Giorgio Manganelli, Emigrazioni oniriche. Scritti sulle arti

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Nel maggio del 1973, intervenendo a un convegno romano dedicato a Jung e la cultura europea, Giorgio Manganelli si rivolgeva alla platea di addetti ai lavori con parole destinate a rimanere forse una delle formule più efficaci per compendiare la relazione tra lo sguardo di un autore così anomalo nel panorama culturale italiano e le arti in generale, di là da quella prettamente letteraria. Una sorta di invocazione e, insieme, di rivendicazione che così si presentava: «spero che abbiate degli incubi, perché è in quegli incubi che noi abbiamo qualche cosa da dirci, perché è lì che la letteratura funziona, perché è lì che funziona la pittura, che funziona la musica e tutto il resto è littérature ma nel senso contrario naturalmente, è la cattiva letteratura».[1] Una formula – se così si può definire, nel suo sibillino andamento – che istituisce un’inscindibile relazione multipla, dunque, tra il reale, la facoltà di percepirlo nella sua radicalità e profondità, la capacità di fare di quella percezione letteratura, pittura, musica o arte in generale non cattiva (crudele, piuttosto, in senso artaudiano) e, infine, la possibilità di fare di quelle forme d’arte equivalenti forme di relazione e comunicazione tra esseri viventi. Comunicazione e relazione, però, che si muovono nella direzione opposta alle possibilità e alle illusioni di dire, di trasmettere, di esprimere e comprendere chiaramente e univocamente. Appunto, comunicazione e relazione attraverso l’incubo, piuttosto. Perché se – seguendo la devozione manganelliana verso gli oscuri e carsici percorsi negli etimi e nelle origini delle parole – interroghiamo l’etimologia di ‘incubo’ giungiamo nei territori del perturbante e dell’estraneità assoluta anche rispetto a colui che dorme e che ne fa esperienza: se il sogno chiama in causa immagini che si manifestano al dormiente dalla sua interiorità e che in qualche modo misterioso, dunque, a un certo grado ancora gli appartengono, l’incubo si configura, invece, come un essere, una creatura distinta dal dormiente stesso, che ha del demoniaco e che su di esso giace opprimendolo dall’esterno in stati di alterazione febbrile e, talvolta, congiungendovisi carnalmente. Così, è allora nei regni del neutro, dell’estraneo e del recondito, di un’usurpazione di ogni pretesa di comunicare e di entrare in relazione che – sembra dirci Manganelli in quella manciata di parole – avviene la relazione e la comunicazione più profonda attraverso quell’intreccio tra reale, percezione e arte. Non per trasmissione consapevole mediata dalla volontà, ma per immediato e sotterraneo contagio incosciente. Per ‘emigrazioni oniriche’, insomma.

Quelle medesime Emigrazioni oniriche che, appunto, fanno da titolo alla nuova pubblicazione a firma Giorgio Manganelli uscita lo scorso giugno per i tipi di Adelphi, con il sottotitolo di Scritti sulle arti. Se l’intera opera letteraria di Manganelli – da quella saggistica a quella definibile, con grandi riserve, ‘narrativa’ – si presenta come una sconfinata e ininterrotta perlustrazione del modo in cui simili ‘emigrazioni’ e contagi avvengono tra le maglie più recondite del linguaggio e del suo farsi arte della parola, questo nuovo volume si presenta – sotto l’attenta e preziosa cura di Andrea Cortellessa – come un fondamentale strumento che spinge quella perlustrazione dal linguaggio all’immagine, dalla letteratura alle arti visive. Si tratta di ambiti che Manganelli ha frequentato costantemente nel corso della propria vita – fa notare altrove Federico Francucci che già i quaderni di appunti critici databili tra il 1948 e il 1956 presentavano due paragrafi dedicati alla pittura[2] – ma che finora, fatta eccezione per il volume Salons edito nel 1986 da Franco Maria Ricci, che presentava tutti i suoi interventi realizzati per la rivista FMR, non erano mai assurti a protagonisti di una raccolta ampia ed esaustiva che li mostrasse nella loro multiformità e, soprattutto, nella loro assoluta centralità per quanto concerne il lavoro critico – e, in generale, artistico – di Manganelli.

Sono sessanta i pezzi che compongono questa vasta e stratificata panoramica attraverso gli sguardi gettati da Manganelli nel territorio delle arti visive, territorio che, sotto simili sguardi, giunge a comprendere tanto quelli che possono essere considerati come i suoi quartieri centrali e più frequentati quanto i sobborghi più oscuri e meno considerati o battuti dalla critica tradizionale. Sessanta interventi, scritti tra il 1965 e il 1990, anno della sua scomparsa, con un pezzo uscito postumo nel 1991, che Cortellessa organizza – o sarebbe meglio dire disorganizza – intorno a sette direttrici cui attribuisce altrettanti titoli che paiono già rivolgersi più al regno dell’incubo che a quello della critica d’arte: da Artifici dell’eternità a Distanza dall’umano, da Luminosi e feroci a Dannazioni naturali, da Esigui e iracondi a Un animale che si copre fino a L’icastico quotidiano. Allusioni quasi ermetiche che – aderendo a quel rifiuto manganelliano d’ogni esattezza catalogatoria di cui scriveva Francucci in Tutta la gioia possibile – negano tanto una sistematizzazione cronologica quanto tematica degli scritti raccolti, ponendosi piuttosto quasi come formule magiche in grado di rivelare, senza banalizzarle, le matrici di quell’incessante e irrisolvibile interrogazione con la quale Manganelli tenta di individuare di volta in volta quell’elemento – o quegli elementi – di perturbante estraneità che ciascuna opera, ciascuna immagine artistica cela e svela solo per lampi, per barbagli, ad additare un reale altrettanto inconsistente e inafferrabile, se non per tramite del suo farsi ombra attraverso l’arte.

Non ci sono scritti meramente teorici tra tutti quelli che compongono questa nuova raccolta: ciascuno sorge a partire da un’opera o da un artista specifico o da specifiche realtà come musei, mostre, luoghi d’esposizione e ogni possibile concreto elemento che abita il regno delle arti visive. Si tratti delle fontane disseminate per la città di Roma o della Santa Teresa del Bernini, della pittura di Toti Scialoja o delle vignette di Forattini e di Altan, degli ex-voto venuti alla luce dalla devozione popolare o delle dimore di Gabriele D’Annunzio, della Galleria degli Uffizi o degli emblemi delle case costruttrici che campeggiano sulle estremità anteriori dei cofani delle automobili, lo sguardo di Manganelli – differente ogni volta e ogni volta in azione al medesimo modo – scandaglia le superfici di ciò che prende in considerazione scansando fulmineamente secoli di critica, storia dell’arte, analisi accademiche, studi filologici, per intercettare esclusivamente le tracce meno evidenti lasciate proprio da ciò che potremmo definire come l’incubo dell’opera, del soggetto considerato. Ossia ciò che, tornando al principio di quanto detto fin qui, si presenta come quel territorio in cui l’immagine si svela come visitata e abitata nel profondo da qualcosa di radicalmente estraneo che al contempo ne pervade la natura più intima, quella inafferrabile da ogni discorso ma offerta al cortocircuito rivelatore di una parola che tenta di manifestarla celandola tra le proprie maglie e i propri intrichi labirintici senza sbocco risolutore. Perché, se c’è una lingua, nel panorama letterario italiano estraneo ai canoni della critica ufficiale, capace di scorticare ogni cristallizzazione che incrosta le arti visive e le loro possibilità di lettura, allora è proprio quella di Manganelli, tutta giocata senza compromessi sul paradosso insolubile tra devozione assoluta alla parola e assoluta sfiducia verso ogni sua capacità di nominazione e designazione del reale come realtà plausibile e stabile.

Nel 1980, in dialogo con Paolo Terni su Radio 3, Manganelli argomentava, in contrappunto agli ascolti dei brani che maggiormente nutrivano la sua vita e il suo immaginario, riguardo a quella «profonda invidia per la musica»[3] che ogni scrittore – e certamente uno scrittore come lui – non può che intimamente sentire, per l’immediatezza con cui essa, forma significante di per sé, viaggia e conduce nei territori astratti di una percezione che non ha necessità di argomentazioni, di significati. Oggi, questa preziosissima opera costituita dalla raccolta messa insieme da Adelphi e Cortellessa ci mostra invece, con un’evidenza e una potenza tutte nuove, una differente e altrettanto fruttuosa ‘invidia’ dello scrittore Manganelli: quella per l’immagine, per la dimensione visuale capace di custodire in piena vita quei fantasmi e quei demoni che la letteratura tenta incessantemente di resuscitare. Quella dimensione in grado di preservare il reale come profondo mistero da decifrare che non si lascia mai dirimere davvero e di manifestare senza sosta e senza alcuna parola «ciò che non esiste ed è immortale» (p. 245).

 


1 G. Manganelli, ‘Jung e la letteratura’, in Id., Il vescovo e il ciarlatano. Inconscio, casi clinici, psicologia del profondo. Scritti 1969-1987, Roma, Quiritta, 2001, p. 29.

2 Cfr. F. Francucci, Tutta la gioia possibile. Saggi su Giorgio Manganelli, Milano, Mimesis, 2018.

3 Cfr. G. Manganelli, Una profonda invidia per la musica. Invenzioni a due voci con Paolo Terni, Roma, L’Orma, 2018.