1.9. Appunti sulla teoria della recitazione vista (e scritta) da Elsa de’ Giorgi*

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Il vasto campo di studi inaugurato dalle ‘divagrafie’, ovvero dalla mappatura e dalla interpretazione delle scritture delle attrici, si configura come un terreno d’indagine di notevole complessità, sia sul piano strettamente letterario che a livello extra-testuale. Uno sguardo agli aspetti che entrano in gioco nell’esame delle opere delle dive che hanno intrecciato al lavoro attoriale anche l’attività di scrittura, fa vedere quanto vari e molteplici siano i generi letterari coinvolti, le modalità di rappresentazione delle personagge, i percorsi artistici delle attrici, i contesti culturali in cui si sono trovate ad operare. All’interno di una prospettiva che, nel confronto con oggetti di studio ibridi, intermediali, di non facile collocazione entro le coordinate stesse della teoria letteraria,prova a ripensare e a ridefinire i propri strumenti ermeneutici, è però rintracciabile un sostrato comune.[1] Lungo una produzione che, allo stato attuale delle ricerche, prende avvio nel 1950 con la pubblicazione di Shakespeare e l’attore e si conclude con il romanzo Una storia scabrosa del 1997 [fig. 1], anno della morte dell’attrice-scrittrice, non sono poche le dimostrazioni di uno sconfinamento ‘audiovisivo’ della pagina scritta, cioè di una rilettura da parte dell’autrice della propria carriera attoriale e dunque di uno sporgersi della prosa verso il linguaggio cinematografico; così come marcata risulta, in diverse opere, la dimensione autobiografica della scrittura. Basti pensare – come sintesi delle due caratteristiche menzionate e come punto di convergenza con la categoria della divagrafia, che pone l’accento sulla diffusa matrice metatestuale delle scritture del sé – a uno dei libri più noti di de’ Giorgi, I coetanei (1955), che riunisce in un’unica tessitura diegetica una componente autobiografia, inevitabilmente connessa con il carattere performativo del lavoro dell’artista, e una rievocazione memoriale e romanzata della Resistenza.

A partire da queste rapide premesse, il contributo prova a perlustrare alcune prove letterarie dell’attrice-scrittrice e a individuare una possibile ulteriore declinazione dei contrappunti tra la pagina e lo schermo, legata non soltanto alla trasfigurazione in chiave narrativa delle esperienze attoriali di de’ Giorgi, ma anche alla riflessione sulla teoria della recitazione. Più in particolare, è proprio dalle tracce del discorso teorico sull’attore e sulla performance presente in Storia di una donna bella che l’analisi prende le mosse, nel tentativo di verificarne una più ampia fecondità critica in relazione all’itinerario autoriale dell’artista [fig. 2].

Figura principale del romanzo del 1970 è Elena, una giovane attrice di cinema che allo scoppio della Seconda guerra mondiale comincia a recitare per il teatro. Il romanzo richiama, dunque, la parabola artistica di de’ Giorgi – la quale esordisce nel 1933 nel film T’amero sempre di Mario Camerini e nei primi anni Quaranta inizia il lavoro di attrice di teatro nella compagnia Pagnani Ricci – e nel paragone tra le due esperienze lascia emergere un cruciale scarto di senso. La prima parte del romanzo, quella in cui si narra dell’impatto di Elena con la macchina del cinema,insiste sulla disgregazione del corpo dell’attrice e su una sua partecipazione al processo creativo che accompagna le varie fasi di realizzazione di un film resa impossibile dallo stesso dispositivo cinematografico, dalle tecniche di ripresa al montaggio. Come dichiara la voce narrante in una delle pagine iniziali, «le capitava proprio in proiezione di sentir parlare di sé come se non ci fosse. La sua persona veniva scomposta in particolari alla stregua di un oggetto smontabile» (de’ Giorgi 1970, p. 12). Non sarà così nel momento in cui la protagonista passerà al teatro; laddove il cinema si caratterizzava per «la conclusione data al di fuori di ogni travaglio individuale per l’interprete» (Ivi, p. 116), «l’arduo esperimento teatrale», al contrario, pone ad Elena «rigorosamente la coscienza dei propri mezzi espressivi» (Ivi, p. 115), nel contatto diretto con il pubblico e nella necessità della sua presenza fisica sul palcoscenico.

A leggere questi brani vengono in mente alcuni passaggi de Le Star di Morin relativi alla differenza tra la recitazione teatrale e quella cinematografica. «Si può dire che l’attore teatrale», spiega lo studioso, «benché il carattere della sua recitazione sia stato stabilito durante le prove, sia l’arbitro di se stesso sulla scena. L’attore cinematografico viene costantemente diretto nelle varie scene disperse e frammentarie che gira: segue i segni in gesso dell’operatore, imposta la sua voce secondo le istruzioni del tecnico del suono, mima i gesti del regista. Questa disciplina rende automi» (Morin 1972, p. 130). Ma in Storia di una donna bella c’è un altro dettaglio che ci aiuta a comprendere le dinamiche di evoluzione della figura di Elena e che si presta anche ad essere collocato, se lo osserviamo in controluce con altre opere di de’ Giorgi, all’interno di una rete di riferimenti intertestuali, e riguarda la rilevanza riservata al tema della voce. «Ora c’era una voce e basta» (ivi, p. 113), afferma con decisione la narratrice nella terza parte del romanzo, nel momento in cui il severo training attoriale di Elena si coagula intorno alla centralità di un aspetto della grammatica della performance che, in quanto «studentessa diligente» (ivi, p. 116), ‘ossessiona’ la protagonista. Si tratta di un nucleo tematico che, facendosi sintomo di una significativa pregnanza semantica, tornerà ad occupare i capitoli centrali di Ho visto partire il tuo treno (1992) [figg. 3-4], dedicati al racconto proposto dalla narratrice – sulla scorta dell’espediente narrativo del colloquio con Italo Calvino sviluppato nel testo – relativo alla scoperta, al cospetto delle scene teatrali, della sua «voce vera» (de’ Giorgi 2017, p. 146). A fare da filo conduttore tra due testi così lontani nel tempo è il richiamo esplicito a un determinato background teorico, ossia la citazione, in entrambe le opere, del metodo Stanislavskij. Nel romanzo Storia di una donna bella il sistema del maestro russo è definito «Vangelo dei giovani» attori e viene seguito «imparzialmente» dalla protagonista, la quale «studia pedantemente dizione. Emissione controllata della voce recitando a sillabe scandite lunghi brani dell’Iliade in greco» (de’ Giorgi 1970, pp. 116-117). In maniera analoga, in Ho visto partire il tuo treno la narratrice, evidente proiezione autobiografica di de’ Giorgi, confessa che «per iniziare il teatro, […] si era applicata agli esercizi consigliati da Stanislavskij sui primi versi di Omero dell’Iliade» (de’ Giorgi 2017, p. 162).

Non verrà affrontata in questa sede la divagazione relativa alle possibili influenze delle tesi del regista russo nei passi in cui, all’interno dei testi di Elsa de’ Giorgi presi in esame, si accenna al rapporto dell’attore con il personaggio, che pure potrebbe rappresentare un’affascinante ipotesi di lettura se si pensa ai brani in cui l’autrice sfiora l’argomento dell’‘immedesimazione’ dell’interprete, del suo farsi altro da sé (cfr. de’ Giorgi 1970, p. 31; de’ Giorgi 1992, pp. 142, 161-162). Ciò che qui si cercherà di richiamare è piuttosto il rilievo tributato da Stanilavskij alla voce nel suo fondamentale Il lavoro dell’attore su se stesso:

 

Essere in voce: è il massimo della felicità sia per il cantante, che per l’attore. Sentire che il suono obbedisce, rende ogni dettaglio, ogni passaggio, ogni sfumatura.
Non essere in voce: che tormento! […] Non riuscire ad esprimere quello che pure vive dentro di te, chiaro e profondo, sgorgato invisibilmente dalla tua forza creatrice interiore. Solo l’attore conosce questo tormento: solo egli sa che cosa è maturato nel segreto del suo animo e che può esprimere soltanto con la voce e le parole. […]
Quando un attore arriva sulla scena deve poter disporre di tutti i suoi strumenti creativi, e la voce è uno dei più importanti (Stanislavskij 2020, pp. 326-327).

 

Alla luce di una ricerca attenta alla «forza creatrice interiore» dell’attore e di una concezione della sua voce come mezzo ‘creativo’ deputato all’espressione di tale intima e profonda energia, sembrano risuonare le parole impiegate in Ho visto partire il tuo treno per evidenziare, ancora una volta, i limiti della recitazione per il cinema: nelle riflessioni dell’io narrante, «il condizionamento della tecnica, della regia che sostituivano a mio parere ogni iniziativa interpretativa individuale mi aveva persuasa che essere attrice significava sentirsi responsabile del personaggio nella sua unità» (de’ Giorgi 1992, p. 152).

Sulla base dei passi riportati si comprende, dunque, come la dimensione critica, «interpretativa», del mestiere degli attori e delle attrici possa essere stata intercettata da de’ Giorgi, anche a livello teorico, e rivendicata con forza dall’autrice attraverso la sua produzione letteraria. Da questo punto di vista, il romanzo Storia di una donna bella offre un esempio di estrema eloquenza. Tra gli episodi in cui il regista e le maestranze non badano alla protagonista o non si accorgono del suo arrivo sul set (cfr. de’ Giorgi 1970, pp. 12, 18) e il momento in cui Elena si appropria di una diversa competenza recitativa sulle scene teatrali scorre sottotraccia il racconto della progressiva acquisizione di una soggettività, giocata anche sulla dialettica che lega l’assenza del corpo a una sua consapevole presenza. «L’esercizio giornaliero, ripetuto per ore, le irrobustì la voce con rapidità sorprendente, e con la voce acquistò il coraggio fisico per muovere naturalmente la sua persona sul palcoscenico» (de’ Giorgi 1970, p. 117), si specifica ancora nella terza parte del romanzo, lasciando emergere un principio di autodeterminazione dalla doppia natura; la voce si scioglie in tema, come è stato già evidenziato, e quindi si situa sul piano dell’interpretazione del testo, ma può anche essere assunta come effettiva pratica attoriale e, parallelamente, autoriale.

Uno sguardo a ritroso lungo il macrotesto di de’ Giorgi restituisce altri esempi di un interesse rivolto a un’attiva partecipazione dell’interprete alla costruzione del senso di un’opera drammaturgica. A tal proposito, tra le scritture saggistiche merita particolare attenzione lo scritto La lezione della Duse all’attore contemporaneo. In questo contributo, pubblicato alle soglie degli anni Sessanta, l’autrice mette in discussione alcune valutazioni stereotipate consolidatesi intorno alla recitazione di Eleonora Duse, come la presunta natura istintuale o il ‘dannunzianesimo’ della sua arte attoriale, e riporta invece l’attenzione sulla «facoltà critica» (de’ Giorgi [1960], p. 1772) dell’attrice e sull’apporto di Duse alla cultura del suo tempo. Nel saggio in questione, inoltre, appare interessante notare come de’ Giorgi riesca a intrecciare alle riflessioni relative alla carriera della divina i punti di tensione del proprio ruolo artistico e sociale. Mentre discute dell’idea di una tecnica recitativa che esclude ogni automatismo e critica il sorriso e la diffidenza mostrati dalla critica rispetto all’intellettualismo di Duse, la scrittrice ruota lo specchio su di sé e traccia delle considerazioni che sembrano quasi adombrare una coscienza di genere:

 

Questo concetto di grossolana romanticheria della donna – attrice sgrammaticata, tutto istinto e divinazione che ancora oggi ci perseguita, è un po’ repugnante alla nostra morale per farne qui facile polemica.
Ma certo si è che discutere della Duse sotto questo aspetto a cento anni dalla sua nascita e doverla difendere da questo sorriso che […] si sente però aleggiare spesso su altre delle più reverenti critiche del suo tempo, è per me, donna-attrice e sinceramente interessata ai problemi e alla cultura della propria epoca e del proprio lavoro, molto sconsolante (de’ Giorgi [1960], p. 1774).

 

La campionatura potrebbe continuare e attingere ad argomentazioni situate addirittura agli albori dell’attività letteraria di de’ Giorgi, come testimonia il riferimento all’attore quale «parte integrante della […] creazione» del drammaturgo contenuta nel saggio Shakespeare e l’attore (de’ Giorgi 1950, p. 15). Ai testi dell’attrice-scrittrice, inoltre, si potrebbe affiancare un’indagine in grado di muoversi nello spazio di azione autoriale che l’artista ha ritagliato per sé, a partire dagli anni Settanta, attraverso il lavoro di regia, in un percorso che, anche solo sulla base della sintetica mappa fin qui abbozzata, presuppone un grado di consapevolezza non trascurabile.

Seguendo il sentiero tracciato dai rimandi teorici sulla recitazione nelle scritture di Elsa de’ Giorgi, il discorso vira dunque verso il teatro e invita ad allineare lo sguardo al filo ininterrotto dell’impegno artistico dell’autrice che, in relazione al suo mestiere di attrice, ha dedicato le sue migliori energie al palcoscenico dopo essersi affermata come diva del grande schermo negli anni Trenta. Tuttavia, pensare al cinema come a una grande rimozione nella carriera di de’ Giorgi rischierebbe di risultare fuorviante dal punto di vista critico. Che la prospettiva adottata prenda l’abbrivio dalla pagina, dalla pellicola o dalle scene teatrali, ciascuno di questi linguaggi mostra una vigorosa resistenza ad essere studiato come codice isolato e una tendenza ad eccedere, al contrario, i limiti della propria struttura. Ci si chiede pertanto se non sia più proficuo, invece, considerare la trasversalità del discorso teorico proposto dall’attrice-scrittrice e di una ‘voce’ che – proprio in forza delle linee di attraversamento che danno vita a un dialogo tra la letteratura, il cinema e il teatro – continua a esprimersi.

 

Bibliografia

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K.S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore su se stesso [1938], a cura di G. Guerrieri, Roma-Bari, Laterza, 2020.

K.S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore sul personaggio [1957], a cura di F. Malcovati, Roma-Bari, Laterza, 2021.

 

*Questo articolo nasce nell’ambito del progetto di ricerca PRIN (bando 2017): Divagrafie. Drawing a Map of Italian Actresses in writing // D.A.M.A. / Divagrafie. Per una mappatura delle attrici italiane che scrivono // D.A.M.A., che vede come Principal Investigator Lucia Cardone (Università degli Studi di Sassari) e come responsabili delle altre unità coinvolte nel progetto Anna Masecchia (Università di Napoli Federico II) e Maria Rizzarelli (Università degli Studi di Catania).


1 Per la prima messa a fuoco delle costanti relative alla produzione delle attrici-scrittrici e per una visione d’insieme dedicata a una serie di casi esemplificativi si rinvia senz’altro ai saggi di Maria Rizzarelli (Rizzarelli 2017; Rizzarelli 2021) e ai contributi del convegno FAScinA del 2019 raccolti, con la curatela di Lucia Cardone, Anna Masecchia e Maria Rizzarelli, nella galleria virtuale del quattordicesimo numero della rivista Arabeschi; ciò che qui si intende riconfermare, in via preliminare, è la piena consonanza di tale orizzonte critico con i testi di Elsa de’ Giorgi.