Quando manca il lieto fine. Le principesse di Emma Dante

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Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli esperimenti di traduzione scenica di favole e miti con risultati compositivi davvero interessanti. Anche Emma Dante non è rimasta insensibile al fascino della fiaba e con Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, Gli alti e bassi di Biancaneve e La bella Rosaspina addormentata si accosta all’elemento fiabesco ironizzando e capovolgendo stereotipi di genere e luoghi comuni (le tre fiabe sono poi confluite in un interessante progetto di riscrittura testuale e visiva per i tipi Baldini&Castoldi, grazie alle tavole illustrate di Maria Cristina Costa). Il saggio punta l’attenzione su questi tre spettacoli che ripropongono gli stessi ingredienti delle sue messe in scena: recitazione, provocazione, corpo, fisicità, immaginazione, parola. 

Over the last few years, the experimentation of turning fables and myths into stage productions has grown in number with very interesting results. Even Emma Dante has not been insensitive to the charm of the fairy tale, and with Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, Gli alti e bassi di Biancaneve and La bella Rosaspina addormentata, approaches the fairy tales ironically, flipping stereotypes of gender and changing locations (the three fairy taleshave then come to an interesting textual and visual rewrite project for the Baldini & Castoldi types, thanks to the illustrated tables of Maria Cristina Costa). This essay focuses on the three shows that are part of that constant search in which Dante inserts all her performing elements: acting, provocation, body, imagination, word. 

1. C’era una volta…

«Le fiabe sono vere» scriveva Italo Calvino nell’introduzione alle Fiabe italiane, «sono, prese tutte insieme […], una spiegazione generale della vita…». Il teatro ha accolto fin dalle origini la suggestione di temi e storie ‘orali’ e nel corso della sua evoluzione ha messo a punto strategie retoriche sempre più convincenti nella resa di fiabe e racconti. Se il mythos tragico ha costituito la matrice autentica della fondazione di una prassi drammaturgica e scenografica, il Rinascimento ha contribuito alla codificazione di un nuovo genere che già nella sua titolazione richiama la forza e la pregnanza delle fabulae. La «favola pastorale» rappresentava infatti il tentativo di contemperare elementi propri della tradizione classica con un vitale slancio compositivo legato agli umori e alle sfrenatezze di corte; si trattava di delectare il pubblico attraverso exempla di ordine moraleggiante: il teatro era già inteso come arte fecondamente paideutica. Il barocco avrebbe aggiunto a tale quadro paradigmatico l’ossessione per quella ‘poetica della meraviglia’ che, oltre a stimolare una straordinaria profusione di ‘effetti speciali’, richiamava da vicino le atmosfere incantevoli di leggende e archetipi mitologici.

La progressiva costituzione di repertori fiabeschi rende gli intrecci tra favole e teatro ancor più stringenti al punto che è difficile separare nettamente i due ambiti: la magia della scena fa sì che ogni storia si trasformi in sogno (o in incubo), come del resto testimonia la grandezza delle invenzioni shakespeariane. Dobbiamo arrivare all’Ottocento per assistere ad una grande fioritura della fiaba. Il danese Andersen, i fratelli tedeschi Grimm, il russo Afansjeu ci hanno lasciato le più belle fiabe del secolo. In Italia, Collodi riscrive nei suoi Racconti delle fate le fiabe immortali del francese Perrault, dando ad esse una vivacità tutta toscana. Luigi Capuana, pur essendo il caposcuola del verismo, considera le fiabe come una porta da tenersi sempre aperta sull’irrazionale e sul fantastico. Infine, Giuseppe Pitrè, sempre interessato alle tradizioni regionali italiane, trascrive nelle sue Novelle antiche fiabe raccolte dalla viva voce della gente.

Il Novecento, nonostante la crudeltà della Storia, non rinuncia alla magia dei racconti e così lascia in eredità un novero di spettacoli davvero memorabili. I cosiddetti anni zero, in scia con la ricerca di Peter Brook, Bob Wilson, Tadeusz Kantor (solo per citare gli autori più illustri), moltiplicano gli esperimenti di riduzione, adattamento e transcodificazione di fiabe, consegnando un ricco e frastagliato corpus di drammi e performance. Questo primo scorcio temporale ha visto il proliferare di esperimenti di traduzione scenica di favole e miti con risultati compositivi davvero interessanti. I più importanti festival teatrali hanno ospitato e prodotto spettacoli di grande pregio – si pensi al Peter Pan del già citato Wilson andato in scena a Spoleto nel 2014 – oppure rivisitazioni in grado di scompaginare il dettato mitico del testo d’origine (come il Pinocchio di Babilonia Teatri insignito del Leone d’oro alla Biennale teatro del 2016): quasi sempre si tratta di opere che abbinano una forte impronta drammaturgica a una sperimentazione visiva capace di alterare i segni e le silhouette della fonte prescelta. La ricerca teatrale sulla fiaba, sebbene la bibliografia ancora scarseggi e siano rare le occasioni di discussione (ricordiamo il convegno tenutosi a Pescara nel 1996 dal titolo: La magia. Il meraviglioso teatrale tra fiaba e magia), resta uno dei campi d’azione più ampi e stimolanti del nostro secolo, perché riguarda ogni strato di lettura della realtà, da quello antropologico a quello sociale e psicologico.

In una particolarissima area geo-teatrale, quella siculo-napoletana, la riscrittura di fiabe, leggende e cunti è una prassi molto frequente. Sul fronte delle fiabe, invece, molti sono i casi di traduzione o riscrittura testuale e scenica; oltre Dante, autrice anche de La favola del pesce cambiato, si pensi alla metamorfosi di Giufà grazie alla reinvenzione di Pirrotta o Ascanio Celestini, che da anni lavora sulla narrazione orale e sui racconti della tradizione popolare. Giufà diventa il trait d’union fra cultura alta e bassa, ma gli esempi in tal senso sono ormai numerosi e affascinanti. Lo dimostra l’operazione compiuta da Roberto De Simone nella riscrittura de Il Cunto de li cunti di Gianbattista Basile, e prima ancora nel lavoro di ricerca operato dall’autore e dal suo gruppo, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, sul versante delle tradizioni orali e musicali del Sud Italia con lo spettacolo La gatta Cenerentola.

Tra le tante figure votate al recupero del fiabesco occupa un posto singolare Emma Dante, uno dei migliori talenti della scena contemporanea. Il suo teatro ha da sempre affrontato le contraddizioni del presente scomponendo la contemporaneità in mille caleidoscopiche sfaccettature attraverso una ricerca formale che utilizza la precisione della gestualità degli attori e la ricercatezza delle luci. Ne risulta un teatro che costruisce una struttura di rimandi visivi e uditivi che agiscono sullo spettatore. Dopo l’esordio con la Trilogia della famiglia siciliana Dante va componendo spettacoli intensi, originali e destinati a far discutere, come Bestie di scena in cui racconta il lavoro dell’attore, la sua fatica, il suo abbandono totale fino alla perdita di ogni vergogna. I suoi testi sono sempre stati, da ’mPalermu in poi, evocatori di mondi, di relazioni, di dinamiche di potere, di confini a volte invalicabili, di gesti che non riescono a farsi azione e di tensione al riscatto. Dante sembrerebbe sfuggire, in quella che è stata definita la terza avanguardia teatrale, all’appartenenza totale sia al drammatico che al post-drammatico, facendo sue le cifre stilistiche dell'attraversamento e del rovesciamento.

A quasi un anno di distanza dal successo riscosso dall’operetta amorale Le Pulle, e dopo aver posato il suo sguardo sulla realtà primigenia della Sicilia, rappresentata con affreschi a tinte forti che evocano drammi familiari, violenze, riti, superstizioni, incesti, l’eclettica regista palermitana si cimenta nei codici linguistici del teatro per le nuove generazioni, proponendo un’originale rivisitazione della storia immortale della fiaba seicentesca di Perrault: Cenerentola. Va in scena così Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, a cui seguirà la riscrittura di altre due favole: Biancaneve con Gli alti e bassi di Biancaneve e Rosaspina con La bella Rosaspina addormentata. I tre spettacoli sono poi confluiti in un interessante progetto di riscrittura testuale e visiva per i tipi Baldini&Castoldi, arricchito dalle tavole disegnate da Maria Cristina Costa. L’illustratrice, come vedremo, ci restituisce una traduzione su carta dello spettacolo capace di produrre una visione nuova, a tratti performativa.

Queste tre fiabe hanno di certo rappresentato una scommessa per la drammaturga e a pieno titolo entrano a far parte del suo laboratorio creativo, in cui confluiscono gli elementi peculiari della scrittura scenica: recitazione, provocazione, corpo, spirito, fisicità, immaginazione, parola. Attraverso l’analisi degli spettacoli ricercheremo gli stilemi che caratterizzano le sue produzioni e che, come tenteremo di dimostrare, si rivolgono con coraggio ad un pubblico inusuale. Il confronto con le tavole di Costa mirerà a mettere in evidenza le complesse interconnessioni fra il mondo del teatro e quello dell’illustrazione.

2. Anastasia, Genoveffa e Cenerentola: prove per una tragedia siciliana

Lo spettacolo debutta nel 2010 al Teatro San Ferdinando di Napoli. Si tratta di una sfida affrontata in virtù di un desiderio di leggerezza, sopraggiunto proprio in concomitanza con la maturità artistica. Dante, interessata da sempre alle dinamiche che scaturiscono dentro un difficile microcosmo familiare (si pensi a La scimia del 2005 o a Festino del 2007), intuisce per questa fiaba la possibilità di applicare alcuni topoi del suo teatro: dall’uso del palermitano allo studio dei movimenti del corpo. Entrambe queste «lingue teatrali», il dialetto contaminato dalla presenza dell’italiano (e del francese) e l’espressività non verbale, producono una oscillazione tra la recitazione intensa e muscolare degli attori, volutamente sopra le righe, a tratti perfino macchiettistica, e la caratterizzazione stilistica dei personaggi: il tutto viene inframmezzato da originali e stranianti contrappunti musicali che sottolineano i diversi picchi emotivi.

L’ambientazione siciliana caratterizza la scrittura di Dante che parte comunque dall’intreccio originario. La sua Cenerentola, Angelina, vive in una palazzina «nel centro di Rodìo Miliciò, un paesino del sud della Sicilia circondato da cave di tufo e alberi di melograno». Il contesto è  moderno, l’abitazione è dotata di tutti i comfort: frigorifero, lavatrice e televisione. Ed è proprio  dalla TV che matrigna e sorellastre sentono l’annuncio che il principe di Barcellona Pozzo di Gotto sta organizzando «un gran ballo a Corte» durante il quale spera di conoscere la fanciulla che diventerà la sua sposa.

Madre Finitela disgraziate! Com’haiu a fari cu vii avutri, ah? Mi state facendo infuddiri! Arraggiate, unn’u capite ca se si sistema una ci sistemiamo tutte e tre? A questo dobbiamo arrivare, allo sposalizio di una per pigghiàrici ‘a manu cu tuttu ‘u vrazzu e cioè ‘u purtuni d’entrata cu tutti ‘i centocinquanta stanze d’u palazzu. Oooh! Ci vuole arti di pinna pi capiri sti cosi! ora, statevi mute e azzizziamoci per la festa. Amunì! (LPE, p. 141).
 Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, foto di scena di Carmine Maringola (2010)

Iniziano così i preparativi per la serata e mentre in sottofondo sentiamo Billie Jean di Michael Jackson con un vorticoso siparietto di cambi d’abito vediamo Anastasia e Genoveffa indossare improbabili tubini iper-aderenti, parrucche dai colori sgargianti, travestimenti da messicane con tanto di sombrero, bianche divise da karateka, fino all’ultimo cambio: immacolati abiti da sposa (tema costante nel teatro di Dante), che non fanno altro che esaltare la loro bruttezza e la loro goffaggine.

 

 Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, foto di scena di Carmine Maringola (2010)

Lasciata sola in casa, vediamo Cenerentola improvvisare un ballo di gala ‘alternativo’ sulle note di Senza fine di Gino Paoli, in cui i suoi cavalieri saranno le scope con cui quotidianamente le è imposto di spazzare i pavimenti. Ma la magia cambia il corso degli eventi: tra le musiche da cabaret di Liza Minnelli compare la fata Smemorina, che si offre di aiutare Cenerentola a coronare il sogno di recarsi al ballo. Ha inizio quindi un luminoso incantesimo tramite il quale la fata, mentre ascoltiamo It’s Oh So Quiet di Bjork, trasforma una melagrana in carrozza, le scope in cocchieri e gli stracci della povera Cenerentola in un bellissimo abito da sera. L’azione scenica si sposta nel giardino del palazzo reale, complice il rapido dispiegamento di alcuni tendaggi sul semplice paravento disposto al centro del palcoscenico e che costituisce l’unico elemento scenografico previsto da Dante. Qui il principe (dal fascino tipicamente mediterraneo) si aggira sconsolato e, sapendo di non essere né visto né ascoltato, esprime, in un vernacolo siciliano, tutto il disappunto per la «donne-avvoltoio» desiderose di conquistarlo, una più brutta dell’altra.

Principe: Sugnu un povero principe mischino! Mai troverò la moglie giusta per me. Tutte varie e antipatiche sunnu. Com’haiu a fari? Mè patri vuole ca mi sposo ma unn’è cuntu ca mi pozzu mettere dintra un’etranea, una che non mi piace! Ahi me tapino! Ahi me mischino! Ahi me…! Vulissi ‘na picciotta saggia ma pure ‘na picca graziusella. Non pretendo assai, un po’ di bontà e un po’ di beltà! Ma ‘na sto paisi sunnu tutte basse e occhialute… coi baffi… e ignoranti… e maleducate e arroganti… e cretine… duecentoundici damigelle di iccari ci sono nel grande salone da ballo! Nessuna di loro ha rapito il mio cuore. Nessuna! Ahi me tapino! Ahi me mischino! Ahi me…! (LPE, p. 163).

Ed ecco l’incontro con Cenerentola che, scesa proprio in quell’istante dalla carrozza-melagrana, si prende una bella storta (motivo per cui si toglie la famosa scarpina). Nonostante la caviglia gonfia i due si concedono un libertango in cui a condurre le danze è proprio Cenerentola che allo scoccare della mezzanotte fugge via. Il principe dà voce a tutta la sua inquieta passione in un’interpretazione (in play-back) di Perdere l’amore di Massimo Ranieri con tanto di evoluzioni acrobatiche e lancio di coriandoli. Ha quindi inizio l’instancabile ricerca in tutte le dimore del regno che condurrà al lieto fine.

 Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, foto di scena di Carmine Maringola (2010)

Anche questa favola noir di Dante, come ogni favola che si rispetti, ha una morale, anzi due, ma ristabilisce però ‘altri’ parametri di lieto fine: se da una parte non bisogna provare vergogna delle proprie radici e della propria identità dall’altra esiste una sorta di nemesi grazie alla quale i cattivi non diventeranno mai eroi, né tanto meno resteranno impuniti.[20]

Fata: Ora ci penso io a te e a quelle due ragazze velenose. Trasformo te, Ignazia, in un mastino napoletano le tue figlie in due zecche che ti sucano il sangue. Ecco fatto! La favola, stavolta, la finisco così: i cattivi verranno puniti e i buoni non perdoneranno! Angelina e il suo principe vivranno felici e contenti (LPE, p. 186).

Questa prima scommessa teatrale è vinta grazie al sempre magico gioco del teatro e agli strepitosi attori della Compagnia Sud Costa Occidentale. Un’eccezionale Italia Carroccio, nei panni della divertente matrigna, le due sorellastre (Valentina Chiribella e Gisella Vitrano) abili trasformiste nei panni della supermarionetta Fata Smemorina e di Cenerentola, capaci di gestire perfettamente il repentino cambio d’abiti e di ruoli, e Onofrio Zummo, nella veste del malinconico e appassionato principe. La recitazione poggia su una impressionante carica fisica: gesti spediti o plateali, sussulti nervosi, come ad esempio nella scena in cui la matrigna ordina alle figlie di prepararsi per il gran ballo o in quella in cui Anastasia e Genoveffa devono provare la scarpina. Quando in scena c’è Cenerentola o il principe l’impianto recitativo si fa meno incisivo e convincente. D’altra parte si sa che l’attenzione di Dante si concentra su quei personaggi più carismatici ma allo stesso tempo ambigui tanto che, e non è un caso, il titolo dello spettacolo oltre Cenerentola include anche le due sorellastre, figure fondamentali senza le quali la prima forse non esisterebbe.

Tutto è giocato sulla dialettica tra dentro e fuori scandita dalla presenza di un paravento che definisce e delimita i luoghi dell’azione. L’utilizzo degli oggetti della vita quotidiana contemporanea e l’inserimento di un peculiare commento sonoro richiamano alla mente la drammaturgia di Annibale Ruccello in cui la presenza della radio e della televisione occupa spesso un ruolo centrale come anello di connessione fra passato e contemporaneità malata.[21] I contrappunti musicali hanno l’obiettivo di risvegliare la memoria e l’immaginario dello spettatore; si tratta di una musica che diventa anch’essa scrittura teatrale in quanto «è manipolata in vista della sua destinazione scenica e in quanto tale manipolazione fa parte del progetto registico».[22]

Una certa musicalità è data anche dal dialetto che, con tutta la sua viscerale stratificazione semantica, appare lo strumento espressivo della bruttura e del disagio, una specie di lingua atta a dare voce alle vergogne private, che non si può e non si deve parlare in pubblico, una lingua con cui i personaggi possono dire ciò che pensano in tutta franchezza (come sperimentato a partire da ’mPalermu). Cenerentola invece impiega sempre il medesimo codice, un italiano quasi forbito, un eloquio chiaro, la sua indole è nobile e gentile sia all’interno che all’esterno della casa; incarna il simbolo di un femminile solo apparentemente prostrato dalla storia, che ha conservato una sua ferma dignità umana e civile e non ha perso di vista le cose importanti della vita, affrontando ogni circostanza con un’energia autentica e trascinante. Questo particolare utilizzo del rapporto lingua-dialetto in realtà caratterizza fortemente la lingua teatrale di numerosi testi tra Otto e Novecento, come è stato ampiamente dimostrato negli studi relativi alla lingua di scena.[23]

Al di là di ogni dichiarazione programmatica, ed in nome di una rinnovata voglia di spensieratezza dichiarata dalla stessa autrice-regista, con Anastasia, Genoveffa e Cenerentola siamo di fronte a un divertissement semplice, ad una perfetta «favola per bambini e adulti» come recita il sottotitolo.

Il 17 maggio 2011 per La Tartaruga edizioni (e poi per Baldini&Castoldi che nel 2014 decide di pubblicare insieme le tre favole) viene pubblicato il volume illustrato che ci restituisce lo spettacolo Anastasia, Genoveffa e Cenerentola attraverso dialoghi serrati, esattamente come sono andati in scena in teatro.

Il testo si inserisce nel filone del revisionismo letterario,[24] sposa l’idea di rilanciare le fiabe dell’infanzia e riadattarle a un mondo dove non solo scenario e modelli[25] sono cambiati, ma persino la morale originale è in discussione. Sfogliando le pagine patinate dell’edizione del 2014 ci appaiono lontane le atmosfere disneyane, la leggiadria di certi personaggi e la magia di scene memorabili; le parole di Dante e le immagini di Costa sottolineano la scompostezza dei gesti, la sgradevolezza dei volti. Costa riproduce la visionarietà dello spettacolo accostandola alla sua personale lettura, modellata sul rapporto con i personaggi. Non esita a mettere al servizio della storia la bruttezza interiore della matrigna e delle sorellastre, affermata anche dalla loro sgraziata esteriorità, gioca con distorsioni, caricature e segni particolari: nei, baffi, ghigni non solo descrivono difetti fisici ma alludono a precise qualità morali. Le tavole accompagnano il testo e a tratti lo definiscono; si muovono libere, integrano ciò che la parola a volte non riesce a trasmettere, aprendo nuove possibilità narrative che eccedono il mero piano testuale. Costa si diverte a disegnare i collant che goffamente scivolano dalle gambe della cattiva di turno, elemento che troveremo come una costante anche nelle altre due fiabe.

 Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, illustrazione di Maria Cristina Costa (2011)

Tra le invenzioni più riuscite di Costa c’è una Cenerentola-Medusa dal viso rotondo, incorniciato da una folta chioma scura (ricordiamo che la fanciulla è siciliana) in cui si aggrovigliano gli ‘attrezzi’ del mestiere: sapone, piumino, battipanni e detersivi vari prendono il posto dei serpenti a significare il mutato scenario del mito. E giacché il testo che accompagna l’immagine ci parla dei pesci della signora Pina, la vicina di casa, la ciocca di capelli che tiene il bicchiere con l’acqua e la vasca è solamente abbozzata per sottolineare un’incombenza che ancora la ragazza deve svolgere. Il volto è colto nel momento dell’urlo che non è di sorpresa come quello della Gorgone ma esclama un lunghissimo «uffaaaaaaaa».

 Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, illustrazione di Maria Cristina Costa (2011)

Costa reimmagina anche gli interni siciliani, caratterizzati da un sole accecante che penetra da fuori e dominati dalla televisione, perennemente accesa.

 Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, illustrazione di Maria Cristina Costa (2011)

Il disegno diviene pertanto il luogo in cui gli espedienti narrativi e teatrali trovano nuove soluzioni: la profondità spazio temporale del colore, la dinamica mutevole delle linee, il ritmo, lo spazio bianco. Le “illustrazioni inopportune” di Costa, come le ha definite la drammaturga, rappresentano un ‘altro’ sguardo che dialoga con l’immaginario di Dante, mettendo a fuoco delle soglie che oggi sono per quest’ultima irrinunciabili ogni qual volta ripensa allo spettacolo.

 

3. Gli alti e bassi di Biancaneve: elogio della deformità

Debutta nel 2012 a Torino per la VI Stagione della “Casa del Teatro Ragazzi e Giovani” Gli alti e bassi di Biancaneve, in cui Dante rievoca la fiaba scritta dai Grimm, fatta di regine malefiche, solerti nanetti, mele avvelenate e principi salvatori. Lo spettacolo si mantiene sostanzialmente aderente al canovaccio originale ma senza rinunciare al suo stile; ritroviamo pertanto in scena alcuni degli elementi caratteristici della drammaturgia di Dante: l’enfatizzazione del gesto recitativo, la meticolosa attenzione dedicata ai dettagli della messinscena (la stessa regista cura in prima persona anche la scenografia e i costumi), il lavoro di armonizzazione delle interpretazioni dei giovani e talentuosi attori. Sullo sfondo si agitano gli antichi umori e colori del ruvido contesto isolano, che emergono anche quando ci si confronta con testi di altra ambientazione. Anche in questo spettacolo ritroviamo sul palco tre soli attori, Italia Carroccio, Davide Celona e Daniela Macaluso, con ruoli multipli, travolti in un turbinio irrefrenabile di ribaltamenti di prospettiva.

Da una tenda paravento, mentre la graziosa e delicata principessa Biancaneve gioca placidamente tra le sue mille bambole ed incanta tutti i cortigiani con il suo animo puro e i suoi modi gentili, si palesa sulle note dell’ouverture della Cenerentola di Rossini (quasi un passaggio di testimone e un presagio per la regia lirica che Dante porterà al Teatro dell’Opera di Roma nel 2016) la perfida e vanitosa matrigna, che trascorre le proprie giornate ad interrogare ostinatamente il suo specchio magico per sincerarsi di essere sempre e comunque «la più bella del reame». In questo caso però non si tratta di un semplice e statico specchio parlante: di fronte all’affascinante sovrana (il cui volto è coperto da una calzamaglia scura), si erge un suo perfetto clone en travesti (il bravissimo Celona, anch’esso col viso celato), che ne replica con certosina abilità ogni singolo movimento, ogni espressione, arrivando a sussurrare, in perfetta sincronia, ogni parola da lei pronunciata, ma arrivando anche a contrastarne ordini e desideri.

 Gli alti e bassi di Biancaneve, foto di scena di Carmine Maringola (2012)
Regina: Diciamolo meglio, amunì, accussì dopo ni n’jemu a curcari: specchio specchio delle mie brame chi è la più bella del reame?
Specchio: Ancora cu sta tiritera?
Regina: Rispondi: chi è la più bella del reame?
Specchio: Sei tu mia regina, di notte e di mattina, sei tu la più bella, l’unica vera stella. Tu mia regina, dal bosco alla collina!
Regina: Bene, così mi piaci! (sbadigliando) Sugnu stanca! Andiamocene a dormire! (LPE, p. 64)

Lo specchio si incanta solo quando su di esso si riflette l’immagine di Biancaneve:

Regina: Ouhh! Ouhh! Talè che beddu, s’incantò! Specchio, mi senti? Ecco picchì attìa t’arrestano sempre tutti ‘i pila, picchetti distrai e mi depilo solo io! Lo vedi che il problema è tuo?
Specchio: Scusami regina… ma… sono confuso… io… (LPE, p. 68)

Alla confessione che la più bella del reame è Biancaneve, regina e specchio svengono contemporaneamente mentre in scena entra proprio la fanciulla con una delle sue amate bambole. Queste sono per Biancaneve una proiezione di sé ma anche il suo segreto favolistico, sono amiche e accompagnatrici, rappresentano un modo per vivere la solitudine con meno dolore. Lei stessa è una bambola per beltà e per movenze (rimbalza, salta, cade, si rialza), e a tratti ricorda proprio le ‘bambole rotte’ del teatro di Dante (da Le pulle a Io, Nessuno e Polifemo fino a Bestie di scena).

La regina escogita il piano per liberarsi di Biancaneve, ma un guardiacaccia in calzamaglia rossa con movenze di ballerino, tra spaccate e piroette, confessa alla fanciulla l’efferato ordine e le suggerisce di fuggire nel bosco dove poi troverà rifugio dai sette nani, minatori dalle pance gonfie che parlano un grottesco siciliano medievale ed hanno perso le gambe durante un’esplosione in una cava sotterranea per colpa di uno di loro.

Biancaneve: Chi sei?
Gongolo: Sogno il più romantico della famiglia mia. Ogni notte mi gongolo davanti alla luna.
Biancaneve: Come ti chiami?
Gongolo: Gongolo… ma parla adagio che sono tutti corcati! Se Brontolo si arrisveglia andiamo in malora.
Biancaneve: Come mai sei così basso?
Gongolo: Siamo tutti bassi in famiglia. Siamo sette minatori io et i frati mei… con la dinamite scaviamo varchi dintra alla montagna per cercare oro e pietre preziose.
Biancaneve: Che bello!
Gongolo: Mica tanto! Un giorno il frate mio Pisolo si è addummisciuto con la micci accesa senza darci lo segnale della splosione iminente. E… buum! Ci sono saltate le gambe! (LPE, pp. 86-87)

Gli attori, camuffati con parrucche, occhiali scuri e berretti di lana, si alternano velocemente, comparendo dal pannello che fa da scenografia e che per l’occasione è stato abbassato ad ‘altezza’ di nanetto. Nel frattempo la regina e lo specchio, in completo ginnico (che ricorda più una divisa da calcio), si allenano in giardino e alla confessione di quest’ultimo che Biancaneve è ancora viva e cucina per i nani, la regina decide di preparare tre doni stregati per uccidere la più bella del reame.

Ignara di tutto, Biancaneve finirà con l’incontrare un dinoccolato principe azzurro, tramutatosi per l’occasione in un goffo damerino di bianco agghindato che ha con sé una valigia contenente un abito da sposa che la fanciulla indosserà di nascosto. Danza sulle note Una volta c’era un re, cavatina dalla Cenerentola di Rossini, quando compare, su lunghi trampoli, la regina trasformatasi in vecchina. L’innocenza della fanciulla e un bacio d’amore condurranno inesorabilmente al vissero tutti felici e contenti suggellato da Che coss’è l’amor di Vinicio Capossela. La regina, ritrovatasi vecchia, perde la memoria e non ricorda più la pozione per tornar giovane.

Vecchia: Ora sugnu io ‘a cchiù benda d’u reame! L’unica! Ma… come si fa l’intruglio per tornare giovane e bella? Accussì vecchia pirdivi ‘a memoria. ‘Un m’arricordu cchiù niente, talè! Cosi tinti! Niente, ‘u ciriveddu s’aggrippò, pozzo passari secoli e secolorum appresso a ste formule magiche! Malanova. Niente m’arricordo, niente! Arristavu laria, vecchia e impurruta… malanova! (LPE, pp. 114-115)
 Gli alti e bassi di Biancaneve, foto di scena di Carmine Maringola (2012)

E la morale? La fiaba assurge a simbolo del cammino di una innocente e inconsapevole fanciulla lungo i tortuosi percorsi dell’esistenza, tra egoismi e vanità, tra il romanticismo del sogno, le paure che intimamente accompagnano la crescita e il conforto della generosità disinteressata. Sono i mostri (i nani) a guidare nel percorso della conoscenza della realtà esterna e interiore. Alla fine la protagonista scoprirà che i più profondi valori della vita si nascondono nelle sproporzioni, negli ‘alti e bassi’ che la circondano e l’arricchiscono.

Dante impone agli attori una serie di virtuosismi, come recitare su trampoli o impersonare i nani muovendosi sulle ginocchia. La recitazione è parossistica nell’impasto magmatico di lingua e dialetto e nel contrappunto musicale. Ad una Biancaneve leggermente monocorde si contrappongono una regina e uno specchio/cacciatore/nanetto sempre sopra le righe.

Rispetto allo spettacolo precedente sono preziosi e visivamente d’impatto i coloratissimi costumi che raggiungono il duplice obiettivo di caratterizzare con precisione i tratti psicologici dei personaggi e di catturare l’attenzione dello spettatore. La scenografia al contrario è minimalista ed essenziale: un semplice pannello adornato da drappeggi multicolori dietro al quale avvengono i repentini cambi di abito e accessori che consentono le metamorfosi degli attori.

Anche in questo caso la scrittura scenica di Dante incrocia la fantasia della Costa e da questo incontro nasce un libro, pubblicato in prima battuta per La Tartaruga edizioni (2012) e poi accolto da Baldini&Castoldi (2014). Parole e illustrazioni riescono a far emergere la ‘malattia’, il lato oscuro, patologico che cova nelle fiabe, facendo scomparire gli accenti propriamente favolistici. 

Notevole è la rappresentazione della regina cattiva e del suo alter-ego maschile, lo specchio incantato, che con il suo onnipresente riflesso rimanda l’immagine poco lusinghiera di una virago bisognosa di depilazione. L’uso insistito di linee dure e spezzate (mascelle taglienti, menti appuntiti, fronti alte), culminanti nelle corone piccole ma acuminate, caratterizza questi personaggi e ne sottolinea la malvagità; di contro Biancaneve, il cacciatore, i nanetti e il principe dallo sguardo malinconico (in opposizione alla baldanza del principe-Celona) presentano linee morbide, quasi a voler alludere al loro animo gentile.

 Gli alti e bassi di Biancaneve, illustrazione di Maria Cristina Costa (2012) Gli alti e bassi di Biancaneve, illustrazione di Maria Cristina Costa (2012) Gli alti e bassi di Biancaneve, illustrazione di Maria Cristina Costa (2012)

Costa punta molto sui riflessi e sul doppio, allunga le figure e altera il profilo e la direzione della scrittura, mimando così le oscillazioni dei personaggi, il loro continuo mutare forma e desideri. La regina è la figura metamorfica per eccellenza, a lei l’illustratrice riserva cambi di altezze e prospettive rovesciate.

 Gli alti e bassi di Biancaneve, illustrazione di Maria Cristina Costa (2012)

Queste illustrazioni, come del resto le precedenti, sono irriverenti, fisiche, a tratti grottesche e, pur nel passaggio di codice, mantengono un saldo ancoraggio ai corpi e alle smorfie del teatro di Dante.

 

4. La bella Rosaspina addormentata: favole al tempo dei social

Chiude questa prima[26] trilogia La bella Rosaspina addormentata che debutta al Teatro Kismet di Bari nel 2013. La realizzazione dello spettacolo si colloca subito dopo l’importante esperienza cinematografica di Via Castellana Bandiera in cui Dante scrive, dirige e recita.

La breve fiaba dei Fratelli Grimm è qui un affresco nero e grottesco, in pieno stile Sud Costa Occidentale, tra fate che sfilano a suon di musica come su una passerella e corpi che si agitano su un palcoscenico scarno. Rosaspina è la principessa più innovativa per Dante, ed è facile capire il perché; risvegliandosi ai giorni nostri, la ragazza fa una scelta che risente del mutato scenario: la sua è ormai un’odierna società (dis)incantata, reduce dalle guerre mondiali, dai matrimoni gay, dai social network, abitata da esseri eccentrici e misteriosi che si muovono col passo dinoccolato di bambole rotte e i cui volti senza identità sono immersi nell’ombra di scure calzamaglie (anche qui la mente torna a Le pulle). Gabriella D’Anci, Rosanna Savoia ed Emilia Verginelli si muovono con grande energia e mettono in campo il graffio di smorfie mascherate. Le tre interpreti si alternano nei panni della regina (una fiabesca Bernarda Alba che parla in sicilaino), del re (succube dei capricci della moglie), di un’accozzaglia di fate ammiccanti mentre Rosaspina (l’unica a viso scoperto) si risveglia dalla maledizione già donna, trasportata dal tocco, dalla grazia, dal bacio di un principe di nero vestito, che ha capelli lunghi, seni, fianchi e voce femminile.

Lo spettacolo inizia con l’ingresso del principe nel castello, mentre alle sue spalle appare una fanciulla magrissima e alta, «imbottita di strati di camicie da notte»,[27] che pian piano inizia a svestirsi: è Rosaspina che si spoglia dal sonno del tempo, dagli strati dell’ipocrisia (le dieci camicie da notte che indossa) e della morte. Dopo un tenero bacio, Rosaspina esce di scena in braccio al suo principe, innescando una serie di flashback in cui si traccia un’elegante e grottesca parabola della metamorfosi della femminilità.

 La bella Rosaspina addormentata, foto di scena di Carmine Maringola (2013)

Durante la festa per il battesimo re e regina vorrebbero invitare tutte e undici le fate del regno ma non possono.

Regina: Undici! Ma non è che putemu invitare a tutte? Avemu sulu dieci piatti d’oro e dieci posate d’argento, e manco il servizio completo picchì ‘ni mancano i cucchiaini.
Re: Dobbiamo rinunciare a invitarne una, perciò?
Regina: ‘Ncachì! (LPE, p. 25)

A suon di musica  le fate fanno il loro ingresso trionfale come fossero celebrità: la prima, in rosso, sfoggia un look hip hop e parla in rima; la seconda è in verde, col cappuccio, accompagnata da Wishing Well di Terence Trent D’Arby; la terza ha un giubbotto di pelle, entra lanciando dei coriandoli e la sua colonna sonora prevede i Chemical Brothers. La quarta tutta in arancione e con passo dinoccolato arriva sulle note noir di Lullaby dei Cure; la quinta è in rosa e si accompagna con la musica di Amy Winehouse; la sesta entra con un tango dei Gotan Project; la settima è candida e lattea; l’ottava è la colpevole del sortilegio e arriva sulle note di Roxanne di Tom Waits (la scelta di mostrarla di spalle e in controluce carica questo personaggio della negatività che contraddistingue il suo ruolo), mentre la nona ha con sé l’antidoto. Infine entrano le tre fate giardiniere, che hanno il compito di tagliare tutte le rose del giardino per scongiurare l’effetto dell’incantesimo. Si muovono una dietro l’altra, instupidite, caotiche, confusionarie, strette in una tuta arancione che, come per un cortocircuito, ci rimanda non allo spettacolo, ma alle illustrazioni di Biancaneve in cui i nanetti per andare a lavoro indossano le medesime divise.

Rosaspina ha quindici anni (il corpo esile, quasi androgino della Verginelli ben si adatta a dimostrare questa età), e ha vissuto senza mai uscire di casa, nella vana speranza che la vita non se la porti via, frastornata dalle urla dei regali genitori che come giocattoli impazziti si affacciano in scena, sfilano, gesticolano e sbraitano in un tagliente siciliano. Ai lati del palcoscenico compaiono i regali delle fate per la sua nascita e Rosaspina, tra profumi, rossetti e un abito rosso fuoco (colore perturbante per definizione), mentre intona «salvate le sue labbra, salvate il suo sorriso» di Georgie di De Andrè, finisce per andare in cerca della rosa che le sarà letale cadendo in un sonno fatto di sogni e incubi.

 La bella Rosaspina addormentata, foto di scena di Carmine Maringola (2013) La bella Rosaspina addormentata, foto di scena di Carmine Maringola (2013)

Rosaspina si accascia a terra tra gli spasmi mentre, sulle note di Albachiara di Vasco Rossi, i genitori cominciano a farle indossare le dieci camicie da notte; ed ecco che lo spettacolo torna al suo inizio con il principe che la risveglia sussurrandole parole d’amore. Come le aveva detto all’inizio:

Principe: È passato un secolo da quando ti sei addormentata, e ne sono successe di cose nel frattempo! Prima e seconda guerra mondiale, gli anni Settanta, i Beatles, la televisione, i matrimoni gay, facebook…(LPE, p. 14)

Nel passaggio dalla favola antica al tempo presente, cambia anche la sembianza dell’amore. E allora non c’è da stupirsi se durante il valzer, scoperto che il principe in realtà è una donna le due si baciano appassionatament, poiché  l'amore assoluto vince sempre e comunque, al di là da condizionamenti di genere.

Lo spettacolo viene scandito da ritmi diversi, non sempre perfettamente omogenei ma di sicuro impatto: se l’incipit risulta molto poetico, la prima parte, con al centro la presentazione delle fate, è urlata, sgraziata, decisamente pop; più sfumato e autentico il processo che porta Rosaspina a diventare adulta attraverso la scoperta dei doni. L’andamento della performance segue quindi i toni della drammaturgia sonora, calibrata con giochi di iperbole e graffi rock. La recitazione, grazie anche all’interessante mix di siciliano e italiano, punta sulla spossante logorrea dei genitori di Rosaspina che regala al lavoro punte di smagata leggerezza mentre il principe/principessa potrebbe godere di maggiore forza ed energia: nei dialoghi con Rosaspina sembra quasi che gli/le manchi una convinzione di fondo, viziata forse da un eccessivo romanticismo e da una parlata fiabesca che però mal si adatta con il resto della scrittura. Lo spazio è, come sempre, essenziale; questa volta Dante punta su un ambiente appena illuminato, l’unico elemento scenico è un pannello centrale ricoperto di tappeti, drappi e cuscini di raso, il resto somiglia una tabula rasa a disposizione delle tre interpreti che ci regalano una grande prova d’attrice.

Se l’intera trilogia di Dante cerca di affrontare il delicato e difficile passaggio dall’infanzia all’età adulta, con tutte le implicazioni che ne conseguono, Rosaspina è – sulla scia degli studi che vanno da Propp a Fromm –[28] un vero e proprio viaggio di formazione della persona, un rito d’iniziazione al mondo: si tratta quindi di una riscrittura etno-pop della fiaba che trasforma la protagonista in una ragazza attuale ed emancipata.

La versione a stampa del 2014 edita da Baldini&Castoldi è, come i casi precedenti, ricca di dialoghi schietti e pungenti che conferiscono alla scrittura un ritmo particolare che forse convince di più di quel che accade sulle assi del palcoscenico. Rosaspina, alla stregua di Cenerentola e Biancaneve, vive quello che la stessa Dante ha definito «un passaggio carnale dal racconto orale alla pagina scritta», [29] che non funzionerebbe senza le illustrazioni di Costa. {scattinas_dante_s_fig16| La bella Rosaspina addormentata, illustrazione di Maria Cristina Costa (2013)}

L’illustratrice si diverte a farci vedere i volti taglienti e grotteschi, oltre che i look multicolor, delle fatine che sfilano al cospetto di re e regina. A gruppi di tre, cromaticamente affiancate, sono figure poco rassicuranti, vestite in maniera moderna e originale. Particolarmente delicata e sognante è la tavola che raffigura il risveglio di Rosaspina fra le braccia del suo principe, in cui le camicie formano una cornice per il testo. Ancora una volta le illustrazioni integrano la potenza della parola scritta creando continui effetti di enfasi e raddoppiamento.

 La bella Rosaspina addormentata, illustrazione di Maria Cristina Costa (2013) La bella Rosaspina addormentata, illustrazione di Maria Cristina Costa (2013) La bella Rosaspina addormentata, illustrazione di Maria Cristina Costa (2013)

Se lo spettacolo vibra in virtù della varietà tonale delle voci il volume si anima grazie alle prospettive e alle sagome disegnate da Costa, sempre in piena sintonia con le tematiche del teatro di Emma e con la sua visione ‘quasi maieutica’.

 

5. Non tutti vissero felici e contenti

Le fiabe, si sa, raccontano il nostro mondo e i nostri rituali quotidiani, il tutto trasposto in avvincenti forme simboliche che celano implicazioni esistenziali. Agli inizi degli anni ’90 il panorama stagnante del teatro-ragazzi viene scosso dalla ricerca della Socìetas Raffaello Sanzio che, grazie a una serie di spettacoli (Hänsel e Gretel, percorso nel buio e nella paura, Buchettino, il Bestione, L’uccello di fuoco – solo per citare i più eloquenti), produce un corto circuito fra visione e racconto, mettendo in circolo nuovi temi e dinamiche dal forte valore pedagogico. Non è del tutto distante da queste esperienze la sfida di Dante, che ha avvertito il bisogno di nuove contaminazioni e ha deciso più volte di interrompere il ‘suo’ teatro impegnato per dedicarsi a un pubblico di bambini, gli unici capaci di commentare ad alta voce in modo genuino e feroce, schietto e vero anche le scene che meno comprendevano.

Le sue principesse sono capaci di riscatto, si spingono oltre i bordi del testo: Cenerentola si sposa e non perdona affatto la matrigna cattiva, Rosaspina vive fino in fondo la sua scelta di libertà, e anche Biancaneve trova una dimensione di crescita e maggiore autonomia dentro un mondo fatto di miseria e dolore, in cui non tutto è fantastico.[30] Dopo la trilogia analizzata in queste pagine la regista si cimenta in Tre favole per un addio (2014) e Cappuccetto Rosso vs Cappuccetto Rosso (2015) mentre la lezione del mito si sedimenterà anche in altri progetti, tra cui spicca La scortecata (2017). Lungi dall’essere una mera parentesi, per Dante «il teatro delle favole è un modo per rimettersi in gioco, […] una sorta di regressione infantile […] per scoprire nuovi ritmi, ingranaggi di lavoro diversi».[31]

 

 


1 I. Calvino, ‘Introduzione’, in Fiabe italiane, pref. di M. Lavagnetto, Milano, Mondadori, 1993, p. 13.

2 Ibidem.

3 Cfr. A. Albanese, M. Arpaia, C. Russo (a cura di), L’oralità sulla scena, Napoli, L’Orientale University press, 2015.

4 Cfr. R. Gasparro, R. Mullini, Il meraviglioso teatrale tra fiaba e magia, Pescara, Edizioni Tracce, 1999.

5 L’elenco potrebbe essere ancora lungo: l’Alice underground di Bruni e Frongia, il recente Pinocchio di Latella o quello di Zaches Teatro; lo spettacolo The Black’s Tales Tour di Fibre parallele fino ai progetti di Giacomo Ferraù e Giulia Viana, ovvero Eco di Fondo, giovane compagnia milanese che ha scelto come filo conduttore la rilettura dei miti come metafora dei grandi temi che segnano la nostra epoca. Spettacoli in cui le icone delle fiabe piano piano si sgretolano, fino a diventare la realtà stessa.

6 Per la definizione della linea teatrale siculo-napoletana si veda: A. Acanfora, ‘La riscrittura nella letteratura teatrale siculo-napoletana. Romanzi, fiabe, leggende e cunti’, in La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena, Atti del XVI Congresso Nazionale Adi, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, a cura di G. Baldassarri, V. Di Iasio, P. Pecci, E. Pietrobon e F. Tomasi, Roma, ADI editore, 2014.

7 Nel 2007 Dante si cimenta nella scrittura di questa fiaba (L’Arboreto Edizioni, Santarcangelo di Romagna), in cui il racconto scritto è accompagnato da quello visivo da Gianluigi Toccafondo. Il protagonista di questa favola, un pesciolino, non sfugge al suo destino e anzi vi precipita dentro con grazia e naturalezza chiamato dalla voce dell’oceano.

8 Sulla ricerca teatrale di Vincenzo Pirrotta si veda S. Rimini, Le maschere non si scelgono a caso. Figure, corpi e voce del teatro-mondo di Vincenzo Pirrotta, Corazzano (PI), Titivillus, 2015.

9 Cfr. A. Celestini, Cecafumo. Storie da leggere ad alta voce. Roma, Donzelli, 2002 (testo e CD audio); Id., Giufà e re Salomone, illustrazioni di M. Celija, Roma, Donzelli, 2009.

10 Cfr. G. Basile, Il cunto de li cunti. Riscrittura di Roberto De Simone, Torino, Einaudi, 2002.

11 Alla 74esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è stato presentato il film in animazione Gatta Cenerentola, diretto da Ivan Cappiello, Marino Guarnieri, Alessandro Rak e Dario Sansone, 2017.

12 Cfr. ‘La terza avanguardia. Ortografie dell’ultima scena italiana’, a cura di S. Mei, dossier monografico in Culture teatrali, 2015.

13 Cfr. A. Barsotti, ‘Emma attraverso lo specchio: postdrammatico vs drammatico’, Prove di drammaturgia, a. XVI, n. 1, giugno 2010. Il numero di Prove di drammaturgie a cura di Gerardo Guccini è dedicato a Dramma vs Postdrammatico: Polarità a confronto a partire dal rapporto tra drammaturgia e messinscena così come definito da Lehmann nel 1999: Cfr. H.-T. Lehmann, Postdramatic Theatre, London and New York, Routledge, 2006.

14La regista siciliana ha deciso di misurarsi con il teatro per ragazzi all’interno del progetto “Favole per bambini e adulti”.

15Cfr. E. Dante, Le principesse di Emma, illustrazioni di Maria Cristina Costa, Milano, Baldini&Castoldi, 2014.

16 Sono molti gli scrittori e i registi che si avvalgono del disegno per mettere a fuoco personaggi o ambienti. Celebri gli schizzi di Federico Fellini o i disegni di Dario Fo. Cfr. A. Balzola, M. Pizza, Il teatro a disegni di Dario Fo, Milano, Scalpendi 2016; Cfr. S. Scattina, ‘Andrea Balzola, Marisa Pizza, Il teatro a disegni di Dario Fo’, Arabeschi, 9, gennaio-giugno 2017, pp. 137-140, http://www.arabeschi.it/andrea-balzola-marisa-pizza-il-teatro-a-disegni-di-dario-fo-con-franca-rame-/.

17 A. Barsotti, La lingua teatrale di Emma Dante. mPalermu, Carnezzeria, Vita mia, Pisa, Edizioni ETS, 2009, p. 44.

18A proposito dell’ambientazione siciliana occorre ricordare che nella raccolta Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani Pitrè trascrive una versione siciliana di Cenerentola, dal titolo Gràttula-beddàttula, ovvero la fiaba dei datteri, in cui però non è conservato il motivo della pantofola smarrita e la protagonista si chiama Ninetta. Cfr. G. Pitrè, Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, Bologna, Forni editore, I, 1968, pp. 368-380. Calvino, poi, inserisce nelle Fiabe italiane la traduzione della versione siciliana proposta da Pitrè. Cfr. I. Calvino, Fiabe italiane, III, pp. 762-769; 1104-1105.

19 Le fonti utilizzate per l’analisi sono state la registrazione audiovisiva fornita da Emma Dante e il volume edito da Baldini& Castoldi nel 2014. Il confronto fra la registrazione audiovisiva e il testo stampato permette di evidenziare poche differenze:cfr. E. Dante, Le principesse di Emma, p. 125. D’ora in poi, il volume di Dante verrà indicato con la sigla LPE.

20 La Dante tornerà a misurarsi con Cenerentola in una regia lirica del 2016 (La Cenerentola – ossia La bontà in trionfo fu l’ultima opera buffa musicata da Rossini). Uno spettacolo accattivante che denuncia le prepotenze e le angherie inferte tra quattro mura a una povera ragazza. Cenerentola passa attraverso una chiave di lettura spiccatamente pop surrealista nei colori e nelle acconciature, fra cartoon, fumetti e tatuaggi.

21 Cfr. M. D’Amora, Se cantar mi fai d’amore... La drammaturgia di Annibale Ruccello, Roma, Bulzoni, 2011, p. 32.

22 L. Mango, ‘La scrittura dei suoni’, in Id., La scrittura scenica, Roma, Bulzoni, 2001, p. 363.

23 Cfr. S. Stefanelli, ‘Lingua e teatro, oggi’, in La lingua italiana in movimento, Incontri del Centro di Studi di grammatica italiana, Firenze, Accademia della Crusca, 1982, pp. 161-179; M. Cortelazzo, ‘Dialetto e teatro’, in M. Cortelazzo, C. Marcato, N. De Blasi, G. P. Clivio (a cura di), I dialetti italiani. Storia, struttura, uso, Torino, UTET, 2002, pp. 1029-1034. Per quest’aspetto si veda anche P. Puppa (a cura di), Lingua e lingue nel teatro italiano, Roma, Bulzoni, 2007. In particolare sulla lingua teatrale di Emma Dante si rimanda a A. Barsotti, Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante, contributo disponibile sul sito <http://www.drammaturgia.it/saggi/saggio.php?id=3546> e <http://drammaturgia.fupress.net/saggi/saggio.php?id=3547> [accessed october 2017].

24 Operazione ricorrente: da Biancaneve bella sveglia di Francesca Crovara ed Emanuela Nava (Carthusia) alla Cenerentola griffata di Steven Guarnaccia (Corraini); da La bella addormentata è un tipo sveglio di Annalisa Strada (Piemme), dove Aurora, una volta ridestata, non vuole assolutamente convolare a nozze col bel principe, fino alle tante varianti di Cappuccetto Rosso (si veda la lunga carrellata fatta da Teresa Buongiorno, in Dizionario della fiaba, Lapis); da Roberto Vecchioni con Diario di un gatto con gli stivali (Einaudi) a Vladimir Luxuria con Le favole non dette (Bompiani).

25 Cfr. A. Carter, La camera di sangue [1979], Feltrinelli, Milano, 1995. La Carter ha riscritto alcune delle più note favole con l’intento di estrarre da queste storie i lati meno espliciti di significato. Le figure femminili riescono, in queste versioni, a diventare le vere protagoniste e a riscattarsi dalla condizione subalterna che viene loro attribuita per convenzione.

26Le successive messe in scena fiabesche delle Dante si fanno, se vogliamo, ancora più impegnative. Affronterà il tema della crisi d'identità, come nel caso di Cappuccetto rosso vs Cappuccetto rosso (2015), favola che racconta una ‘guerra’ particolare, tra una bambina grassa e il suo alter ego magro (favola inserita nella rassegna “Le favole nei giorni di festa”, Vicaria) ed arriverà nel 2014 a portare in scena le storie di Andersen, che, rispetto a Perrault o ai Grimm, risultano meno edulcorate e a volte addirittura spietate. Tre favole per un addio: La Piccola Fiammiferaia, La Sirenetta, Scarpette Rosse (Elena Borgogni, Italia Carroccio e Davide Celona) raccontano a piccoli e adulti la morte con una sintassi laica, facendo a meno del paradiso e dell’inferno, ma usando la bontà e la cattiveria degli uomini. Ancora una volta è potente nel suo teatro la capacità di far fare al corpo degli attori movimenti che sanno narrare meglio delle parole.

27 E. Dante, Le principesse di Emma, p. 10.

28 Cfr. V. Propp, Morfologia della fiaba, a cura di G.L. Bravo, Torino, Einaudi, 2000; Id., Le radici storiche dei racconti di fate, trad. it. di C. Coïsson, Torino, Bollati Boringhieri, 2012; E. Fromm, Il linguaggio dimenticato. Introduzione alla comprensione dei sogni, delle fiabe e dei miti, trad. it. di G. Brianzoni, Milano, Bompiani, 1962.

30La stessa copertina del volume per Baldini&Castoldi racchiude le tre principesse attraverso dei simboli riletti in chiave contemporanea: il piumino di Cenerentola è spezzato dalla determinazione della mano che lo tiene; la mela morsicata di Biancaneve è all’interno di una bustina trasparente pronta per essere esaminata dai RIS, e la rosa con lunghe spine di Rosaspina è tenuta con un guantone da cucina per evitare punture indesiderate.

31 A. Bandettini, ‘Biancaneve è siciliana così Emma Dante deforma Perrault’, la Repubblica.it, 28 dicembre 2011, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/12/28/biancaneve-siciliana-cosi-emma-dante-deforma-perrault.html [accessed June 2017].