882, ha solo 13 anni. È appena ventiseienne invece la sorellastra che, volente o nolente, si trova a ricoprire i ruoli di «moglie vicaria» del «vedovo inconsolabile», di madre surrogata della prole orfana e di governante di casa addetta, assieme ai domestici, alla sua organizzazione e gestione. «Impeccabile nell’abnegazione», la «buona Samaritana» (Fusini, 2021a, p. 251) si fa perfetta incarnazione dell’angelo del focolare che Woolf descrive, in Professioni per le donne, come estremamente «comprensiva […] accattivante […] altruista»; eccellente «nelle difficili arti del vivere familiare». Colei che ogni giorno si sacrifica, pronta a «capire e compatire i pensieri e i desideri degli altri» (Woolf, 2011, p. 353), rinunciando ai propri.
Accanto alla «sorellastra buona e bella», ce n’è una che, come nel mito di Cenerentola, è invece brutta e cattiva, o comunque bizzarra. È una «ragazzina dallo sguardo assente e vuoto», che balbetta e urla, dà in escandescenze e ha una «voce strascicata»: è la ‘pazza’, la ‘perturbante’ che la famiglia prima rinchiude in «soffitta», poi in un «istituto di malattie mentali» (Fusini, 2021a: p. 252). Un’altra vittima che, espulsa dalla elegante quanto buia dimora di Hyde Park Gate, nessuno cerca più, alla quale men che mai si pensa, ad eccezione di Virginia Woolf che invece si arrovella la mente temendo di essere affetta da un’analoga follia, dopo la diagnosi di nevrastenia e depressione ossessivo maniacale, il cui ultimo picco fatale è quello che il 28 marzo 1941 la conduce al suicidio per annegamento.
The angel in the house/l’angelo del focolare e the madwoman in the attic/la pazza in soffitta sono modelli femminili, l’uno idealizzato, l’altro marginalizzato, tanto familiari quanto letterari, narrati rispettivamente nell’omonimo poema del 1854 di Coventry Patmore e nel romanzo del 1847 di Charlotte Brontë, Jane Eyre, (cfr. Fusini, 2021a, p. 22, 252; Gilbert, Gubar, 2000) che Virigina Woolf, accanita lettrice, conosce a menadito, e dalle cui lusinghe cerca di liberarsi compiendo, soprattutto nel primo caso, un autentico matricidio (Fusini, 2021, pp. 188-189). Reato che confessa, in legittima difesa di sé stessa e del gender di cui diviene tra le voci più rappresentative del femminismo del XX secolo, nel gennaio del 1931, durante un discorso tenuto davanti a una platea di sole donne alla National Society for Women’s Service. Qui, pubblicamente, si dichiara colpevole per aver dovuto simbolicamente uccidere sua madre, che altrove definisce la «cattedrale della sua infanzia» (Woolf 2020), pur di non soccombere a quel «modello di donna tutta bontà e generosità e comprensione e dolcezza e bellezza», già imposto alla sorellastra, e che avrebbe finito per strozzare la sua vocazione letteraria (Fusini, 2021b, p. 226). Contro quella immagine di soave e sacrificale abnegazione, scrive ancora in Professioni, scaglia il suo «calamaio» (Woolf, 2011, p. 354) - presumibilmente il «buffo calamaio di fattura cinese» nel quale intinge il suo «pennino» (Fusini, 2021b, p. 50) - temendo «l’ombra della sua ala sulla pagina, o la luce della sua aureola» (Woolf, 2011, p. 354)
2. Una stanza tutta per sé: studio e cucina
Liberarsi del fantasma però non basta, perché per emanciparsi davvero le donne devono poter conquistare uno spazio domestico tutto loro, indipendente dal resto e dagli altri, come afferma Virginia Woolf nel 1929 in Una stanza tutta per sé. «Se vuole scrivere romanzi, una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé» (Woolf, 2021, p. 50): «uno spazio separato, sottratto agli obblighi familiari e alle attese patriarcali» (Fusini, 2021a, p. 255). Ciò per lei vuol dire, una volta abdicato definitivamente al ruolo di figlia, traslocare con i soli consanguinei, separati dai fratellastri, a Bloomsbury, per poi rinegoziare in seguito, da sposata, nella duplice veste di moglie-scrittrice, la costruzione-ristrutturazione di «una camera da letto con un salottino, o studiolo tutto suo», dotata di un’entrata indipendente, ma senza «porta né corridoio» comunicanti con il resto di Monk’s House, la «casa di campagna» che condivide con il marito Leonard (Fusini, 2021, p. 256).
The room/la stanza, quale «parola chiave del lessico woolfiano», rappresenta il simbolico spazio, centrale nel pensiero teorico oltreché nell’immaginario romanzesco dell’autrice, che, in senso più ampio, si custodisce e si difende per autoaffermarsi, trasformando la propria «identità» (Fusini, 2021, p. 255) di genere, oltre i canoni e gli stereotipi.
Una delle «convenzioni letterarie» che Virginia Woolf si prende la libertà di «sfidare» è quella del cibo che, osserva ancora in Stanza, i romanzieri maschi non nominano mai, «come se zuppa, salmone e anatra non avessero nessuna importanza, come se nessuno fumasse mai un sigaro o bevesse un bicchiere di vino», mentre è esattamente il contrario e «una buona cena» è fondamentale se si vuole «pensare bene, amare bene, dormire bene» (Woolf 2021: 61 e 73). Sorvolando qui in merito al cibo nella vita e nella malattia della scrittrice, vi è anche un altro spazio domestico, oltre al suo studio, di cui felicemente si riappropria, sempre a Monk’s House, ossia la cucina. Stanza che descrive come un antro oscuro, infernale e insalubre nella villa vittoriana della sua infanzia, quale regno materno oltreché una gabbia per i servitori (cfr. Woolf, 2020), e che invece diviene per lei, negli ultimi anni della sua vita, un luogo di libertà che, svuotato dei domestici, impara a governare insieme a Leonard, mettendo alla prova le doti culinarie, sperimentando ogni volta il gusto «di inventare una cena» (Chicco Vitzizzai, 2006, p. 14).
3. Il cibo e l’accudimento materno: La terra trema e Rocco e i suoi fratelli
Raramente «simbolo […] evolutivo», più comunemente «ambivalente», la cucina, che per Virginia Woolf diviene uno spazio «attivo e creativo» (Guiducci, 1993, p. 19), costituisce in genere quel «recinto di minorità», prigionia, segregazione in cui la donna, servile e accudente, viene perlopiù messa e tenuta, «silenziando[ne] la presenza» (Brogi, 2022, p. 13, p. 28).
Come accade in La terra trema nel fotogramma riproposto [fig. 1] dove la soluzione tecnico-formale di regia, più volte ripetuta nel film, evoca l’effetto «quinta» mediante il quale «un personaggio o […] una parte del suo corpo» apre il sipario, come a teatro, su quanto avviene in profondità di campo, neutralizzando sé stesso in primo piano, sulla ribalta della scena. Il che in questo caso riguarda la figura materna inquadrata lateralmente, di spalle; una silhouette, una sagoma vestita di nero che si vede rifiutare da suo figlio ‘Ntoni il piatto di pasta appena allungato. Un «rifiuto» che i fratelli Valastro rivolgono più che altro all’«ordine vigente», in segno di protesta e volontaria «negazione dell’esistente», per il quale non intendono ingoiare la solita «minestra quotidiana» (Zagarrio, 2011, p. 79, p. 81), il consueto boccone amaro. Non vogliono più prestare il fianco ai soprusi inflitti dai grossisti ai pescatori sfruttati di Aci Trezza, nota location della pellicola ispirata ai Malavoglia di Giovanni Verga (cfr. Micciché, 2006 e 1996).
Una doppia dissolvenza ci introduce in Rocco e i suoi fratelli nel seminterrato di Lambrate, dove appare perfettamente ricreata l’originale cucina lucana all’interno della prima delle tre abitazioni che scandiscono anch’esse, insieme al resto e a molto altro, il percorso di integrazione migratoria della famiglia Parondi, che poi si trasferisce provvisoriamente nel casolare degli sfollati fino sistemarsi definitivamente nell’ultima casa di ringhiera ai piani alti. Dimora più dignitosa, ampia e luminosa, anche quando nel finale a irrompere è l’ombra della tragedia e i festeggiamenti per la vittoria di Rocco sul ring vengono interrotti da Simone al culmine dell’autodistruzione. Il personaggio interpretato da Salvatori disgrega definitivamente quel ‘gruppo di famiglia in un interno’ immortalato nella già ricordata sequenza dello scantinato, in una fotografia appesa al muro che la cinepresa ci lascia intravvedere in un articolato movimento di duplice panoramica, combinata a un carrello indietro, al quale affida la descrizione dello spazio domestico. È una stanza angusta e ricolma di oggetti: utensili da cucina appesi alle pareti, trecce di aglio e filari di pomodori secchi, pentolini, fiaschi di vino, brocche d’acqua e molto altro; e su una madia fa mostra di sé il ritratto della famiglia ancora integra, unita e stretta attorno a mamma Rosaria, prima della vedovanza (cfr. Carpiceci, 2020). È lei, la «donna lucana energica, forte [e] testarda» (Carancini, 1960, p. 211), che più di ogni altro desidera emigrare e, una volta «sepolto il marito», sceglie di trasferirsi a Milano, «di intraprendere il […] viaggio», imponendo la sua «decisione […] immediata e perentoria» ai figli (Cardone, 2012, p. 106), dai quali non intende separarsi, sovvertendo il consueto ruolo materno in quello di matriarca. Così Rosaria «trattiene nelle proprie mani le mani» dei figli, altrimenti sospesi «nel vuoto», sul «precipizio dell’insensatezza», pensando però più che altro a sé stessa, a «coltivare il 'proprio'» (Recalcati, 2017, p. 19, 23 e 27), assecondando quelle personali aspirazioni e ambizioni che saranno poi il suo castigo.
Ben più ciarliera della madre dei Valastro, sia pure nello stesso atto di sfamare i figli con caffellatte caldo, uova fresche e fette di pane appena sfornato [fig. 2], Rosaria incita all’alba, al risveglio nel sotterraneo, i suoi quattro maschi adulti ad uscire di casa per andare a spalare la neve scesa in città; e poi richiude in fretta la porta per difendersi dal freddo, rimanendo prigioniera di uno spazio domestico del quale è pur sempre la vestale, la sacerdotessa dal forte ascendente, almeno fin qui, di indottrinamento della prole.
4. Lo spazio della metamorfosi femminile: la cucina di Ossessione
«In un mondo in cui infuriano la miseria e la disoccupazione», come quello della guerra e del secondo dopoguerra del Novecento, accade che la prostituzione aumenti per quelle donne inizialmente impiegate come «domestiche», come «serve» e del resto basta dare «un’occhiata alla ‘stanza della donna di servizio’» per ritrovarvi «una spiegazione sufficiente»: «sfruttata, soggiogata, trattata come oggetto piuttosto che come persona, la donna tuttofare, la cameriera», che «non spera in nessun futuro miglioramento della sua sorte […] dalla schiavitù domestica […] scivola verso [un’altra] schiavitù» (de Beauvoir, 2016, pp. 547-548).
Viceversa per Giovanna in Ossessione accade esattamente il contrario, anche se poi il suo desiderio di libertà cova «sotto le ceneri dei focolari», sfrigola «nei pentoloni», esplode in camera da letto (Kristeva, 2016, p. 9), tanto da indurla a licenziare come Woolf la cuoca, ovvero se stessa, negando di essere tale («Non sono una cuoca io»), non appena il bel vagabondo Gino si affaccia nella sua cucina da dove, come moglie del vecchio e laido Bragana, titolare della pompa di benzina e della locanda, provvede a rifocillare gli avventori.
L’incontro è folgorante e avviene mediante uno scambio e un ribaltamento dello sguardo sul quale in molti hanno ampiamente dibattuto, senza che occorra qui dilungarci troppo, evidenziando come vi sia da parte di Visconti un rovesciamento nella «concezione di gender più tradizionale», rispetto sia al romanzo di ispirazione, The postman always rings twice/Il postino suona sempre due volte (1934) di James Cain; sia al soggetto dal titolo provvisorio di Palude, che prevedeva un Gino più intraprendente e una Giovanna meno fatale. Nel film, come nel testo letterario, accade che Frank veda per primo Cora, senza che lei quasi lo noti (Giori, 2011, pp. 45, 48). L’attrazione, il desiderio erotico, la pulsione sessuale, unita al «piacere visivo» (cfr. Maulvey, 2013), è qui femminile, prima ancora che maschile.
Nell’incipit della pellicola, mentre si corre lungo le strade polverose nel nordest padano, fermandosi a stento per bere un bicchiere di vino durante il rifornimento di gasolio, solo Gino, il giramondo, entra lentamente, trascinandosi sui suoi passi, nello spaccio dei Bragana. Si avvicina al bancone, si affaccia sul retro, fa sentire la sua voce, ancor prima che il suo volto si riveli a noi spettatori, ma soprattutto a Giovanna che ne subisce il fascino di un autentico coup de foudre, mentre lui, dal fuori campo-in campo, le chiede: «Si mangia qui? Ti domando se si mangia qui». È la prima frase che pronuncia entrando in scena, fulminato da uno dei movimenti di macchina più celebri della storia del cinema italiano, in quella cucina che da ora in poi e per il resto del film diviene un luogo simbolicamente destinato ad altro. Si muta infatti in spazio della seduzione, quando Giovanna di lì a poco paragona le spalle nude del giovane in canottiera con quelle di un cavallo [fig. 3]; si configura poi come perimetro di un impraticabile menage à trois, nella sequenza del temporale e dei miagolii strazianti dei gatti in amore in fuori campo [fig. 4]; e, ancora, è qui che Giovanna cede alla stanchezza, al termine della «festa in trattoria», addormentandosi sul tavolo con un piatto «di minestra di cavoli e patate» (Glebb Miroglio, 2010, p. 21) in mano [fig. 5], mentre ad affievolirsi è la passione dei due diabolici amanti che, già colpevoli dell’omicidio del marito di lei, momentaneamente si allontanano.
Femme fatale, tenebrosa, manipolatrice, adultera e uxoricida, Giovanna è una tipica donna noir dallo «sguardo allucinato e retroflesso», pervasa da quel lato «oscuro» (Jandelli, 2016, p. 57, 66) che attrae gli uomini, ma al contempo fa «paura». È la matta chiusa non più in the attic/in soffitta, bensì in the kitchen/in cucina; l’ex donna di strada che ottiene «visibilità […] da outsider […] borderline» (Brogi, 2022, p. 29). Il suo «desiderio di ribellione» (Jandelli, 2016, p. 57) è tale da rompere, oltreché con il cinema sotto il fascismo inaugurando l’aurea stagione del neorealismo, con lo «spazio familiare» e matrimoniale, soffocante e claustrofobico, nell’istante in cui permette a «presenze impreviste», estranee e forestiere, come Gino, l’ingresso nel suo spazio chiuso, innescando un processo di metamorfosi femminile finanche corporeo (la maternità), che sembra poterle schiudere la vita a nuove sorprese (Brogi, 2022, p. 109), se non fosse che il fato, lo sappiamo, le sbarra la strada con la morte.
Bibliografia
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