Valter Malosti, L’Arialda

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Lontano dalle scene per troppi anni, finalmente torna L’Arialda (1960), capolavoro del periodo realistico di Giovanni Testori, fra i grandi testi dell’epoca del boom economico. E torna grazie a Valter Malosti, attore, regista, direttore della Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino, oltre che appassionato cultore delle opere testoriane (ricordo l’emozionante adattamento di Passio Laetitia et Felicitatis con Laura Marinoni di qualche anno fa). La storia scenica di questa «tragedia plebea», come la definiva il suo autore, è caratterizzata da poche edizioni separate da lunghissimi periodi di oblio. Dopo la celebre e censurata prima edizione di Luchino Visconti con la Morelli-Stoppa nel 1960, L’Arialda riappare nel 1976, diretta da Andrée Ruth Shammah, con protagonista Luisa Rossi, al Salone Pier Lombardo di Milano; poi, nel 1993, con Patrizia Milani diretta da Marco Bernardi per il Teatro Stabile di Bolzano; Mariangela Melato, che amava l’opera e che vincolò a lungo i diritti, riuscì però a realizzare solo una versione radiofonica, nel 1998, con la regia di Giuseppe Bertolucci. Insomma, era tempo che questo testo tornasse in circolazione, e speriamo che, riconosciuta ormai la sua statura di classico, entri stabilmente nella programmazione dei teatri italiani.

Prima di essere incluso nel cartellone di quest’anno dello Stabile torinese, L’Arialda di Malosti è stato visto, nel maggio 2015, come saggio finale di diploma della scuola del TST. Il titolo era I segreti di Milano e anche la struttura era un po’ diversa, trattandosi di un montaggio di L’Arialda e di alcuni duetti di La Maria Brasca (1960), la commedia scritta per Franca Valeri. Entrambe le opere appartengono al grande ciclo dei Segreti di Milano (1958-1961), composto anche da romanzi e da racconti, ciclo molto ampio che ha avuto, fra i suoi estimatori, Pier Paolo Pasolini (che voleva fare un film dal racconto Il dio di Roserio) e Visconti che vi attinge a piene mani per il film Rocco e i suoi fratelli (1960).

I saggi finali, si sa, passano spesso inosservati, forse ritenuti spettacoli fatti un po’ con la mano sinistra, tra un impegno e l’altro. Invece, questo progetto è stato diverso già dalle sue premesse. La compagnia ha dedicato molti mesi tanto allo studio delle opere, quanto ad approfondire il contesto storico, culturale ed espressivo in cui si è mosso Testori, anche coinvolgendo, secondo una consolidata metodologia di Malosti, studiosi di varie discipline (fra i quali Giovanni Agosti, curatore della nuova edizione di quello che è, forse, il più bel libro del Testori storico dell’arte, cioè Il gran teatro montano sul Sacro Monte di Varallo, che molto ha influenzato la scrittura di L’Arialda e di tutti i Segreti; Mauro Giori, che si è occupato dei rapporti tra Testori e Visconti dal punto di vista del cinema con le sue ricerche su Rocco e i suoi fratelli; io stessa, che proprio in quei mesi lavoravo alle bozze del mio libro sull’Arialda viscontiana).

Da questo lungo itinerario di formazione dei giovani attori è scaturita questa Arialda, uno spettacolo limpido, nitido, che spicca per la qualità del disegno registico-interpretativo e che illumina una fase di Testori, quella del realismo tragico, che era stata messa un po’ in ombra dalle scritture successive, più visionarie e sperimentali. Oggi che si registra un ritorno di interesse, anche a teatro, per i linguaggi della realtà, possiamo verificare quanto quel primo Testori conservi intatta la sua forza espressiva e comunicativa.

Testori descrive la Milano del boom economico dal bordo estremo della città, da una periferia di palazzoni popolari in cui convivono milanesi e meridionali, osservando le trasformazioni, le paure, i conflitti psicologici e morali di una comunità: gli urti all’interno delle famiglie a causa dei più liberi comportamenti sessuali dei giovani; i pregiudizi razzisti degli autoctoni contro i «terroni»; il mondo della malavita che prolifera in condizioni di degrado. La critica della modernità e la denuncia dei guasti prodotti dal miracolo economico sono espresse attraverso violente dinamiche di sfruttamento reciproco (dinamiche che per Malosti anticipano Fassbinder). I personaggi hanno la rabbia delle «belve in gabbia», dice Arialda, e c’è appunto qualcosa di animalesco nelle loro continue risse, nei diverbi, nelle loro copule sui prati. L’amore omosessuale di Eros per il giovane Lino è uno dei rari momenti di tenerezza, cosa che, ai tempi della prima Arialda, provocò le reazioni omofobe della censura preventiva (Visconti taglierà Lino per poter andare in scena) e poi il sequestro per oscenità dello spettacolo e del testo.

Non c’è personaggio che arrivi a realizzare i propri desideri e le proprie aspirazioni profonde. La città sembra grande, ma le figure sono bloccate in uno spazio-trappola, dove fanno e rifanno gli stessi percorsi e gli stessi atti. L’opera organizza i conflitti in modo da giungere a uno scacco generale. La camiciaia milanese Arialda non coronerà il sogno delle nozze con Amilcare e non riuscirà a liberarsi di Luigi, detto il «marcione», il fidanzato morto tisico che le compare in tormentose allucinazioni. Eros, fratello di Arialda, non riuscirà a riscattare la propria vita di prostituto attraverso l’amore platonico per Lino. E così gli altri: Gaetana, la meridionale in miseria che sperava di sistemarsi soffiando Amilcare ad Arialda, sarà lasciata a sua volta e si suiciderà. La prostituta Mina, infelicemente innamorata di Eros e strumento della vendetta di Arialda contro Gaetana, non otterrà l’amore di lui prestandosi a sedurre Amilcare. Lino, a cavallo della moto nuova regalata da Eros, morirà in un incidente stradale; i più giovani, Rosangela, Gino, Quattretti, continueranno a cercarsi nei prati, a prendersi, a lasciarsi, fra rapimenti temporanei, disillusioni, ricatti. Malosti taglia il personaggio di Alfonsina, vecchia madre di Arialda ed Eros (credo per ragioni di cast), ma soprattutto taglia Adele e Angelo, personaggi secondari, ma che sono gli unici ad amarsi con vera gioia. La regia stringe il fuoco sulla protagonista e le altre figure che paiono tutte sul punto di esplodere, come ha scritto De Monticelli:

Testori, il lombardo sopravvissuto alla peste. Quando scriveva i racconti e i romanzi della serie I segreti di Milano, fra neorealismo e bilinguismo, e lo prendevano soltanto per un bel fenomeno letterario, un po’ fuori dalla norma, egli già camminava nell’alone torbido e fulgente di questa sua memoria sotterranea. Gli Eros e gli Enea dei sobborghi, i ciclisti di Roserio, le Gilde del Mac Mahon erano allora la sua realtà di superficie. Ma quelle figure e figurette, così apparentemente proiettate fuori di lui, nel grigio duro delle periferie milanesi (e che agli occhi dei lettori frettolosi sembravano comporsi in quadretti di ruvida e bonaria arcadia suburbana), erano tutte gonfie dello stesso siero: il siero di una diatriba monotona, ripetitiva, ossessionante, perfino un po’ ebete talvolta; ma già tutta puntata su una negatività, su un rifiuto di condizioni esistenziali e sociali e insomma su un dolore appena ammorbidito da una specie di cupa allegria carnale. Sarebbero scoppiate un giorno, quelle figurette, i ragazzi sulle moto, i piccoli pugili rionali, i patiti delle passerelle al vecchio Mediolanum e al Lirico con sopra le girls e i boys delle riviste; le passeggiatrici sotto i lampioni più remoti.[1]

Cogliendo questa umanità in ebollizione, Testori ha sollecitato un giudizio più profondo sul boom, che stava velocemente trasformando l’Italia da paese contadino a potenza industriale, interrogandosi su chi stesse davvero pagando i costi dello sviluppo in termini economici e culturali, e mostrando, ha detto Visconti, che «sotto la crosta del cosiddetto miracolo economico italiano ribolle un vulcano».[2] Il corpo, grande protagonista di L’Arialda e di tutti i Segreti, è la metafora attraverso la quale Testori esplora alcuni nodi cruciali, ieri come oggi: marginalità, potere, sfruttamento, denaro, consumismo, sesso, frustrazione. Ma la sensibilità sociale si intreccia al sentimento tragico di una deprivazione radicale. Come sotto una gigantesca cappa, i personaggi paiono non avere alcuno scampo contro «il destino porco», dice Arialda, dell’essere nati. Nel testo batte un ritmo da tragedia antica, che induce a concludere, scriveva il poeta Attilio Bertolucci, «che non soltanto Milano, ma la vita, tutta la vita sia tragica, e sanabile quindi non certo ricorrendo a soluzioni terrene».[3]

Mettendosi a lavorare a L’Arialda, Malosti aveva un precedente ingombrante. La versione di Visconti è stata un clamoroso caso culturale e, benché siano passati quasi sessant’anni, la sua memoria è sempre viva anche grazie al ‘riverbero’ di Rocco e i suoi fratelli. Dire L’Arialda significa, infatti, pensare a Rocco, un film famosissimo, a sua volta ostacolato dalla censura, che anticipa le posizioni critiche e le atmosfere plumbee del testo teatrale. Malosti ha agito con piena indipendenza e ha ambientato la sua Arialda in uno spazio nudo, con pareti nere e pavimento bianco.

©Andrea Macchia

È uno spazio che guarda più al modello dell’empty space di Peter Brook che non alla scenografia imponente e realistica di Visconti (la cui lezione è però forse omaggiata dal telaio di una porta, che ricorda le porte usate da Visconti). Lo spazio neutro è funzionale per più motivi. Favorisce l’intervento creativo dello spettatore, stimolato a immaginare i prati intorno alla cava, teatro delle camporelle e dei regolamenti di conti, e gli interni delle case, appena suggeriti da qualche arredo. Non solo evita i condizionamenti visivi di una ricostruzione filologica, ma chiarisce il legame di L’Arialda con il teatro d’avanguardia degli anni Sessanta (Brook, come detto, ma anche Grotowski e Ronconi, per alcune soluzioni formali) sulla base di quella ricerca di essenzialità che era anche di Testori (si veda il manifesto teorico Il ventre del teatro del 1968). Semplificare al massimo lo spazio, oltre a rendere concreto il senso di penuria materiale ed esistenziale dei personaggi, permette la piena fluidità del movimento scenico, facendo puntare lo sguardo sul gioco dei corpi nel vuoto, in modo che possa emergere, in purezza, tanto la rete dei rapporti psicologici e sociali, quanto il senso di fatalità tragica che innerva l’opera.

©Andrea Macchia

Malosti propone nuove piste interpretative mostrando ombre incestuose nel rapporto tra Eros e Arialda («l’unica donna che non gli fa schifo» dice Amilcare), anche sostenuto dalla giovane età di Eleonora Vecchione (bravissima protagonista) e di Marcello Spinetta. I due, poi, nel progettare la vendetta contro Gaetana, sembrano la coppia diabolica del Macbeth, come scriveva Giorgio Bassani, in un saggio che il regista ha tenuto presente, in cui lo scrittore paragonava la smania di vendetta di Arialda appunto alla brama di potere di Lady Macbeth. Anche il potenziale comico è portato in piena luce, perché L’Arialda è, certo, una tragedia, ma è attraversata da squarci comico-grotteschi che ricordano la migliore commedia all’italiana. Penso, in particolare, ai terzetti tra Amilcare (Vittorio Camarota) e i terribili figli Gino (Matteo Baiardi) e Stefano detto Quattretti (Christian Di Filippo), e alla seduzione di Amilcare da parte di Mina (Camilla Nigro).

Il progetto scenico è guidato da due scelte espressive principali. La prima, come detto, riguarda il lavoro sui rapporti. Il regista costruisce per gli interpreti un tracciato rigoroso, spesso articolando le scene secondo linee diagonali, in modo che i casi singoli siano punti o momenti di una storia collettiva. I personaggi sembrano incatenati gli uni agli altri, la storia di ciascuno è quella di tutti. Possiamo vederlo, appunto, nelle geometrie, nel sistema di montaggio delle scene, nel modo di dosare i livelli d’intensità delle presenze, materiali linguistici che Malosti manipola con grande perizia (da segnalare anche la scrittura scenica dei rumori: quando Gaetana/Gloria Restuccia cade di piatto sul tavolo, il suono dà un’idea piuttosto vivida del suo salto nella cava, un suicidio che nel testo avveniva fuori scena).

L’altra dimensione approfondita dalla regia in chiave originale è quella onirico-simbolica. Non intendo solo le immagini da Pietà o da Deposizione che pure gli attori compongono in certi momenti, e che richiamano il Testori grande storico dell’arte e il suo orizzonte religioso. Alludo anche alla scelta di dare spessore corporeo ai morti, che Malosti rende visibili e attivi in mezzo ai vivi. Così il ‘marcione’ Luigi, morto senza mai averla toccata e che nel testo torna come allucinazione persecutoria, nello spettacolo diventa una presenza fissa accanto ad Arialda (l’attore è Isacco Venturini). Fin dalla prima ‘camporella’ con Amilcare, Arialda è tallonata da questa strana figura discinta, Luigi appunto, che cerca di allacciarsi a lei – «Sembra che tutti i baci e gli stringimenti che da vivo non s’è mai sognato di fare, li abbia riservati per tormentarmi adesso che sto per uscirgli di patronato» dice Arialda –, anche se, una volta lasciata da Amilcare, nello spettacolo sarà lei stessa ad avvinghiarsi al corpo del ‘marcione’. Anche Vittoria (Noemi Grasso), la prima moglie di Amilcare, morta di cancro e accudita da Arialda fino all’ultimo istante, è lì, muta e velata, a osservare le vicende di chi resta. Nella linea onirica rientra anche Lino (Christian Di Filippo), che indossa una maschera e parla cantando, materializzazione dei sogni di purezza e di paternità di Eros, che alla sua morte lo piange come un Cristo deposto. Visconti aveva voluto un finale in crescendo con Rina Morelli, i pugni alzati al cielo, a dire la sua invocazione ai morti (chiusa che aveva disturbato Pasolini perché, a suo dire, troppo melodrammatica). Malosti, viceversa, riconduce a un tono di commozione più intima, dimessa e casalinga, coerente con le scelte fatte. Arialda prepara le sedie e riunisce i morti, che si mettono a cerchio intorno a Lino steso sul tavolo. Poi prende posto, con Eros, accanto a loro, perché «se i vivi son così, meglio voi. Meglio la vostra compagnia».

©Andrea Macchia

 

 

TEATRO STABILE TORINO – TEATRO NAZIONALE - Stagione 2015/2016

FONDERIE LIMONE MONCALIERI - Sala Piccola

19 – 31 gennaio 2016 - Prima Nazionale

 

L’ARIALDA

di Giovanni Testori

regia Valter Malosti

con (in ordine di locandina): Beatrice Vecchione, Marcello Spinetta, Vittorio Camarota, Matteo Baiardi, Christian Di Filippo, Gloria Restuccia, Roberta Lanave, Camilla Nigro, Jacopo Squizzato, Isacco Venturini, Archimede Pii, Noemi Grasso

luci Francesco Dell’Elba

musiche Bruno De Franceschi

cura del movimento Alessio Maria Romano

assistente alla regia Elena Serra

Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale

 


1 R. De Monticelli, s.t., Corriere della sera, 22 maggio 1974; cito da F. Panzeri, Postfazione, in G. Testori, I segreti di Milano, a cura di Fulvio Panzeri, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 787-788.

2 N. Minuzzo, ‘Processo a Rocco’, L’Europeo, 20 ottobre 1960, p. 14.

3 A. Bertolucci, ‘L’Arialda’, L’Illustrazione Italiana, febbraio 1961, p. 82.