«Theatre it’s the medium of the between»:[1] per Rebecca Schneider il teatro è un luogo di sovrapposizioni, di scarti, di intersezioni. Questa dimensione del ‘tra’ fa sì che ogni atto teatrale dischiuda un varco fra presente e passato, fra istanze espressive differenti, giungendo infine a disseminare tracce, memorie (im)palpabili. Gli amabili resti conservati negli archivi, lungi dall’essere oggetti inerti, sono scorie performabili, capaci di «sussurrare storie», di «dar vita a interpretazioni e sentieri».[2]

Basta sfogliare il volume Giovanni Testori e Luchino Visconti. L’Arialda 1960 (Scalpendi 2015) per capire quanto il racconto di uno spettacolo sia insieme una testimonianza e un’opera di re-invenzione. Federica Mazzocchi ricostruisce con meticolosa precisione e piglio filologico le vicende dell’Arialda di Testori per la regia di Visconti, vero e proprio ‘caso’ nel cuore dell’Italia del boom economico. A far notizia è innanzitutto la collaborazione fra lo ‘scrivano lombardo’ e il regista aristocratico; il loro fu uno scambio intellettuale di grande spessore, fatto di incontri, di lettere, di strappi violenti ma sempre sostenuto da una fervida passione. Mazzocchi dedica il primo capitolo del suo studio alla ricomposizione delle «tracce di lavoro» (p. 15) tra i due: la fitta interrogazione dei documenti consente alla studiosa di restituire l’intensità del loro modus operandi, la vocazione per un’idea di arte come scandalo, la reciprocità di intenti – almeno fino al 1972. Poco prima della frattura, dovuta a incomprensioni sul piano professionale e personale, Testori scrive un dattiloscritto di cinquantaquattro pagine, rimasto inedito, dedicato alla vita e alle ragioni dell’arte del regista;[3] si tratta di «una sorta di biografia poetica» (p. 16), il cui fascino risiede «nell’edificazione, potremmo dire in diretta, del monumento-Visconti» (p. 17). I densi brani citati danno prova non solo dell’intrinseca qualità della parola testoriana, ma anche della peculiare disposizione del suo sguardo, capace di cogliere – per singolare esercizio di autoriflessione – i nessi tra matrici stilistiche e «affetti segreti».

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Prima di essere incluso nel cartellone di quest’anno dello Stabile torinese, L’Arialda di Malosti è stato visto, nel maggio 2015, come saggio finale di diploma della scuola del TST. Il titolo era I segreti di Milano e anche la struttura era un po’ diversa, trattandosi di un montaggio di L’Arialda e di alcuni duetti di La Maria Brasca (1960), la commedia scritta per Franca Valeri. Entrambe le opere appartengono al grande ciclo dei Segreti di Milano (1958-1961), composto anche da romanzi e da racconti, ciclo molto ampio che ha avuto, fra i suoi estimatori, Pier Paolo Pasolini (che voleva fare un film dal racconto Il dio di Roserio) e Visconti che vi attinge a piene mani per il film Rocco e i suoi fratelli (1960).

I saggi finali, si sa, passano spesso inosservati, forse ritenuti spettacoli fatti un po’ con la mano sinistra, tra un impegno e l’altro. Invece, questo progetto è stato diverso già dalle sue premesse. La compagnia ha dedicato molti mesi tanto allo studio delle opere, quanto ad approfondire il contesto storico, culturale ed espressivo in cui si è mosso Testori, anche coinvolgendo, secondo una consolidata metodologia di Malosti, studiosi di varie discipline (fra i quali Giovanni Agosti, curatore della nuova edizione di quello che è, forse, il più bel libro del Testori storico dell’arte, cioè Il gran teatro montano sul Sacro Monte di Varallo, che molto ha influenzato la scrittura di L’Arialda e di tutti i Segreti; Mauro Giori, che si è occupato dei rapporti tra Testori e Visconti dal punto di vista del cinema con le sue ricerche su Rocco e i suoi fratelli; io stessa, che proprio in quei mesi lavoravo alle bozze del mio libro sull’Arialda viscontiana).

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