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Il recente film-opera Gianni Schicchi di Damiano Michieletto ha spiazzato tutte le aspettative. Pur aderendo alla tradizione del recitar cantando, il regista veneziano ha infatti introdotto delle sostanziali novità drammaturgiche e stilistiche, intervenendo con decisione sul libretto e adoperando appieno gli elementi della grammatica filmica (piani sequenza, veloci carrelli, zoom). L’analisi propone un’interpretazione del lavoro registico che poggia sulla tesi, ipotizzata dallo stesso Michieletto, che l’opera di Puccini sia stata influenzata dalla settima arte, e che pertanto si presti particolarmente bene a diventare un film. Partendo da tale presupposto la riflessione indaga il nuovo trattamento cinematografico della materia pucciniana, spinto sul piano del ritmo, del divertimento, dell’attualizzazione contemporanea, mettendolo in relazione ai precedenti più significativi della commedia nel cinema operistico: Figaro e la sua gran giornata di Mario Camerini, Il barbiere di Siviglia di Mario Costa, Figaro il barbiere di Siviglia di Camillo Mastrocinque, Avanti a lui tremava tutta Roma di Carmine Gallone.

The recent film-opera Gianni Schicchi by Damiano Michieletto has displaced all expectations. While adhering to the tradition of recitar cantando, the Venetian director has in fact introduced significant dramaturgical and stylistic innovations, intervening decisively on the libretto and making full use of the elements of film grammar (long takes, fast tracking shots, zooms). The analysis proposes an interpretation of the director’s work based on the thesis, hypothesized by Michieletto himself, that Puccini’s opera has been influenced by the seventh art, and therefore lends itself particularly well to becoming a film. Starting from this assumption, the reflection investigates the new cinematographic treatment of Puccini’s material, pushed on the level of rhythm, amusement and contemporary actualization, putting it in relation to the most significant precedents of comedy in opera films: Figaro e la sua gran giornata by Mario Camerini, Il barbiere di Siviglia by Mario Costa, Figaro il barbiere di Siviglia by Camillo Mastrocinque, Avanti a lui tremava tutta Roma by Carmine Gallone.

 

Secondo Damiano Michieletto, regista del film Gianni Schicchi presentato al Torino Film Festival nel novembre 2021 e poco dopo messo in onda dalle reti Rai, l’opera di Giacomo Puccini si presta in modo particolare a diventare un film. Questo perché il compositore toscano, tra i grandi autori italiani di melodrammi, è il primo a operare pienamente quando la settima arte si sta già diffondendo nel mondo, rivoluzionando in modo definitivo l’idea stessa di spettacolo e la sua fruizione da parte del pubblico. Lo ha dichiarato lo stesso regista ai microfoni di Hollywood Party – storica trasmissione dedicata al cinema di Rai Radio 3 –, raccontando le sfide che consapevolmente ha voluto affrontare dirigendo questo film. Sfide che sono tutt’altro che banali: Michieletto ha scelto di restare fedele alla grande e nobile tradizione italiana del ‘recitar cantando’, e quindi di realizzare quello che tecnicamente si definisce un film-opera, impreziosito da un prologo nel quale domina la scena Giancarlo Giannini; al tempo stesso, però, ha voluto mettere le mani con decisione sul libretto, trasportando in epoca contemporanea la vicenda. In questo modo si è perso il diretto riferimento dantesco che è presente nel testo, e che vede lo stesso Dante incontrare Gianni Schicchi nella decima Bolgia (il canto è il XXX dell’Inferno, e si conclude com’è noto con una dura reprimenda di Virgilio nei confronti del poeta toscano), punito insieme agli altri falsari, tra i quali Mirra. Insomma, non si può dire che il regista veneziano abbia scelto la strada più facile per questo film-opera: e proprio l’aver affrontato scientemente ostacoli di ogni tipo lo ha portato a realizzare uno spettacolo nuovo, vivo, brillante.

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Tra le recenti riscritture registiche dei drammi antichi spiccano le tragedie – Coefore Eumenidi e Baccanti – portate in scena da Davide Livermore e Carlus Padrissa alla cinquantaseiesima edizione del festival del Teatro Greco di Siracusa. Il saggio, a partire da una riflessione sulle modalità stilistiche del ‘ritorno all’antico’, analizza intenzioni e procedimenti compositivi delle scritture sceniche di Livermore e Padrissa. Pur con opzioni autoriali diverse, negli spettacoli esaminati i registi non si limitano a un semplice lavoro di adattamento, ma mettono in pratica una convinta riformazione tecnologica e performativa delle retoriche del tragico, in cui si intrecciano aura mitica e temi civili contemporanei in funzione di un teatro intimamente politico.

Among the recent directorial rewrites of ancient dramas stand out the tragedies – Coefore Eumenidi and Baccanti – staged by Davide Livermore and Carlus Padrissa at the fifty-sixth edition of the Greek Theatre festival in Syracuse. The essay, starting from a reflection on the stylistic modes of the ‘return to the ancient’, analyzes intentions and compositional procedures of Livermore and Padrissa’s scenic writings. Even with different authorial options, in the performances examined the directors are not limited to a simple work of adaptation, but carry out a convinced technological and performative reformation of the rhetoric of the tragic, interweaving mythical aura and contemporary civil themes in the function of a deeply political theatre.

 

Slittata dalla primavera all’estate a causa dell’emergenza Covid-19, il 3 luglio 2021 è iniziata la cinquantaseiesima edizione del Festival delle Rappresentazioni Classiche della Fondazione INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico). Agli spettatori che fino al 21 agosto occuperanno le gradinate rupestri della cavea siracusana l’INDA offre un programma di grande impatto, che dialoga con la mostra multimediale “Orestea atto secondo” allestita a Palazzo Greco, e volta a commemorare – in stretto parallelismo con l’oggi – la ripresa degli spettacoli classici nel 1921, dopo la Grande Guerra e l’epidemia di influenza Spagnola.

Tre ensemble femminili del mito sono i protagonisti dell’attuale cartellone: Coefore Eumenidi di Eschilo portato in scena da Davide Livermore, qui alla seconda esperienza siracusana dopo l’Elena del 2019; Baccanti di Euripide, diretto da Carlus Padrissa; e Nuvole di Aristofane, con la regia di Antonio Calenda. In attesa di aggiungere allo sguardo l’occasione ludica del dramma satiresco concentriamo la visione analitica dentro il perimetro del tragico, optando per una riflessione ‘a doppio binario’ che prova a tenere insieme i processi di invenzione ed elaborazione registica degli spettacoli di Livermore e Padrissa.

 

 

1. Davide Livermore, Coefore Eumenidi

L’archivio delle attualizzazioni contemporanee dei drammi antichi, sulla scia di Cristina Baldacci, si può definire un ‘archivio impossibile’,[1] a tal punto sono numerose le ricreazioni del mito, sia drammaturgiche che sceniche, nella storia del teatro moderno. Pur in una sconfinata gamma di forme rappresentative tutte si sono sempre mosse tra «i due estremi dell’archeologia, con il tentativo di ricostruzione filologica della rappresentazione classica, e dell’attualizzazione critica del modello, in funzione del contesto storico, politico, sociale e culturale d’arrivo».[2] Su questa dicotomica altalena stilistica non è semplice acquisire un assetto, e spesso la scelta prevalente è stata quella di imboccare in modo netto una sola strada interpretativa, piuttosto che raggiungere un equilibrio dinamico tra i due poli.

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Da quando Agnès Varda, regista francese di origini belghe classe 1928, ci ha lasciati nel 2019 tante proiezioni fisiche o in streaming e la pubblicazione in cofanetto di tutti i suoi film hanno continuato a rievocarne la lezione attraverso la sua produzione quasi irriducibile per ricchezza e varietà. Per questo fra immagini e parole, in omaggio anche alla sua idea di cinescrittura, si è scelto di presentarne idee, opere ed eredità attraverso un ‘alfabeto vardiano’ che propone un indice per un orientamento ragionato.

Since Agnès Varda (the French film director born in Belgium on 1928) left us in 2019, many physical or online screenings or promotions through DVD boxes of all her films have continued to evoke her lessons through her irreducible production for its richness and variety. For this reason, between images and words in honor to her concept of cine-writing, we have chosen to present her ideas, works, and legacies through an alphabet about them in order to propose a reasoned introduction.

 

 

 

 

Arti

Agnès Varda non approda al cinema con un canonico percorso di formazione ed è forse questo che ha reso quasi naturale la sua continua sperimentazione autoriale, contrassegnata dall’appropriazione spontanea di ogni tipo di linguaggio fra cinema, televisione, letteratura, arti figurative e plastiche.

Nata nel sud della Francia, da madre francese e padre greco, dopo i primi studi letterari a Parigi, si dedica alla storia dell’arte per diventare curatrice museale. È la fotografia, però, l’incontro più incisivo grazie alla frequentazione di una scuola che la porterà a lavorare per molti anni come fotografa, soprattutto di scena.

Di quest’humus resta la propensione alla commistione artistica di generi mediali, modalità espressive e riferimenti culturali in ogni sua attività e produzione visuale. Il lavoro di Agnès Varda con le immagini prosegue infatti quasi in ogni direzione.

Nei suoi film si ritrovano fotografia, animazione, vignette, cartoline, elementi figurativi, opere scultoree e architettoniche. Sin dal 1967, poi, lavora per la televisione con il corto Les engants du Musée (per la serie Chroniques de France), cui segue il successivo film televisivo Nausicaa del 1970 sugli esiliati in Francia dalla Grecia dei Colonnelli (mai trasmesso in realtà e andato distrutto). Anche questo mezzo diventa per lei motivo di sperimentazione: in Une minute pour une image (1983), episodio per una serie, mostra per sessanta secondi un’unica immagine. Con il passaggio al digitale, si dedica a un’intera miniserie televisiva nel 2011, Agnès de ci de là Varda.

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Spinto dal desiderio di confrontarsi con la parola di Giovanni Testori, con la sua potente teatralizzazione della grammatica, Roberto Latini ha portato in scena il famoso monologo testoriano In exitu (1988). Il contributo analizza e interpreta lo spettacolo dell’attore-dramaturg romano attraverso una riflessione sul senso ideologico del testo, sul suo messaggio sociale ancora vivo e urgente. L’itinerario di indagine tracciato è perciò declinato in due momenti: il recap essenziale della storia e dei temi della drammaturgia di Testori che consente di contestualizzare, nella seconda parte del testo, la lettura critica delle forme di recitazione e di scrittura scenica adottate da Latini nella sua performance. La tesi che salda i due movimenti dell’analisi rileva un deciso ‘inarcamento’ di sensibilità artistica che avvicina Latini a Testori; una ‘corrispondenza d’amorosi sensi’ che assegna alla messinscena dell’attore un forte impatto emotivo, e soprattutto la rende paradigmatica del significato profondo dell’opera testoriana, del suo valore espressivo e morale. 

Driven by the desire to confronted with the words of Giovanni Testori, with his strong theatricalization of grammar, Roberto Latini hasstaged the testorian famous monologue In exitu (1988). This paper analyzes and interprets the show of the roman actor-dramaturg through a reflection on the ideologic meaning of the text, on its existing and urgent social message. Therefore the itinerary of research is structured in two moments: the essential recap of history and themes of Testori’s dramaturgy that allows to contextualize, in the second part, the critical reading of the forms of acting and scenic writing adopted by Latini in his performance. The thesis that welds the two movements of the analysis reveals a sharply ‘bending’ of artistic sensibility that brings Latini closer to Testori; a ‘correspondence of loving senses’ that gives to the actor’s performance a strong emotional impact, and makes it paradigmatic of the profound meaning of the testorian work, of its expressive and moral value.  

Lui la vede la sua anima,

un lenzuolo bianco che sbatte in balìa del vento,

fra cielo e Dio.

Markus Hediger

 

 

1. Alla radice del messaggio testoriano

«Essere non o essere» recitava Roberto Latini, con un espressivo capovolgimento del monologo di Amleto nello spettacolo Essere e Non _ le apparizioni degli spettri in Shakespeare (2001). Quasi vent’anni più tardi un imprevedibile fil rouge lega l’interrogativo sospeso fra il niente (l’essere non) e l’essere del giovane Latini all’«angoscia del niente»[1] del giovane Riboldi Gino creato da Giovanni Testori, personaggio che si sottopone ad ogni degradazione possibile, che non ha più nulla da perdere, che raggiunge il limite estremo dell’abiezione, arrivando a sentirsi esso stesso ‘niente’: «Riboldi-niènt, Gino-niènt, Gino-nòsingh, nòsingh-Gino, nòsingh-niènt […]».[2]

L’inclinazione verso un punto di vista esplicitamente esistenziale, affacciato sulla dimensione profonda dell’individuo, in cerca di una «possibile pantografia della condizione umana»,[3] salda l’itinerario di pensiero dell’intellettuale lombardo alla quête artistica dell’attore-regista e dramaturg romano, in una consonanza di sentimenti e ispirazioni che va ben oltre il tracciato biografico. La distanza geografica e storica che separa Testori e Latini si riassorbe e scompare in una ‘corrispondenza d’amorosi sensi’, incarnata nell’interpretazione dell’attore di uno dei personaggi più forti, dirompenti e difficili della mitopoiesi testoriana: Riboldi Gino, protagonista del monologo In exitu.

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Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli esperimenti di traduzione scenica di favole e miti con risultati compositivi davvero interessanti. Anche Emma Dante non è rimasta insensibile al fascino della fiaba e con Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, Gli alti e bassi di Biancaneve e La bella Rosaspina addormentata si accosta all’elemento fiabesco ironizzando e capovolgendo stereotipi di genere e luoghi comuni (le tre fiabe sono poi confluite in un interessante progetto di riscrittura testuale e visiva per i tipi Baldini&Castoldi, grazie alle tavole illustrate di Maria Cristina Costa). Il saggio punta l’attenzione su questi tre spettacoli che ripropongono gli stessi ingredienti delle sue messe in scena: recitazione, provocazione, corpo, fisicità, immaginazione, parola. 

Over the last few years, the experimentation of turning fables and myths into stage productions has grown in number with very interesting results. Even Emma Dante has not been insensitive to the charm of the fairy tale, and with Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, Gli alti e bassi di Biancaneve and La bella Rosaspina addormentata, approaches the fairy tales ironically, flipping stereotypes of gender and changing locations (the three fairy taleshave then come to an interesting textual and visual rewrite project for the Baldini & Castoldi types, thanks to the illustrated tables of Maria Cristina Costa). This essay focuses on the three shows that are part of that constant search in which Dante inserts all her performing elements: acting, provocation, body, imagination, word. 

1. C’era una volta…

«Le fiabe sono vere» scriveva Italo Calvino nell’introduzione alle Fiabe italiane, «sono, prese tutte insieme […], una spiegazione generale della vita…». Il teatro ha accolto fin dalle origini la suggestione di temi e storie ‘orali’ e nel corso della sua evoluzione ha messo a punto strategie retoriche sempre più convincenti nella resa di fiabe e racconti. Se il mythos tragico ha costituito la matrice autentica della fondazione di una prassi drammaturgica e scenografica, il Rinascimento ha contribuito alla codificazione di un nuovo genere che già nella sua titolazione richiama la forza e la pregnanza delle fabulae. La «favola pastorale» rappresentava infatti il tentativo di contemperare elementi propri della tradizione classica con un vitale slancio compositivo legato agli umori e alle sfrenatezze di corte; si trattava di delectare il pubblico attraverso exempla di ordine moraleggiante: il teatro era già inteso come arte fecondamente paideutica. Il barocco avrebbe aggiunto a tale quadro paradigmatico l’ossessione per quella ‘poetica della meraviglia’ che, oltre a stimolare una straordinaria profusione di ‘effetti speciali’, richiamava da vicino le atmosfere incantevoli di leggende e archetipi mitologici.

La progressiva costituzione di repertori fiabeschi rende gli intrecci tra favole e teatro ancor più stringenti al punto che è difficile separare nettamente i due ambiti: la magia della scena fa sì che ogni storia si trasformi in sogno (o in incubo), come del resto testimonia la grandezza delle invenzioni shakespeariane. Dobbiamo arrivare all’Ottocento per assistere ad una grande fioritura della fiaba. Il danese Andersen, i fratelli tedeschi Grimm, il russo Afansjeu ci hanno lasciato le più belle fiabe del secolo. In Italia, Collodi riscrive nei suoi Racconti delle fate le fiabe immortali del francese Perrault, dando ad esse una vivacità tutta toscana. Luigi Capuana, pur essendo il caposcuola del verismo, considera le fiabe come una porta da tenersi sempre aperta sull’irrazionale e sul fantastico. Infine, Giuseppe Pitrè, sempre interessato alle tradizioni regionali italiane, trascrive nelle sue Novelle antiche fiabe raccolte dalla viva voce della gente.

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

È difficile descrivere il ruolo di Violetta utilizzando una sola parola. Le figure come la sua sono identificate attraverso il neologismo Ê»YouTuberʼ, definizione che è però percepita con un’accezione negativa, sia dai creativi che dal senso comune (Andò, Marinelli 2016, p. 74). È comprensibile che Ê»YouTuberʼ sia un termine insoddisfacente, poiché indica essere in funzione esclusiva di una piattaforma dall’identità ambigua e fluttuante, in costante cambiamento, non ben definibile se non come contenitore di contenuti che segue le pure e dure strategie di mercato, senza dare una precisa immagine di sé, né in termini di valori né in termini di estetica. Se all’interno della piattaforma si escludono i contenuti costruiti ad hoc e quelli delle celebrità affermate tramite altri media (caso che meriterebbe considerazioni a parte), si avverte, infatti, una generale volontà di affermare la propria professionalità altrove. La piattaforma è vista come un punto di appoggio, un luogo dove crescere e non un punto di arrivo. YouTube nasce come community per la condivisione di video amatoriali, ma i suoi contenuti, sempre più collegati alle logiche del profitto, ben presto hanno virato al professionismo, così che il profilo attuale della piattaforma vede un sovrapporsi tra User Genered Content (UGC) e Professional Genered Content (PGC) (Burgess 2012, p. 53). La naturale spontaneità degli UGC di qualsiasi piattaforma, unitariamente alla grande utenza e al rapporto di fiducia instaurato tra i creatori di contenuti e il proprio pubblico, hanno inevitabilmente attirato l'attenzione di aziende di ogni tipo, che hanno individuato la potenzialità commerciale dei video. Così anche YouTube si è arricchito sempre più di ads, brandend contents, product placement, infuencers e link sponsorizzati, trasformandosi apparentemente in un immane Carosello. Così come quest’ultimo aveva lo scopo di «annacquare la brutalità del messaggio commerciale» (Boariu 2012, p. 124), si può dire che in YouTube le aziende abbiano trovato un modo per rendere più Ê»digeribiliʼ i messaggi pubblicitari, se non addirittura per farli passare sotto mentite spoglie. La situazione è comunque complessa: così come nella vita quotidiana è quasi impossibile non citare dei marchi, anche sul Web si fa spesso pubblicità involontariamente, e questo le aziende lo sanno bene. In tal senso, anche possedere un determinato oggetto o condividere certe attività significa pubblicizzare e alimentare l’immaginario legato ad un brand (Andò, Marinelli 2016, p. 135), il che rende quasi impossibile, se non è segnalato, distinguere un contenuto sponsorizzato da uno che non lo è. Non si può ignorare il grande numero di brand citati sul Web, ma allo stesso tempo non è chiaro il modo in cui un brand abbia a che fare con i contenuti, se si tratti di un’effettiva sponsorizzazione o di una citazione, e questa ambiguità rende difficili le definizioni. A differenza di altre produzioni audiovisive professionali, la maggior parte dei contenuti di YouTube è a carico di singoli o di piccoli gruppi, che si occupano in prima persona di tutti gli aspetti della produzione, del rapporto con il pubblico e con le aziende, e della presentazione della propria immagine (Andò, Marinelli 2016, p. 17). Proprio grazie alle sponsorizzazioni i creators possono ottenere dei guadagni che, soprattutto inizialmente, tendono ad investire per migliorare i contenuti a livello tecnico. In alcuni casi si rivolgono a delle agenzie che, in modo più o meno invasivo, fanno da tramite con gli sponsor, suggerendo strategie comunicative.

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Non c’è bisogno di arrivare alla fine di questa intervista per capire che Alessio Pizzech (Livorno, classe 1972) è un regista sui faber: a nove anni la folgorazione per il teatro, luogo in cui la fragilità può rivelarsi forza, poi tanta gavetta autonoma (preferita alla tradizionale sequela). Adesso è una delle personalità più interessanti del panorama teatrale internazionale e con disinvoltura oltrepassa (o forse abita) la soglia che separa prosa e teatro musicale. Da sempre alla ricerca di autori complessi e scomodi di cui sviscerare le domande, ritiene che il teatro (italiano) abbia bisogno di direzioni curiose e coraggiose. La regia? Un mestiere ancora assai giovane. Il regista? Un abusivo…

Biagio Scuderi: Quando è nata la passione per il teatro?

 

Alessio Pizzech: Ricordo che a nove anni, mentre recitavo un pezzo da un poemetto conviviale di Pascoli intitolato La scuola dei paggi, mi inginocchiai su un lettino che faceva parte della scenografia e cominciai a piangere, recitavo piangendo; alzai gli occhi e mi accorsi che attorno a me piangevano tutti. Era successo qualcosa, quella fragilità che contraddistingueva il mio carattere in quel momento era diventata una forza, qualcosa che poteva essere ‘utile’, forse una piccola forma di potere, ciò che sentivo io lo sentivano anche gli altri; mi sembrò una sorta di rivelazione, una strada per me e per la mia vita.

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Riconduci i tuoi modelli alle tue regole:

esse ti lasceranno agire in loro e tu li lascerai agire in te.

Robert Bresson, Note sul cinematografo

 

 

1979. Gabriella Rosaleva lascia la scuola di cinema e decide di acquistare una Super8. Comincia a girare piccoli lavori. La svolta arriva l’anno successivo, nel 1980, quando si propone di realizzare tre cortometraggi: Cornelia, L’isola Virginia, La borsetta scarlatta [fig. 1].

Daniela Morelli nasce a Varese, stessa città di Gabriella Rosaleva. Studia recitazione alla Scuola del Piccolo Teatro a Milano, fondata da Paolo Grassi, dal 1972 al 1974. Nel 1980 viene contattata dalla regista che le propone il ruolo di protagonista per tutte e tre le pellicole [fig. 2].

Tra Rosaleva e Morelli nasce un sodalizio artistico che perdura negli anni e che porterà le due donne a collaborare in numerose e fruttuose occasioni. Rosaleva rimane colpita da diverse caratteristiche di Daniela Morelli: quell’aria un po’ irlandese che emana grazie alla folta chioma rossa, l’eleganza dei modi; il fascino che Morelli sprigiona convince la regista a sceglierla come protagonista assoluta dei suoi primi lavori. «La mia prima trilogia l’ho fatta con lei. I miei lavori più importanti li ho fatti con lei», afferma Rosaleva nell’intervista che mi ha concesso, quando le chiedo di raccontarmi gli inizi del loro rapporto.

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Prima di essere incluso nel cartellone di quest’anno dello Stabile torinese, L’Arialda di Malosti è stato visto, nel maggio 2015, come saggio finale di diploma della scuola del TST. Il titolo era I segreti di Milano e anche la struttura era un po’ diversa, trattandosi di un montaggio di L’Arialda e di alcuni duetti di La Maria Brasca (1960), la commedia scritta per Franca Valeri. Entrambe le opere appartengono al grande ciclo dei Segreti di Milano (1958-1961), composto anche da romanzi e da racconti, ciclo molto ampio che ha avuto, fra i suoi estimatori, Pier Paolo Pasolini (che voleva fare un film dal racconto Il dio di Roserio) e Visconti che vi attinge a piene mani per il film Rocco e i suoi fratelli (1960).

I saggi finali, si sa, passano spesso inosservati, forse ritenuti spettacoli fatti un po’ con la mano sinistra, tra un impegno e l’altro. Invece, questo progetto è stato diverso già dalle sue premesse. La compagnia ha dedicato molti mesi tanto allo studio delle opere, quanto ad approfondire il contesto storico, culturale ed espressivo in cui si è mosso Testori, anche coinvolgendo, secondo una consolidata metodologia di Malosti, studiosi di varie discipline (fra i quali Giovanni Agosti, curatore della nuova edizione di quello che è, forse, il più bel libro del Testori storico dell’arte, cioè Il gran teatro montano sul Sacro Monte di Varallo, che molto ha influenzato la scrittura di L’Arialda e di tutti i Segreti; Mauro Giori, che si è occupato dei rapporti tra Testori e Visconti dal punto di vista del cinema con le sue ricerche su Rocco e i suoi fratelli; io stessa, che proprio in quei mesi lavoravo alle bozze del mio libro sull’Arialda viscontiana).

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