Salò o le 120 giornate di Sodoma costituisce per Pasolini una prima volta sotto tanti punti di vista. E non potrebbe essere altrimenti, dato che il film segna l’inizio di un nuovo corso a seguito della più famosa abiura nella storia del cinema, che con un colpo di penna prende le distanze dalla ‘Trilogia della vita’ degli anni Settanta, ripartendo piuttosto dalla produzione della fine del decennio precedente, Teorema (1968) e in parte Porcile (1969). Come noto, la distanza nasce da un’esigenza poetico-politica dopo il pieno riconoscimento di quella ‘mutazione antropologica’ occorsa in Italia con l’avvento della società dei consumi, al punto da spingere Pasolini a commentare, in riferimento a Salò: «è la prima volta che affronto il mondo moderno in tutto il suo orrore» (Pasolini 2001c, p. 3025). È un orrore, quello del mondo moderno, che travolge tutti gli aspetti del reale, inclusi gli stessi «innocenti corpi» (Pasolini 1999e, p. 600) dei ragazzi di borgata che il regista aveva messo in scena sino a Il fiore delle Mille e una notte (1974). Questo orrore, presumibilmente, non si limita a influenzare la dimensione contenutistica dell’opera, ma è capace di intaccare lo stesso piano dell’espressione filmica: e proprio nella dimensione attoriale dell’ultimo film sembra possibile rinvenire ulteriori tracce di quella riflessione su politica e società che Pasolini stava conducendo.
1. Il casting come creazione
Per un regista abituato a lavorare con attori non professionisti scritturati dopo incontri fortuiti o casting informali (cfr. Pasolini 1999f, p. 1514), è lecito aspettarsi che la radicale trasformazione da lui lungamente descritta assuma anche i contorni di un ripensamento del processo creativo. Pasolini stesso ne dà conferma più o meno esplicita durante un’intervista per la Televisione della Svizzera Italiana quando – alla domanda sui modi in cui il ricorso ad attori non professionisti influenzi il suo lavoro – traccia una netta demarcazione tra la sua opera in generale e Salò: mentre in passato il suo lavoro consisteva nel «raccogliere il materiale» per arrivare a «quel momento di verità che può essere lampeggiato nello sguardo, nel sorriso» durante le riprese, quest’ultimo film è invece «già girato, già montato», richiedendo «maggiore professionismo da parte degli attori» (Pasolini 2001b, p. 3016).
Letta fra le righe, questa dichiarazione evidenzia di un mutamento profondo nel suo approccio creativo. In un’intervista con Gideon Bachmann e Donata Gallo dell’agosto 1975, Pasolini individua infatti nella scelta del cast il crinale tra «il momento in cui l’autore pensa e scrive il film» e «il momento in cui lo gira» (Pasolini 2001c, p. 3029) che prelude alla realizzazione dell’opera nella pienezza delle sue intenzioni, il punto di maggiore fibrillazione della sua attività registica, la soglia sulla quale sente di vivere completamente l’opera in costruzione attraverso la ricerca delle facce che ha pensato per il film:
La ricerca dell’attore è la cosa che mi prende perché in quel momento io verifico se le mie ipotesi sono state arbitrarie: cioè se ad una fisionomia che ho immaginato, corrisponde effettivamente il carattere che immagino debba avere. Quando ho bisogno di attori, che siano scanzonati, furbi, smaliziati, ma ancora un po’ incerti e un po’ buffi, non cerco dei giovani attori appena usciti dall’Accademia che rifacciano magari a stento il verso a quelli che invece vivono in una borgata di periferia e sono realmente così! Più semplicemente vado appunto in una borgata romana e cerco dei ragazzi che interpreteranno, in un certo senso, se stessi. Quando invece ho bisogno di qualcuno che reciti una parte più complessa allora faccio ricorso all’attore professionista, ma riduco questa scelta sempre al minimo indispensabile (ivi, p. 3030).
Il momento del casting non consente però soltanto di realizzare fedelmente il portato immaginativo della fase di progettazione attraverso la verifica delle ipotesi di partenza, ma anche di allargare l’orizzonte di senso del lavoro verso territori non necessariamente previsti, «perché il film, senza esserci ancora, comincia a fissarsi in queste facce che trovo e che a volte sono così autentiche da suggerirmi cose nuove, utili per il film» (ibidem).
La scelta degli attori rappresenta dunque per Pasolini una fase di piena creazione artistica che in Salò – film già girato e montato – sembra diventare puramente accessoria, probabilmente perché quel ‘materiale’ che avrebbe dovuto poi essere elaborato in fase di montaggio risulta irrimediabilmente compromesso da quel «genocidio ad opera della borghesia nei riguardi di determinati strati delle classi dominate» (Pasolini 1999b, p. 511). Viste la nettezza delle posizioni pasoliniane in merito al rifiuto verso i giovani sottoproletari prima tanto amati e la centralità della selezione degli attori nel processo di creazione filmica, stupisce il fatto che nelle interviste e nelle dichiarazioni che accompagnano la lavorazione del film tale nodo non sia mai affrontato, come se ci fosse uno scollamento tra il Pasolini regista e il Pasolini polemista.
2. Salò, o del fare un film
Seppure non esistano tracce scritte di questa presumibile ‘crisi’ nel metodo interno al processo creativo pasoliniano, sembra però essere proprio Salò a fornire indicazioni preziose circa una nuova poetica dell’attore in Pasolini nell’epoca successiva alla ‘scomparsa delle lucciole’. Vale la pena a questo punto ritornare sull’esplicita dimensione metafilmica dell’opera, già peraltro ampiamente notata. L’elemento più evidente è senza dubbio il vero e proprio casting che coinvolge le vittime da reclutare: ragazzi e ragazze sono riuniti in ambienti separati, passati in rassegna, analizzati e giudicati, e infine scelti o scartati [fig. 1]. Lo stesso – seppur in forma più sintetica – avviene con i collaborazionisti prima e – implicitamente – con le tre narratrici e la pianista: una lunga fase di selezione che occupa la prima parte del film. Tuttavia, l’analogia non sembra fermarsi a questa sequenza. Il film inizia infatti con un quaderno che circola tra i quattro signori protagonisti con un insieme di prescrizioni che conducono al coronamento della preparazione del piano, come dice il Duca (Paolo Bonacelli) ai suoi sodali subito dopo il matrimonio incrociato con le rispettive figlie, tenendo il quadernino tra le mani. ‘Regolamenti’, si legge sulla copertina, ma ‘copione’ potrebbe forse essere un valido sostituto, dato che il piano in questione consiste nei fatti nel far assumere posture sulla base di una serie di indicazioni narrative il cui canovaccio è esattamente il contenuto del quaderno, come emerge dalla lettura dal balcone della villa alle vittime e ai collaborazionisti che espone le linee di condotta generali da tenere nelle giornate successive. È da qui che inizia il film vero e proprio, cioè la realizzazione del piano di cui fa menzione il Duca.
Se si considera la struttura di Salò – costituita da un antinferno, un corpo centrale di tre gironi e una coda che rimane in relazione incerta di inclusione-esclusione con l’ultimo girone, quello del sangue, nella quale le torture e i supplizi si trasformano in spettacolo – si può facilmente constatare un’omologia con la tripartizione canonica della realizzazione filmica, scrittura o pre-produzione, riprese o produzione, montaggio o post-produzione, tra l’altro menzionata esplicitamente da Bachmann e Gallo nell’intervista citata in precedenza. Il momento della produzione è propriamente ciò che si svolge tra l’Antinferno e la coda finale, con tanto di prove e sessioni di trucco [fig. 2]. Lo spettacolo finale, in un certo senso, può infine essere visto come il terzo e ultimo stadio della lavorazione filmica, quella del montaggio, accanto e in sovrapposizione con la pratica spettatoriale. La finestra con grata dalla quale i signori osservano le torture, infatti, non simula solo la relazione spettatore-schermo, ma mostra anche forme di manipolazione del materiale girato, mediante la soggettiva attraverso il binocolo rovesciato [fig. 3]. Tanto schermo quanto moviola, la finestra finale è supporto insieme trasparente e opaco che contiene un materiale solo parzialmente messo in forma, già pronto per la visione ma ancora necessitante di elaborazione ulteriore.
All’estremo opposto del film, allora, la scelta degli attori costituisce effettivamente quell’intermezzo cruciale tra la virtualità della sceneggiatura e l’attualizzazione delle riprese, tra antiferno e gironi, un momento di ricerca basto sulla pazienza di un incontro fortuito («tredici notti all’addiaccio mi son fatto per beccarlo», sentenzia uno dei laidi aiutanti) o di un obiettivo lungamente perseguito («due anni amici, due anni che lo attendo», sogghigna soddisfatto Sua Eccellenza, il personaggio interpretato da Uberto Paolo Quintavalle). Se Salò si configura dunque come un vero e proprio ‘oggetto teorico’, la ragione profonda va ricercata nel cambiamento radicale che spinge all’abiura verso la produzione precedente e che definisce «un momento contraddittorio, di passaggio» (Pasolini 1999c, p. 2696) nel quale cinema e mondo procedono lungo direzioni divergenti; tra l’altro, a conferma di questo interesse metafilmico, il film successivo a Salò avrebbe dovuto essere «quello con Eduardo, che si chiamerà o Il Cinema o Ta Kai Ta…» (Pasolini 2001d, p. 3022). In tale scenario, la dimensione attoriale – nella cornice della poetica pasoliniana – non può che rappresentare lo snodo cruciale di questa autoriflessività politicamente marcata.
3. Dopo il genocidio
La classica distinzione tra attori professionisti e non professionisti, che struttura in modi peculiari l’approccio pasoliniano alla recitazione, in Salò viene mantenuta e insieme negata. I tre macrogruppi di personaggi che compongono la narrazione – i signori, le narratrici e i giovani articolati a loro volta in vittime, collaborazionisti e inservienti – definiscono tre approcci alla recitazione differenti. Ci sono anzitutto le «bellissime donne» (Pasolini 2001a, p. 2067), Elsa de’ Giorgi, Caterina Boratto, Hélène Surgère e Sonia Saviange, quattro attrici professioniste che mettono in scena la loro stessa performance attoriale sino all’autocitazione, facendo emergere, in un complesso palinsesto intermediale, «le tracce di un’iconografia […] che richiama una cornice divistica propria degli anni Trenta» (Pontillo 2022). Le giovani figure, nei diversi ruoli a loro assegnati, sono invece non professionisti, o «almeno in parte (le ragazze le ho dovute scegliere tra delle fotomodelle, perché naturalmente dovevano avere dei bei corpi e, soprattutto, non dovevano avere paura di mostrarli)» (Pasolini 2001a, p. 2067). I quattro signori sono l’esito della «solita contaminazione: si tratta di un generico che in più di vent’anni non ha mai detto una sola battuta, Aldo Valletti; di un mio vecchio amico delle borgate romane (conosciuto ai tempi di Accattone!), Giorgio Cataldi; di uno scrittore, Uberto Paolo Quintavalle, e infine anche di un attore, Paolo Bonacelli» (ibidem).
Se la contaminazione tra attori professionisti e non è tipica del metodo pasoliniano, più singolare risulta invece la dialettica tra mescolanza e distinzione alla quale dà origine in questo film. Da un lato, infatti, vi è una rigida partizione tra attrici che recitano e attrici e attori che assistono allo spettacolo [fig. 4], al limite subendolo; dall’altro, i quattro signori – l’unico gruppo ibrido che contempla più o meno tutte le soluzioni proposte in passato da Pasolini – si fanno carico di mettere costantemente in comunicazione lo spazio della scena e lo spazio del pubblico, assumendo ora un ruolo ora quell’altro e coinvolgendo attori e spettatori in una performance interattiva e reversibile, come risulta evidente – in tutto il suo orrore – nella sequenza finale delle torture. Tale dialettica viene dunque assunta come principio strutturante della narrazione in una mise en abyme particolarmente sofisticata che non pertiene solo alla dimensione metafilmica, ma anche a quel principio di mescolanza indistinta prescritto dai ‘Regolamenti’ che presiede ai rapporti intersoggettivi dentro la villa.
Ma ancor più in generale, è qui forte l’eco di quella relazione ambigua tra vittime e carnefici che traccia l’insostenibilità morale del film, la sua «violenza che gli consente di eccedere le leggi che si dà una società, un’ideologia, una filosofia» (Barthes 2001, p. XXVII) e che costituisce il riflesso di quell’omologazione dell’habitus nazionale sulla quale Pasolini si era lungamente soffermato. Mai prima d’ora gli attori non professionisti hanno avuto un ruolo così particolare nei film pasoliniani. Contemporaneamente al centro e ai margini della scena, i ragazzi e le ragazze non agiscono e non parlano, ma si limitano a contemplare, al limite a subire senza opporre resistenza, suppellettili tra il mobilio decadente. Quando agiscono, agiscono da criminali, ma sempre assecondando ordini impartiti da altri. I loro bei corpi, levigati e puliti, sono distanti da quelli imperfetti ma vitali che ne attraversano la filmografia. I loro volti «non hanno nessuna luce negli occhi» (Pasolini 1999d, p. 544); non hanno voce, e quella che hanno – per implorare o lamentarsi – è asettica, la loro lingua fossilizzata. I tratti sui quali Pasolini insiste in pagine e pagine di interventi pubblici trovano piena espressione nel linguaggio cinematografico.
4. L’espressione del potere
Se dalle giovani figure si sposta lo sguardo sui quattro signori, ecco che invece la parola diventa lo strumento ideale della potenza dispositiva della voce dell’autorità. Ne è emblema il Duca, a cui la mole di Paolo Bonacelli – unico professionista tra i quattro – conferisce il peso del comando. La risorsa principale alla quale ricorre è l’alternanza arbitraria tra gesto di rassicurazione e scatto violento, assecondando il principio da lui stesso enunciato che i fascisti sono «gli unici veri anarchici» una volta che si sono impadroniti del potere. L’anarchia del comportamento e l’imprevedibilità della reazione sono il materiale di base per la gamma espressiva di Bonacelli, che può permettersi, rispetto agli altri tre protagonisti, di modularla tra registri intermedi anziché solo tra estremi.
Questa modulazione è ben visibile nella scena di coprofagia imposta a Renata (Renata Moar) in lacrime per il ricordo della madre morta per cercare di salvarla. L’espressione di trattenuta soddisfazione con la quale il Duca interviene sul racconto della signora Maggi (Elsa de’ Giorgi) per raccontare il matricidio da lui perpetrato anni addietro si allarga leggermente in un sorriso appena accennato di fronte al pianto della ragazza, in un’offerta di consolazione. L’iniziale distensione dei tratti facciali si alterna alla loro contrazione, in una continua micro-oscillazione espressiva che impedisce ogni stabilizzazione della tonalità emotiva. Dopo aver defecato sul pavimento, il Duca abbandona bruscamente la pacatezza dei modi per lanciare una serie di brevi ingiunzioni in un crescendo intensivo, che ne trasfigurano il volto [fig. 5]. Ottenuto l’esito voluto, il viso torna a distendersi, ora però in un ghigno violento che incarna la soddisfazione per l’arbitrio esercitato [fig. 6].
Nel dare vita a questo personaggio, Bonacelli si trova così di fronte a una scissione della sua immagine attoriale: da un lato conserva infatti la memoria di alcuni dei suoi ruoli più celebri sino a quel momento, in una sorta di crasi tra l’imperscrutabile Presidente civile dell’Inquisizione in Giordano Bruno (Giuliano Montaldo, 1973) e il violento Francesco Bonmartini in Fatti di gente perbene (Mauro Bolognini, 1974), dall’altro – secondo procedimento tipico pasoliniano – viene «spogliato del suo habitus» (Rimini, Rizzarelli 2021, p. 103) di decoro estremo per diventare protagonista di molte delle sequenze più disgustose del film, legate in particolare all’interazione con le deiezioni umane. Questa schizofrenia interna al ruolo non è solo una scelta di poetica attoriale, ma è anche la caratteristica decisiva per fungere da correlato visibile dell’analisi sulle forme del potere condotta da Pasolini negli ultimi anni di vita, mostrando nuovamente come la dimensione autoriflessiva del film, per quanto riguarda in particolare la dimensione attoriale, sia investita di un portato insieme teorico e politico.
Se ci poniamo sul lato opposto dello spettro recitativo, possiamo trovarne ulteriore conferma in Aldo Valletti, il Presidente, a cui presta la voce Marco Bellocchio. Se Bonacelli dà corpo al potere anzitutto attraverso la sua prestanza e presenza fisica, che può decidere di degradare a piacimento senza perdere autorità, Valletti è l’esatto opposto: un inetto con un accentuato strabismo, enfatizzato da molti primi piani quasi frontali [fig. 7], che si esprime quasi unicamente con «battute che interrompono improvvisamente la tensione della scena, la fanno crollare, scaricano nel gioco di parole insensato l’atmosfera drammatica del film» (Bazzocchi 2017, p. 106), come – tra i tanti esempi possibili – nella scena del banchetto di feci, dove la stupida freddura si accompagna al gesto ridicolo [fig. 8]. Curiosamente, Valletti dopo vent’anni di carriera muta diventa loquace solo per testimoniare l’incapacità del suo personaggio di comunicare, solo per dimostrare come la sua parola sia sostanzialmente priva di ogni efficacia dispositiva.
Eppure, il potere vive proprio in questo vuoto di senso, come lo stesso Pasolini ricorda in alcuni celebri passaggi. Come accade per gli altri tre sodali, Valletti dà corpo a un personaggio che incarna la facoltà del potere di mettere la forza in riserva, pronto a esibirla quando la situazione lo richiede, ad esempio nel finale, dove non a caso è il primo a comparire sulla scena delle torture. Più in generale, la recitazione rigida e stupidamente inespressiva, ai limiti della goffaggine, che caratterizza secondo gradi diversi i quattro libertini definisce esattamente la tonalità del potere contemporaneo al film secondo Pasolini: un potere grigio e inarticolato, che «da una decina d’anni le “teste di legno” hanno servito senza accorgersi della sua realtà» (Pasolini 1999a, p. 411). Si tratta di un potere reale di cui «abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche» (ibidem): e donargli forma e corpo, a metà degli anni Settanta, diventa per Pasolini il compito politico principale.
Bibliografia
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