Lui la vede la sua anima,
un lenzuolo bianco che sbatte in balìa del vento,
fra cielo e Dio.
Markus Hediger
1. Alla radice del messaggio testoriano
«Essere non o essere» recitava Roberto Latini, con un espressivo capovolgimento del monologo di Amleto nello spettacolo Essere e Non _ le apparizioni degli spettri in Shakespeare (2001). Quasi vent’anni più tardi un imprevedibile fil rouge lega l’interrogativo sospeso fra il niente (l’essere non) e l’essere del giovane Latini all’«angoscia del niente»[1] del giovane Riboldi Gino creato da Giovanni Testori, personaggio che si sottopone ad ogni degradazione possibile, che non ha più nulla da perdere, che raggiunge il limite estremo dell’abiezione, arrivando a sentirsi esso stesso ‘niente’: «Riboldi-niènt, Gino-niènt, Gino-nòsingh, nòsingh-Gino, nòsingh-niènt […]».[2]
L’inclinazione verso un punto di vista esplicitamente esistenziale, affacciato sulla dimensione profonda dell’individuo, in cerca di una «possibile pantografia della condizione umana»,[3] salda l’itinerario di pensiero dell’intellettuale lombardo alla quête artistica dell’attore-regista e dramaturg romano, in una consonanza di sentimenti e ispirazioni che va ben oltre il tracciato biografico. La distanza geografica e storica che separa Testori e Latini si riassorbe e scompare in una ‘corrispondenza d’amorosi sensi’, incarnata nell’interpretazione dell’attore di uno dei personaggi più forti, dirompenti e difficili della mitopoiesi testoriana: Riboldi Gino, protagonista del monologo In exitu.
Si deve al lungimirante acume di Sandro Lombardi e Federico Tiezzi, primi artefici del post-Testori, l’occasione dell’incontro tra le parole dello ‘scrivano’ di Novate e la scrittura scenica-attorica di Latini, attraverso una committenza subito accettata dall’interprete coinvolgendo i fondamentali compagni di gruppo (la compagnia fondata nel 1999 Fortebraccio Teatro) Gianluca Misiti, musicista e compositore, e Max Mugnai, light designer. Propiziato da un invito carico di risonanze testoriane, ma privo di qualsiasi sorveglianza rispetto al lavoro scenico,[4] ha preso forma lo spettacolo In exitu interpretato e diretto da Latini; che dopo una mirata anteprima al festival Primavera dei Teatri di Castrovillari, ormai uno dei luoghi di elezione della scena contemporanea,[5] ha debuttato l’8 giugno all’interno della dodicesima edizione del Napoli Teatro Festival. Incastonato nel dedalo di viuzze degli antichi Quartieri Spagnoli, il ‘ventre’ intimo e raccolto del Teatro Nuovo di Napoli è stato scelto per presentare quest’ultima riattivazione scenica del monologo testoriano, destinata a diventare una vera e propria milestone nel ricco mosaico di allestimenti contemporanei tratti dalla drammaturgia del Novatese.
Per leggere con efficacia l’operazione scenica di Latini, e comprendere quell’inarcamento di sensibilità con Testori di cui si è detto, occorre retrocedere nella storia di In exitu fino al momento del suo concepimento nell’arco della parabola artistica testoriana.
Siamo negli anni Ottanta e si sta consumando l’ultima stagione dello scrivano; l’incontro con l’attore «assolutamente antiaccademico»[6] Franco Branciaroli (ri)infiamma la vena espressiva di Testori e nasce così la ‘Branciatrilogia prima’, costituita da Confiteor, In exitu e Verbò. Sull’asse di un vero e proprio «pathos della vicinanza»[7] agli ultimi, agli ‘irreparabili’, sostenuto da una violenta quanto allarmata denuncia sociale, è plasmata in particolar modo la materia narrativa di In exitu.
Il testo è pubblicato come romanzo nel 1988, ma subito trasformato in copione teatrale interpretato da Testori stesso e dal talentuoso Franco Branciaroli.
Già il titolo del dramma anticipa il suo iter gnoseologico: l’espressione ‘in exitu’ (cioè ‘all’uscita’) riprende l’incipit del Salmo 114 nella versione della vulgata, contenente il canto di liberazione di Israele dall’Egitto, ovvero la celebrazione dell’uscita dalla schiavitù verso il riscatto e la salvezza.
Uno stesso itinerario in exitu dalla sofferenza e dalla miseria, marcato da un sovrasenso simbolico di segno cristologico, è quello percorso dal protagonista Riboldi Gino: un ragazzo proletario della periferia milanese che, devastato nella mente e nel corpo dalla dipendenza dall’eroina, sopravvive prostituendosi nei bagni della Stazione Centrale. La tragedia del «Ribò»,[8] eroinomane all’ultimo stadio, si consuma nel breve tragitto dalla scalinata al wc della «tutankamica»,[9] «elefantesca»[10] stazione milanese; un percorso scandito da spasmi e cadute, grida e invettive, richieste d’aiuto e di pietà, che assume la straziante cadenza di una via crucis fatalmente diretta a quel «loculo di latrina»[11] dove il giovane si inietterà l’overdose definitiva. Nel frettoloso e distratto train de vie della stazione ‘in notturna’ soltanto un uomo, lo scrivano metaletterario e metadrammaturgico, vede Gino,[12] si accorge del suo strascicare, del suo balbettare, urlare, singhiozzare, sopraffatto dalla confusione allucinatoria indotta dalla droga. Egli, letteralmente, si accosta al suo dolore, accompagnando e registrando nella scrittura il racconto convulso della sua miserabile vicenda umana.
Sappiamo che la stesura dell’opera impegnò Testori per diversi anni, nello sforzo di restituire sulla pagina la voce del personaggio, il ritmo sincopato e il respiro fisico della fatica con cui la sua parola ‘drogata’ viene ad articolarsi. La scrittura esce così dalle forme canoniche della prassi letteraria per divenire una lingua spezzata in schegge sillabiche, sbriciolata in micro morfemi, inondata da una punteggiatura ‘a pioggia’ sovrabbondante e disgregante ogni assetto logico. Il violento drop attack di tutti i livelli grammaticali, unito al pastiche lessicale caratteristico di Testori, risponde a un moto di traslazione della psiche nella parola, della ‘forma mentis’ nella testualità, della materia inconscia nel linguaggio scrittorio, per cui allo smottamento cognitivo equivale quello stilistico: un piccolo miracolo di mimesi letteraria.
Nell’autunno del 1988 la messinscena di In exitu debuttò con la leggendaria première all’antico Teatro della Pergola, dove oltre la metà del perbenista pubblico fiorentino fu ‘turbata’ dalla crudezza della materia trattata e abbandonò la platea, gridando allo ‘scandalo’ di quella rappresentazione.
Nel suo messaggio di fraternità verso i bisognosi e gli emarginati, di esecrazione della violenza, dell’indifferenza, della disumanità, è riposto il senso ideologico di In exitu, che oggi lo spettacolo di Latini rilancia e rinnova, nella terra desolata di pietas dell’Italia contemporanea.
2. La partita teatrale di Latini
Il recap essenziale della storia e dei temi di In exitu è premessa indispensabile per inquadrare la sua presenza nell’orizzonte spettacolare odierno, cioè quello del dopo Testori.
Fino al 1993, anno della sua morte, Testori era stato prevalentemente isolato e contrastato dal contesto operativo e culturale sia milanese che nazionale. La sua drammaturgia, iper-audace nei contenuti e pluri-espressiva nel linguaggio, ha richiesto del tempo al teatro italiano per riuscire ad appropriarsene, a metabolizzarla, a metterla in circolo dentro la comune esperienza artistica. La (ri)scoperta teatrale di Testori avviene quindi solo dalla seconda metà degli anni Novanta, ma è subito entusiastica, contagiosa, necessaria per vivificare la scena contemporanea con la sua energia estetica, etica e intellettuale.
In questo vivace rinascimento testoriano la messa in scena di Latini è la terza ripresa di In exitu: prima vi sono stati i milanesi Michela Blasi Cortelazzi e Andrea Facciocchi nel 1997, seguiti nel 2013 da Lorenzo Loris del Teatro Out Off. Il ritorno a Testori coincide con un ritorno a un teatro di parola, che sta rilanciando il ruolo degli attori nei processi della creazione scenica italiana. Ne è un esempio pieno la performance testoriana di Latini, che inoltre possiede una chiara eccezionalità: nel quarto di secolo che è ormai trascorso dalla scomparsa dello scrivano, pur nel contesto della sua ampia fortuna scenica nel panorama nazionale, il febbrile dettato di In exitu solo raramente ha ricevuto un’incarnazione sulle assi del palco, segno di una difficoltà nel contenuto e nello stile che marca la tensione affabulatoria dell’opera. Il fondamento di questa difficoltà crediamo si possa rintracciare nel nucleo semantico del corpo, che informa tanto l’immaginazione letteraria quanto l’invenzione linguistica.
Il punctum dolens della focalizzazione drammatica è, con le esatte parole di Testori, un «pezzo di carne sfatta e morente»,[13] che nella sua fisiologica agonia si fa ‘remake’ del Christus patiens. Anche il linguaggio-idioletto, ancora con l’autore, è come se «avesse subito un terribile incidente che l’ha impiastrato alla sua essenza di corpo distrutto e lacerato […]».[14]
Proprio il corpo inteso come radice della prospettiva artistica ci sembra che sia l’anello di congiunzione Testori-Latini; ovviamente mutatis mutandis rispetto a un’idea di scenicità che nel caso dell’attore-regista, diversamente da quello dello scrivano, si avvale delle tecnologie elettroniche per «interrogare le potenzialità del corpo, per approfondire la sfera percettiva della sua conoscenza».[15]
La messa in scena di Latini è una partita che si gioca nell’incontro ‘fisico’ tra testualità e espressione corporea. Tra la fittissima partitura testoriana, pregna di sonorità e pertanto ricondotta alla sfera acustica e vocale, e la potente agency interpretativa dell’attore, che fa leva sulla duttilità timbrica e sonora del proprio strumento voce, insieme a una mobilità scomposta e allucinata, per penetrare in profondità nell’architettura poetica. Proprio modulando diversamente la voce, l’attore romano alterna l’interpretazione dello scrivano-narratore, che in qualche momento appare come ombra proiettata dalle quinte, e quella del protagonista Gino. Quest’ultima avviene nel segno di un’autentica adesione emotiva: Latini scardina ogni declinazione imitativa per legarsi visceralmente al personaggio con la sua personalità attoriale e il suo «corpo sonorizzato»,[16] potenziato dall’uso di microfoni, amplificazione, delay ed effettistica.
Il riferimento al concetto di partita non è casuale poiché, con un’originale intuizione registica e drammaturgica, Latini individua proprio nella partita da tennis l’«immagine-guida»[17] della sua messinscena. L’ambito semantico dello sport, in effetti, non è affatto estraneo all’autore lombardo, il quale con la scrittura e con la pittura (si pensi al romanzo Il dio di Roserio o al ciclo di quadri I pugilatori) ha sempre mostrato un’attenzione per le dinamiche sportive, viste come mezzo di riscatto.
Nello spettacolo di Latini lo stringente palleggio del mach tennistico è assunto a simbolo (almeno) duplice: sia della relazione palco-platea, del gioco dell’«andare e tornare tra pubblico e scena»[18] in cui di fatto ‘accade’ l’occasione-teatro, sia del serrato ‘ping-pong’ tra la torrenziale pressione del testo e la presenza fisica dell’attore, che cerca di gestirla, di incanalarla.
La dinamica percussiva del tennis è anche metafora della sfortunata esistenza del personaggio, del «Ginetto-troia, del Ginetto-figa»[19] sferzato dai ‘dardi di un destino amaro’ come una pallina presa a racchettate, in balìa dei ‘colpi’ e dei ‘rovesci’ dei tanti «sborófili maritati»[20] e «storti e stortati»[21] che hanno approfittato di lui.
Così il palco dello spettacolo diventa la metà di un campo da tennis, con la rete abbassata sul proscenio, mentre l’altra metà è rappresentata dalla platea. Latini mette da parte la «scena tattile e luccicante»,[22] da concerto rock, tipica di Fortebraccio Teatro, e insieme a Max Mugnai opta per uno spazio chiaroscurale e metafisico, immerso in luci opache (ora bianco sporco ora fredde e livide), e avvolto da lunghi veli lattei mossi da un vento ‘fuori campo’. La scrittura visiva della scena non dimentica un richiamo metonimico all’ambientazione testuale, e aggiunge in proscenio anche il moncone di un binario ferroviario, ad evocare la grande «Gar»[23] milanese. Infine, una distesa di materassi a molle posta sulla pavimentazione scenica costringe l’attore a procedere con passo malfermo, entrando nella condizione sbalestrata del tossico Gino ‘attraverso i piedi’, sfruttando un trucco dell’allestimento teatrale per assumere la sua andatura perennemente vacillante.
Se con Fortebraccio Teatro ci ha abituato all’alterazione fisica, con abiti appariscenti e volto pesantemente truccato, qui invece Latini si presenta ‘senza maschera’, con pantalone, maglietta e emblematiche scarpe da tennis, disposto a un «disarmo completo»,[24] ad un abbandono.
Ed è in uno stato di reale prostrazione fisica che il suo ‘Ribò’ percorre il palcoscenico, girando in tondo, barcollando, cadendo sulle ginocchia, distillando le pagliuzze sintattiche del testo in un grumo di rantoli e singhiozzi. All’immobilità dell’interpretazione di Branciaroli, che accasciato per terra concentrava l’energia corporea solo nella phoné, il personaggio di Latini contrappone una cinesi sconnessa e senza posa, tanto affaticata quanto persistente, come se il movimento non-stop fosse l’unico modo possibile per abitare la propria sofferenza.
Torna invece dalla prima messinscena l’idea dell’appoggio, del sostegno, di cui Gino ha bisogno per salire la sua via crucis verso la latrina; e se nel caso di Branciaroli era un tavolo alzato in verticale, verde per «ricordare un banco di scuola o un vespasiano»,[25] per Latini è l’oggetto-logo della sua imago attoriale: un microfono con asta che funge da stampella, occasionalmente brandito a mo’ di spada o di smisurata siringa.
Ma il microfono serve all’attore anzitutto per aumentare la voce, dilatandola con un’eco straziata nelle grida e nelle accuse che Gino scaglia contro la città serrata nell’indifferenza. Grazie all’apporto creativo di Gianluca Misiti, che dalla consolle ‘suona’ la voce di Latini inserendo all’amplificazione filtri ed effetti, dolenti torsioni vocali si legano ai suoi spasmi corporei, consentendo alla lingua testoriana di rivivere sul palco con potenziate variazioni di tono e di accenti. L’effetto è una struggente sonorizzazione della carne e dei sensi del personaggio, che ‘fa sentire’ alla platea il male fisico di ogni caduta, la «dolorosità»[26] delle ferite aperte sulla sua «crivellata epidermide».[27] La drammaturgia vocale inoltre è situata all’interno del pregevole soundscape creato da Misiti, fatto di beats elettronici e violini elettrici a contrappuntare il pathos del testo.
Se il disegno dei coefficienti scenici mostra un’intima comprensione dell’intenzionalità autoriale, è forse nella scelta dei flashback del protagonista che si palesa maggiormente la consonanza di sensibilità che avvicina Latini a Testori. Nella vertigine del suo stato preagonico il personaggio testoriano ripercorre à rebours le tappe clou della sua vita, (dis)articolando un pelago caotico di memorie da cui Latini estrapola quelle che ricompongono la sfera degli affetti e le traiettorie dell’abiezione. Così, stretto in un fremito intriso di patimento e rimorso, il suo ‘Ribò’ scandisce con fatica i ricordi del padre «uperàri specializzato»,[28] morto di cancro nella «maledetta Ninguarda»;[29] e della madre tenace, punto di riferimento, che all’ospedale «vegniva a piedi»[30] dalla lontana periferia, distrutta senza rimedio alla scoperta dei «violacei fori»[31] che nota sulle braccia del figlio. La dolcezza straziata che qui vibra nella gola dell’attore in seguito si trasforma in un falsetto gracchiante con cui Gino imita l’isterico piglio della «signora maès»,[32] l’educatrice/«inculcatrice»[33] acida e saccente che a scuola lo umiliava e lo sfiduciava. La reiterata apostrofe alla ‘signora maès’ diventa, nella deformata cadenza di Latini, un refrain grottesco e angosciato, un trauma sonoro, un’ossessione acusmatica che ancora rimbomba nella fragile psiche del ragazzo.
Alle vessazioni scolastiche seguono gli abusi e i possessi violenti delle prestazioni sessuali con i «màsculi»,[34] consumate negli squallidi wc della stazione. Qui la parola di Testori rompe gli argini del dicibile, ma Latini la sa restituire senza alcuna ombra di scandalo, levigata di pianto e di impotente disperazione carnale. Dai suoi occhi ammantati di lacrime affiora quella consapevolezza di «totale insignificatività»,[35] di autoannullamento, che pervade la coscienza martoriata di Gino.
Sono questi i lampi diegetici di maggiore intensità emotiva e simbolica dove si può scorgere, nell’accensione del magma linguistico, la forma del Christus patiens che plasma il personaggio testoriano. Collocato sul piano di una contemporaneità sempre più sorda alla sofferenza degli ultimi, e di un’esistenza attraversata come un calvario, Gino ricalca l’archetipo della vittima innocente, del Figlio di una Mater dolorosa che trova la sua croce nel Golgota della droga e della prostituzione. La resa incondizionata di Latini alla sofferente «creatura»[36] di Testori precipita la sua interpretazione quasi al grado zero della finzione attoriale, e nel contempo la eleva a paradigma straordinario del messaggio dell’autore, distillato alla sua fonte.
Il filo di assonanza interiore che congiunge Latini a Testori si divarica espressivamente sul finale dell’opera, in una diversa tensione visionaria da parte dei due artisti. L’autore lombardo immagina che Gino dopo l’iniezione fatale cade tramortito nel water, ma un istante prima di morire vede le braccia di Cristo che si sporgono a prenderlo, sollevandolo dall’estrema abiezione all’estrema salvezza. L’indomani il suo corpo su una barella, coperta da un lenzuolo bianco, attraversa l’intera stazione, e tutti al passaggio «lo videro […]. Scorsero una sorta di luce che, lentissimamente, andava formandosi sopra il cadavere».[37] Nello spettacolo di Latini il lenzuolo-anima di Gino, irradiato di sacro bagliore, diventa invece una gigantesca bolla aerostatica a forma di palla da tennis, un nido giallo-luce che a poco a poco lo accoglie, e lo rende immortale.
1 A. Cascetta, Invito alla lettura di Giovanni Testori. L’ultima stagione (1982-1993), Milano, Mursia, 1995, p. 75.
2 G. Testori, In exitu, Milano, Garzanti, 1988, ora in Id., Opere 1977-1993, a cura di F. Panzeri, Milano, Bompiani, 2013, p. 1355.
3 A. Audino, ‘Abitare la propria anomalia’, in K. Ippaso (a cura di), Io sono un’attrice. I teatri di Roberto Latini, Riano (RM), Editoria & Spettacolo, 2009, p. 44.
4 Cfr. R. Latini, ‘Incontro, disarmo, cambiamento: parlando di In Exitu con Roberto Latini’, intervista a cura di I. Ambrosio, PAC PaneAcquaCulture, 13 giugno 2019, ˂https://paneacquaculture.net/2019/06/13/incontro-disarmo-cambiamento-parlando-di-in-exitu-con-roberto-latini/> [ultimo accesso 27 luglio 2019].
5 Cfr. A. Albanese, ‘Venti anni di Primavera’, Doppiozero, 14 giugno 2019, ˂https://www.doppiozero.com/materiali/venti-anni-di-primavera> [ultimo accesso 27 luglio 2019].
6 A. Cascetta, Invito alla lettura di Giovanni Testori. L’ultima stagione (1982-1993), p. 75.
7 A. Cortellessa, ‘Discorso sugli occhi di Giovanni Testori’, in Dossier Testori, a cura di C. Serafini, Il Caffè illustrato, VI, 29, marzo-aprile 2006, p. 53.
8 G. Testori, ‘In exitu’, in Id., Opere 1977-1993, p. 1278.
9 Ivi, p. 1273.
10 Ivi, p. 1269.
11 Ivi, p. 1370.
12 Una spiccata pulsione scopica, espressa dalla reiterazione di sintagmi afferenti alla semantica dello sguardo (et vidi, vardàtemi, etc.), è alla base del rapporto tra lo scrittore e il giovane drogato.
13 G. Testori, ʻIl mio teatro contro l’artificioʼ, Il Sabato, 5 novembre 1988, ora in ID., Opere 1977-1993, p. 2092.
14 Ivi, p. 2091.
15 D. Legge, ‘Sonorità drammaturgiche al Fortebraccio Teatro’, in Merdre! supplemento online della rivista Teatro e Storia, anno I, n. 1, 2018, p. 3.
16 K. Ippaso, ‘Roberto Latini, attrice rockstar’, in Id. (a cura di), Io sono un’attrice. I teatri di Roberto Latini, p. 23.
17 Cfr. M. Rocco, ‘Il teatro come simbolo: immagine, corpo, parola’, in A. Cascetta, L. Peja (a cura di), Ingresso a teatro. Guida all’analisi drammaturgica, Firenze, Le Lettere, 2003, pp. 313-333.
18 R. Latini in K. Ippaso (a cura di), Io sono un’attrice. I teatri di Roberto Latini, p. 55.
19 G. Testori, ‘In exitu’, in Id., Opere 1977-1993, p. 1352.
20 Ivi, p. 1312.
21 Ibidem
22 K. Ippaso, ‘Roberto Latini, attrice rockstar’, in Id. (a cura di), Io sono un’attrice. I teatri di Roberto Latini, p. 24.
23 G. Testori, ‘In exitu’, in Id., Opere 1977-1993, p. 1322.
24 R. Latini, ‘Incontro, disarmo, cambiamento: parlando di In Exitu con Roberto Latini’, intervista a cura di I. Ambrosio, PAC PaneAcquaCulture, 13 giugno 2019.
25 G. Testori in s. a. ‘Viaggio tra droga e ricerca di Cristo’, L’Arena, 2 novembre 1988.
26 G. Testori, ‘In exitu’, in Id., Opere 1977-1993, p. 1300.
27 Ivi, p. 1312.
28 Ivi, p. 1268.
29 Ivi, p. 1282.
30 Ivi, p. 1284.
31 Ivi, p. 1267.
32 Ivi, p. 1273.
33 Ivi, p. 1275.
34 Ivi, p. 1353.
35 A. Cascetta, Invito alla lettura di Giovanni Testori. L’ultima stagione (1982-1993), p. 75.
36 G. Testori citato in ‘Note ai testi’, in Id., Opere 1977-1993, p. 2084.
37 G. Testori, ‘In exitu’, in Id., Opere 1977-1993, p. 1373.