1. La storia di un magistero

 

Certi ricordi, se lasciati in silenzio, prima o poi reclamano delle parole. Più esattamente, quando aumenta la distanza tra passato e presente alla nostra memoria possono accadere due cose: o si cristallizza in un’immagine muta e senza tempo, quasi una visione Ê»assolutaʼ di ciò che è stato, oppure cresce e si evolve dentro di noi, cercando a un certo punto di proiettarsi verso il fuori.

Il 16 marzo 2018 è stato il venticinquesimo anniversario della morte di Giovanni Testori, in occasione di questa ricorrenza è uscito il nuovo libro dello scrittore Luca Doninelli Una gratitudine senza debiti. Giovanni Testori, un maestro (La nave di Teseo, 2018). Doninelli aveva frequentato a lungo Testori, e poco prima della morte ne aveva raccolto il testamento spirituale nel libro-intervista Conversazione con Testori (Guanda, 1993); eppure ci sono voluti venticinque anni perché Ê»l’allievo di Giovanni Testoriʼ, come da sempre viene considerato, arrivasse a scrivere la storia della sua amicizia con il maestro, riuscendo così a dare voce al silenzio dei ricordi.

Le parole che aprono il testo di Doninelli indicano subito qual è il cuore della sua narrazione che, lungi dall’assumere carattere aneddotico o da biografia romanzata, si articola invece, semplicemente, come Ê»la storia di un magisteroʼ; certo una storia intima e particolare – definita nel tempo, nello spazio e nei suoi protagonisti , ma dotata di una vastità di senso tale da generare ricadute universali. Non a caso, per raccontare il proprio discepolato con Giovanni Testori, Doninelli parte da una domanda dall’ampio respiro: «Che cos’è mai un maestro? Cosa s’intende con questa parola?».[2] Sebbene immediatamente dopo si riconosca di non poter rispondere ad un quesito tanto Ê»inesauribileʼ, proseguendo nel discorso emerge la volontà di mettere a fuoco un’idea di maestro che, mutuata dagli insegnamenti ricevuti dall’autore, possa aggiungere luce e consapevolezza sulla figura di Testori.

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Prima di essere incluso nel cartellone di quest’anno dello Stabile torinese, L’Arialda di Malosti è stato visto, nel maggio 2015, come saggio finale di diploma della scuola del TST. Il titolo era I segreti di Milano e anche la struttura era un po’ diversa, trattandosi di un montaggio di L’Arialda e di alcuni duetti di La Maria Brasca (1960), la commedia scritta per Franca Valeri. Entrambe le opere appartengono al grande ciclo dei Segreti di Milano (1958-1961), composto anche da romanzi e da racconti, ciclo molto ampio che ha avuto, fra i suoi estimatori, Pier Paolo Pasolini (che voleva fare un film dal racconto Il dio di Roserio) e Visconti che vi attinge a piene mani per il film Rocco e i suoi fratelli (1960).

I saggi finali, si sa, passano spesso inosservati, forse ritenuti spettacoli fatti un po’ con la mano sinistra, tra un impegno e l’altro. Invece, questo progetto è stato diverso già dalle sue premesse. La compagnia ha dedicato molti mesi tanto allo studio delle opere, quanto ad approfondire il contesto storico, culturale ed espressivo in cui si è mosso Testori, anche coinvolgendo, secondo una consolidata metodologia di Malosti, studiosi di varie discipline (fra i quali Giovanni Agosti, curatore della nuova edizione di quello che è, forse, il più bel libro del Testori storico dell’arte, cioè Il gran teatro montano sul Sacro Monte di Varallo, che molto ha influenzato la scrittura di L’Arialda e di tutti i Segreti; Mauro Giori, che si è occupato dei rapporti tra Testori e Visconti dal punto di vista del cinema con le sue ricerche su Rocco e i suoi fratelli; io stessa, che proprio in quei mesi lavoravo alle bozze del mio libro sull’Arialda viscontiana).

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