«La figura è equivoca. Però…». La censura cinematografica italiana di fronte all’omosessualità

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Sulla base di una ricerca d’archivio in corso, il saggio avanza alcune riflessioni preliminari sul trattamento che la censura cinematografica dell’Italia repubblicana ha riservato alla rappresentazione dell’omosessualità, dall’iniziale vagheggiamento di un divieto assoluto al subentrare di più complesse negoziazioni a partire dalla fine degli anni Cinquanta, fino al profilarsi di una possibile riabilitazione del soggetto.

This essay presents first results of an ongoing archival research on homosexuality and Italian cinema in the after war period. It analyses how film censorship dealt with the representation of homosexuality, first trying to interdict it and then, from the late 1950s, negotiating its depiction in more refined manners, eventually envisaging the possibility of withdrawing it from the list of forbidden topics since the early 1970s.

 

A partire dal secondo dopoguerra, lo sforzo della censura di contrastare la diffusione di contenuti cui viene applicata la terminologia sinonimica oscenità/pornografia/immoralità investe un territorio esteso di soggetti e di materiali, in cui il cinema rappresenta un tassello centrale ma non esclusivo. Si può ricavare un’idea di tale estensione da un fascicolo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, intestato «Pubblicazioni immorali»,[1] in cui sono inclusi incartamenti relativi al primo decennio del dopoguerra: riviste illustrate, teatro, televisione, arte (sotto accusa i disegni di Salvador Dalì per la Divina Commedia commissionati nel 1949 dal Poligrafico dello Stato) e persino decalcomanie da «applicare a moto-scooter e calendarietti». E ovviamente il cinema: un sottofascicolo riguarda il divieto d’importazione della rivista Paris-Hollywood (che tra il 1947 e il 1973 con il cinema intrattiene per la verità un rapporto piuttosto pretestuoso, sfruttando quali pin-up per le sue copertine attrici americane frammiste a una miriade di modelle anonime); un secondo riguarda invece la proiezione di film propriamente pornografici, nel corso di serate clandestine organizzate da privati in casa propria (ma anche nella sala di una gelateria, dopo l’orario di chiusura) grazie alla compiacenza di un operatore che prestava competenze e pellicole, a sua detta senza scopo di lucro. L’irruzione della polizia, organizzata a seguito della segnalazione di un quotidiano romano, ha esiti tragicomici: si scontra infatti con l’impossibilità di procedere al preventivato arresto di tutti i convenuti (uomini e donne), a causa della presenza fra il pubblico di «membri del Corpo Diplomatico e personalità politiche».[2]

In una circolare del Ministero dell’Interno del 21 novembre 1952 sulla «stampa pornografica e immorale», firmata dal ministro Mario Scelba, si addita come fine ideale un’«assidua opera di vigilanza e di repressione volta a stroncare definitivamente tale deprecato fenomeno».[3] È questa utopia di un controllo efficace e globale, inteso a sopprimere e a rimuovere un ampio novero di forme e temi ritenuti a vario titolo sconvenienti, che informa il rilancio della censura dopo la chiusura del conflitto bellico e che, nel caso del cinema, cerca di includere nel proprio raggio d’azione non solo i film, ma anche le molteplici manifestazioni paratestuali che li accompagnano (manifesti, riviste, opuscoli liberamente distribuiti nelle sale, fotobuste), dove rischiano di trovare un porto franco le medesime immagini che con tanta fatica burocratica si cerca di evitare che arrivino sullo schermo.

Uno dei temi più sensibili fra quelli considerati allora osceni, non narrabili o pericolosi per la moralità delle coscienze (soprattutto dei giovani in età evolutiva), insieme a divorzio, aborto e prostituzione, è prevedibilmente l’omosessualità.

Lo studio di un numero di casi dell’ampiezza necessaria a tracciare l’evoluzione dell’atteggiamento della censura nei confronti di un tale soggetto – sia pure a fronte di un campionamento inevitabilmente drastico in queste prime riflessioni di una ricerca in corso – rende opportune alcune considerazioni preliminari circa potenzialità e limiti della documentazione disponibile.

Anzitutto perché la storia della censura, com’è ampiamente noto, è anche una storia orale, di consultazioni informali o comunque non ufficiali, di cui i documenti, al limite, riportano le conseguenze. Questi «contatti preventivi», come li chiamava Giulio Andreotti,[4] possono iniziare sin dalla stesura della sceneggiatura e riproporsi poi durante la revisione vera e propria. Questo spiega, ad esempio, la prassi ricorrente per cui il produttore suggerisce per lettera interventi e tagli, apparentemente sua sponte, come spinto da improvviso autolesionismo, prima ancora che la commissione si sia espressa.

La seconda questione riguarda l’impossibilità di definire una linea evolutiva coerente e rigorosa della censura, anche di fronte a un oggetto rispetto al quale la politica – che della censura muove ovviamente i fili – abbia adottato un atteggiamento trasversalmente convergente, come nel nostro caso. Anzitutto per l’elusivo concetto di oscenità, definito in base ai correnti standard sociali, che lascia ampio spazio di manovra alle soggettività coinvolte, come testimoniano in particolare le sentenze relative ai film sequestrati negli anni. In secondo luogo per quel non irrilevante margine di indeterminatezza che è conseguenza dell’iter previsto dalla legge, con commissioni sempre diverse, differenti gradi di procedimento e un’ampia facoltà di intervento di altri poteri: pensiamo solo a quelli, più o meno ligi alle leggi, di magistrati e forze dell’ordine nel verificare il rispetto degli accordi, sequestrare ed eventualmente rinviare a giudizio gli autori. Ma anche all’interno dello stesso ministero e delle gerarchie politiche il lavoro delle commissioni era ovviamente ben lungi dall’essere esentato da pressioni capaci all’occorrenza di forzare i limiti dei regolamenti e delle disposizioni di legge.

L’atteggiamento della censura nei confronti dell’omosessualità rientra a tutti gli effetti nel quadro di una prassi caratteristica del caso italiano: diversamente da altri paesi, sin dalla promulgazione del Codice Zanardelli, nel 1889, l’Italia non ha mai messo fuori legge i rapporti omosessuali consumati nel privato, ma in compenso ha fatto di tutto per squalificare l’omosessualità sul piano culturale, relegandola all’immaginario nero della criminalità più o meno ordinaria, dei reati contro il comune senso del pudore e degli scandali, in accordo allo sforzo trasversale della politica del dopoguerra di ripristinare i costumi alterati dalla situazione di eccezione determinata dal conflitto.[5]

Di tale atteggiamento censorio, radicalmente repressivo, è rappresentativo il caso della commedia teatrale Fior di pisello (1932) di Edouard Bourdet, che nel 1949 ottiene il nulla osta dalla censura ma se lo vede revocare dal Direttore Generale dello Spettacolo Nicola De Pirro mediante telegramma inviato alla questura di Milano, su indicazione del Sottosegretario di Stato Andreotti. Questi, in una nota manoscritta del 25 luglio, impartisce l’ordine e lo addita a prassi per il futuro, una prassi che ovviamente non si intende limitare al campo teatrale:

La tendenza intelligentemente “liberale” che è giusto sia sempre presente nelle commissioni di censura non può portare al nulla osta per questi lavori di morbosità innaturale, insipida e repellente. Questo clan di pallidi e rotondetti invertiti, alcuno dei quali è tale non per... natura ma per mimetismo, non può dire al pubblico italiano, che non mi par che ne abbia bisogno, che una parola di cruda amoralità. […] Per questi motivi prego ritirare senza indugi il nulla osta a Fior di pisello e questa misura, unita al veto di Le uova dello struzzo, dovrà servire di indirizzo e di monito per il futuro a noi e alle compagnie.[6]

Nel complesso e discusso equilibrio che si viene a determinare in questi anni tra censura del politico e censura del sesso, notoriamente le maglie lasciano passare quel tanto che è necessario a stemperare in rosa il neorealismo e ad alimentare una certa tradizione comica del cinema popolare, ma nel caso dell’omosessualità si preferisce tarpare anche quelle forme derisorie o apertamente critiche prima considerate accettabili. Per alcuni anni il tabù è sufficientemente saldo da lasciare filtrare solo poche eccezioni.

Ancora alla fine del decennio, è rappresentativo di un tale atteggiamento il caso di Costa Azzurra (1959), una commedia di Vittorio Sala incentrata sul tentativo di seduzione di un ingenuo fruttivendolo romano (interpretato da Alberto Sordi) da parte di un affermato regista. Il film ottiene il nulla osta a condizione che «venga soppressa la scena nella villa del regista […] in cui si vede costui che balla il tango, tenendo abbracciato Alberto: scena troppo allusiva a fatti offensivi della morale e che la legge considera come reato».[7] In realtà l’appunto finale, come si è visto, non risponde al vero bensì solamente al desiderio di ossequiare la morale corrente, onde giustificare la soppressione per intero del momento in cui la seduzione operata dal regista si palesa nel modo più concreto e inequivocabile. All’atto della distribuzione, le proteste del mondo cattolico confermano il rifiuto radicale di un tema considerato in sé inaccettabile: la Giunta diocesana dell’azione cattolica di Verona chiede ad esempio al ministro Umberto Tupini un riesame, poiché «la continua esibizione di nudismo, la morbosità dell’atmosfera e, persino, l’introduzione di un personaggio chiaramente degenerato rendono la pellicola offensiva della pubblica decenza e, in ogni caso, sconveniente per tutte le età».[8] I controlli conseguenti portano alla luce un tentativo di infrazione delle norme da parte della produzione: il film è infatti stato fatto circolare preservando una parte della sequenza incriminata, nonché con alcuni ritocchi di montaggio apportati a posteriori rispetto al passaggio in censura, una prassi non consentita dalla legge. Ciò che la produzione sembra aver sottovalutato, in questo suo tentativo di aggirare le istituzioni, è l’esistenza di una fitta rete di vigilanza della cultura cattolica, formata da organizzazioni religiose e laiche, nonché da singoli prelati o cittadini timorati, che si incaricano di monitorare l’operato della censura.[9] Il film viene di conseguenza richiamato in censura, uscendone con la punizione dell’esclusione dalle sale dei minori di 16 anni, di ulteriori tagli e della conferma che «rimane integrale il divieto della scena del ballo tra il regista e Alberto».[10]

I casi di totale rimozione chirurgica – come accade ancora con la sequenza del bar gay di Amsterdam de La ragazza in vetrina (1960) di Luciano Emmer, film sulla dura esistenza dei minatori italiani emigrati in Belgio – si fanno però sempre più rari in favore di contrattazioni più elaborate, quando non addirittura sofisticate. La svolta sociale, culturale, economica e politica che si registra a partire dai tardi anni Cinquanta (grazie all’emergere, sopra il rumore dei discorsi pubblici di carattere più conservatore, di un cambiamento già avviato negli anni precedenti)[11] produce un ritorno del rimosso in proporzioni non più controllabili.

Del resto, già nella citata circolare del 1952 il ministro doveva «constatare – e viene anche da più parti segnalato – che, se l’attività svolta in argomento dagli organi dipendenti ha ottenuto il risultato di incrementare il numero dei sequestri […] i sequestri stessi riescono peraltro, assai spesso, ad acquisire soltanto una minima parte delle copie messe in commercio», il che «rende inefficaci le sanzioni previste dalla legge, con evidente discredito per gli organi chiamati a curarne l’applicazione».[12] L’utopia del controllo totale mostra insomma assai presto i suoi limiti e le trasformazioni a cavallo del nuovo decennio la costringono a retrocedere in favore di un approccio di carattere dialettico e negoziale, certamente non nuovo alla censura stessa, ma indice di un atteggiamento meno rigido, meno allarmistico e più realistico. A compensare saranno chiamati altri poteri: polizia e magistratura si fanno carico di prolungare per qualche anno la battaglia della repressione ben al di là della maggior moderazione assunta dalla censura stessa, e non a caso sovente lamentata dalla stampa cattolica e di estrema destra, che accusa l’organismo di controllo statale di essere inutile, debole, mal gestito o persino controproducente, traducendosi di fatto in una semplice certificazione di contenuti scabrosi atti ad attrarre il pubblico anziché a tenerlo fuori dalle sale.

Il cambiamento investe anche il tema che ci interessa, in modi addirittura sorprendenti: se nel giro di pochi anni la sessualità diviene un elemento quasi irrinunciabile del nostro cinema, anche l’omosessualità, in modo tutt’altro che scontato, ricompare in centinaia di rappresentazioni cinematografiche nell’arco dei successivi vent’anni,[13] in virtù del potenziale trasgressivo di cui continua a essere investita anche proprio in conseguenza del tentativo di rimozione operato nel decennio precedente.

 Un fotogramma di Via Margutta (1960) di Mario Camerini

Di questo momento di passaggio è emblematico l’esempio di Via Margutta (1960), una commedia di Mario Camerini sul mondo degli artisti della Roma nel pieno della dolce vita. Fra i suoi personaggi vi è il mercante d’arte Contigliani, il quale non nasconde le reali motivazioni del suo interesse per un giovane pittore privo di talento: il loro affiorare provoca la tragedia. La commissione di censura si limita a proibire il film ai minori, ma un documento riservato mostra come De Pirro, sopravvissuto ai numerosi avvicendamenti di sottosegretari e governi, seguendo la prassi degli anni precedenti chieda una verifica ipotizzando l’opportunità di un giudizio più severo, sicché un consigliere deve giustificare l’operato della commissione, tra l’altro riconoscendo che vi è sì «la figura equivoca del personaggio di Contigliani, sottolineata, però, con la massima misura e discrezione di accenti e di linguaggio».[14] A un De Pirro fido custode del monito andreottiano del 1949 risponde una censura ammorbidita che torna a vagliare forme e tonalità della rappresentazione, ritenendone alcune più accettabili di altre.

Nonostante ciò, l’argomento rimane sensibile, tanto che se un elemento comune e complessivamente coerente emerge dai documenti, al di là delle negoziazioni volta per volta intraprese, è quello di non far mai mancare un prudente divieto che salvaguardi i minori da un tema ritenuto intrinsecamente inadatto alla loro sensibilità, quando non offensivo del pudore. I ricorsi ottengono al massimo il risultato di superare l’eventuale rifiuto iniziale del nulla osta in favore appunto di un divieto (previa l’esecuzione di tagli e interventi correttivi), ma risultano inutili quando cerchino di ovviare a quest’ultimo.

È quanto accade persino a Le signore (1960) di Turi Vasile, commedia leggera di un regista di comprovata fede cattolica in cui Enrico Maria Salerno interpreta un parrucchiere che finge disinteresse per le donne onde poter lavorare, in quanto, a suo dire, la categoria sarebbe controllata da una «massoneria omosessuale». La valutazione della sceneggiatura prescritta dalla legge Andreotti evidenzia una serie di problemi potenziali, tutti legati a questo tema, a partire dalle «allusioni all’equivoco René» fino alla scena in cui si fa la parodia del teatro esistenzialista nella quale, «ad un certo punto, si vedono tre fanciulle (non si capisce bene se siano donne o tipetti vestiti da donna), avvinte in un unico groviglio. Poi si inizia il ballo dove “parecchie sono le coppie formate da soli uomini”».[15]

Si direbbe che queste segnalazioni bastino ad allarmare De Pirro, il quale appunta a margine l’intenzione di conferire con il produttore. In questo caso le consultazioni orali iniziano dunque già durante le riprese, e il risultato non si fa attendere: tutti gli elementi ‘equivoci’ segnalati dal giudizio sulla sceneggiatura scompaiono, mentre la figura di René viene chiarita. Il divieto ai minori giunge comunque puntuale ed evidentemente inatteso, dal momento che viene (inutilmente) fatto ricorso.[16]

Una politica tanto severa, intesa evidentemente a scoraggiare il tema in ogni sua forma, può contribuire a spiegare la singolare rarità (rispetto ad altre cinematografie coeve) di film che, come questo, abbiano tra i loro obiettivi una critica fosca dell’omosessualità. La destra cattolica non sembra avere nessun interesse a trattare l’argomento e al sottoporlo a condanna sembra preferire sottacerlo. Viceversa, numerosi sono i film che negli stessi anni sfruttano l’omosessualità in modo politicamente provocatorio. Si tratta di un fatto rilevante: se l’omosessualità rientra in massa nel cinema italiano è perché viene considerata ancora scabrosa, quindi utile a far da contrasto a quella sessualità di forme abbondanti ma educata sulla quale la censura degli anni Cinquanta aveva perlopiù chiuso un occhio. Non è un caso che due siano i filoni principali in cui dilaga: quello dei film polemici nei confronti del boom e quello dei documentari di sexploitation, che cercano di spingere la sessualità oltre le maggiorate e le avventure da spiaggia, per avventurarsi in locali notturni e feste private, nei convegni meno convenzionali e nelle terre più esotiche, a partire dal modello del Blasetti di Europa di notte (1959).

Il primo filone è tutt’altro che ovvio, dal momento che le posizioni del partito comunista relativamente all’omosessualità non erano distinguibili da quelle dell’opposta parte politica, né sarebbero state oggetto di sostanziale riconsiderazione fino alla morte di Pasolini.[17] Si tratta dunque di iniziative personali a rischio di attrito anche con le parti politiche di appartenenza.

Il caso più rilevante, singolare ed emblematico rimane quello di Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti: nessuno avanza infatti rimostranze, in nessun grado di valutazione, sul personaggio di Morini e la sua palese seduzione nei confronti di Simone, nemmeno il magistrato Carmelo Spagnuolo che minaccia il sequestro del film ottenendo quattro tagli aggiuntivi rispetto a quelli già praticati dalla regolare commissione di censura e che, proprio a causa dell’omosessualità del protagonista, sequestrerà poche settimane dopo anche L’Arialda di Testori. L’apparente incoerenza si può spiegare solo con l’apparato connotativo cui Visconti fa ricorso nel caso di Morini, mettendo l’omosessualità sotto una luce che è facile leggere in chiave negativa e di condanna.[18]

Un caso come questo testimonia non tanto dell’apertura della censura, quanto di una certa rigidità nel modo in cui essa semplifica i significati in realtà spesso ambivalenti di tali rappresentazioni. La corruzione di Simone presenta sfumature complesse, ma è comunque legata al contesto di una città investita da una congiuntura economica sufficiente a creare «inquietudini pel benessere» di verghiana memoria, e quindi si traduce in una critica nei confronti di tali illusioni e della deformazione dei valori tradizionali da esse prodotti.

Molto simile è il caso de La cuccagna (1962) di Luciano Salce, commedia sarcastica verso un boom ridotto a occasione di speculazione per imprenditori improvvisati e a mera illusione per i comuni proletari. Qui il giovane omosessuale è insultato dal padre, dal cognato tambroniano e persino dalla madre che, definendolo malato, in effetti vorrebbe difenderlo: valutazioni evidentemente sufficienti a sedare la censura, tanto più che si tratta di un personaggio marginale. Tuttavia, in questo modo è lasciato libero di svolgere la sua funzione, quella di essere l’unico, insieme alla sorella, a sapersi sottrarre agli inganni della propaganda democristiana veicolata da giornali e televisione, e quindi a non credere alle promesse del miracolo.

Analogo è anche il caso de Il disco volante (1964) di Tinto Brass: letta la sceneggiatura, il funzionario non ha nulla da segnalare e anzi si compiace di quanto è divertente, benché fosse inizialmente previsto che i tre marziani se ne andassero in giro nudi per le campagne venete.[19] Il fatto è che il personaggio omosessuale viene inventato solo in seguito: la ricca aristocratica che nella sceneggiatura è vittima di un marito interessato solo ai suoi soldi diviene così nel film una carnefice capace di eliminare senza titubanza alcuna tutti coloro i quali minaccino lo status quo che le garantisce i suoi privilegi, si tratti di partigiani, marziani o pretendenti maschi del figlio, personaggio oltremodo stereotipato ma nondimeno provocatorio. I censori si accontentano in questo caso del fatto che egli finisca in manicomio, e poco conta che vi finisca per essersi opposto alla madre fascistoide. Non sembrano dunque aver colto le implicazioni politiche della sua omosessualità, limitandosi a tagliare poche inquadrature di due donne che danzano insieme durante una festa e quella in cui il marziano trasporta il giovane in braccio, premessa allusiva di ulteriori soddisfazioni. Viene tuttavia lasciata intatta la sequenza ben più insinuante in cui i due danzano insieme un lento.[20]

Ovviamente i censori non sono sempre così naïf, né semplicemente repressivi. Come si è già intravisto, il ruolo della censura non è mai stato solo quello di chiedere tagli e imporre divieti. Spesso ha agito in modi più complessi negoziando con autori e produttori, riscrivendo sceneggiature, modificando doppiaggi e montaggi. Un ruolo di «productive regulation», come scrisse vent’anni fa Annette Kuhn,[21] ovvero di quella «funzione ispiratrice» di cui parlava già Luigi Freddi sotto il regime.[22]

 Un fotogramma di Milano nera (1963) di Gian Rocco e Pino Serpi

E non vi è modo migliore che collaborare se si voglia dare segni di buona fede. È il caso degli esordienti Gian Rocco e Pino Serpi e del loro Milano nera (1963), tardivamente realizzato sulla base di una sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini risalente ad alcuni anni prima e pensato come una versione vagamente testoriana dei primi romanzi dello scrittore sui ragazzi di vita romani. Vi si raccontano vicende episodiche di alcuni ‘teddy boys’ della metropoli lombarda alle prese con la noia, ispirate a fatti di cronaca.

Nella speranza di non attirare l’attenzione, già al momento di depositare la sceneggiatura i due registi cercano di cancellare dal progetto la memoria di Pasolini. Letteralmente, cancellando cioè a mano il suo nome dalla copertina del copione inviato al ministero.[23] Il gesto è però a tal punto maldestro da sortire l’effetto contrario a quello sperato: il funzionario che se ne occupa, notato l’espediente, si interroga infatti sui suoi eventuali «scopi reconditi» e lo rimarca nella sua relazione, molto dettagliata nel rilevare ogni possibile elemento scabroso, ivi compresa la «dissertazione psicologica del pederasta (Gino) e volo finale del medesimo».[24] Disturba cioè che Gino, pur vittima delle angherie dei teppisti, filosofeggi e assuma risvolti troppo positivi.

Anche in questo caso si pensa bene di anticipare alla produzione che il film, così com’è, ha ben poche speranze di arrivare in sala, ma questa volta a una discreta consultazione telefonica si preferisce (o forse si accompagna) una lettera firmata direttamente dal ministro Folchi, «per il conto che codesta Società stessa vorrà tenerne».[25] Conto non sufficiente, a giudizio della commissione di censura che due anni dopo nega il nulla osta a causa di tre scene, fra cui quella «dell’incontro con il pederasta», che rendono il film complessivamente «offensivo del buon costume», nonostante «un contenuto etico apprezzabile».[26]

I registi fanno nuovamente ricorso, cercando di convincere il ministero delle loro buone intenzioni e sconfessando apertamente Pasolini. Spiegano cioè a chiare lettere il perché di quella ingenua cancellazione: una forma di autocensura, in seguito ai «fatti di cronaca a carattere scandalistico» che hanno coinvolto nel frattempo Pasolini.[27] Un’autocensura praticata già in fase di lavorazione, come documentano allegando stralci di sceneggiatura da loro rimaneggiata. In ossequio alle richieste del censore, essi si dicono inoltre pronti a modificare ‘spontaneamente’ il doppiaggio e ad apportare una serie di tagli (che includono le inquadrature in cui Gino «appare seminudo, e ciò per non dare adito al sospetto di eccessivo compiacimento sadico»), oltreché a fare un considerevole intervento al montaggio: tra la sequenza in questione e quella successiva (una danza estetizzante su musiche di Bach) immaginano di inserire infatti quella di un ricettatore, «cercando con ciò di togliere quel carattere di apparente commento pietoso all’omosessualità che poteva essere inteso con il precedente montaggio».[28] La commissione di secondo grado boccia l’appello, ritenendo peraltro la disponibilità a tagliare testimonianza del carattere offensivo del buon costume del film.[29] Ma si direbbe solo una questione di forma procedurale: tanti interventi devono infatti rispondere alla presentazione di una nuova edizione, cosa che gli autori fanno il 18 luglio, ottenendo finalmente il tanto sospirato nulla osta, ovviamente con un divieto ai minori di 18 anni.[30]

I difensori di questo genere di film con tratti assimilabili a posizioni sinistrorse, soprattutto nei primi anni Sessanta quando lo scontro si fa particolarmente acceso, hanno per Leitmotiv quello di sostenere che la censura avrebbe ignorato i film popolari e di intrattenimento per accanirsi solo su quelli politicamente impegnati, usando l’argomento dell’oscenità come mero pretesto. Questa tesi in realtà è a sua volta semplicistica e parziale:[31] non solo infatti, al di là di un suo possibile sfruttamento pretestuoso, l’osceno costituisce un problema tutt’altro che privo di autentica sostanza per la cultura cattolica dell’epoca, ma per dimostrare come il cinema popolare non fosse meno sorvegliato basterebbe considerare la sistematica resistenza opposta ai documentari erotici, l’altro filone cui si era accennato, in termini sia di regolare censura, sia di sequestri e, non di rado, processi. Tuttavia, ovviamente, nessuno avrebbe speso dibattiti o imbastito lotte politiche per questi film. Cosulich ha rievocato una riunione dell’ANAC durante la quale si discusse proprio dell’opportunità di difendere pubblicamente questi film, scartandola (benché alcuni si fossero detti favorevoli) in quanto «coll’esaltazione del corpo femminile, avrebbero potuto rappresentare un buon antidoto nei confronti della dilagante omosessualità. Meglio un’Italia di voyeurs che di pederasti, insomma».[32]

In realtà erano proprio questi film a far «dilagare l’omosessualità», ovvero a riportarla in superficie dopo anni di rimozione, dato che il loro scopo era quello di esibire ogni forma di sesso che potesse ambire a suscitare un minimo di sensazione, con l’alibi della documentazione e di commentari pretestuosi.[33]

Né i funzionari del ministero né i giudici si lasciano aggirare dagli espedienti retorici di questi film. Quando ad esempio la censura chiede agli autori di Odissea nuda di Franco Rossi (1961) di modificare uno scambio di battute a commento della rivelazione che un indigeno apparentemente di sesso femminile è in realtà un uomo travestito («Ci sono molti di questi tipi in Italia?» chiede un personaggio, e l’altro risponde: «È un’invasione e non sanno stirare neanche le camicie»), gli autori fanno notare che «la sequenza […] è risolta e si conclude – ci sembra – in una maniera che fustiga esplicitamente il costume nostrano. In altre parole, il protagonista […] emette un giudizio negativo […], anche se in forma divertente».[34] Tuttavia la censura non retrocede: l’ironia è un’arma a doppio taglio ed è sin troppo noto che questo genere di film gioca sul filo del doppio senso e della doppia morale, sicché si preferisce non rischiare imponendo la cancellazione della battuta.

Due anni dopo, Nudi per vivere (1963, di Giuliano Montaldo, Elio Petri, Giulio Questi) si vede negare il nulla osta a causa, tra l’altro, di sequenze «descrittive di equivoci ambienti di deviazioni sessuali e di travestimenti»: a dispetto delle sue pretese documentarie, il film viene apertamente additato come un «prodotto destinato a stimolare l’appetenza sessuale»,[35] cioè pura e semplice pornografia. Dopo le consuete «modificazioni apportate spontaneamente dal produttore», la commissione di secondo grado concede il nulla osta per un soffio (7 voti favorevoli e 5 contrari) con un divieto ai minori di 18 anni,[36] ma ne segue un sequestro. Il giudice assolve il produttore, perché sostiene che non si può provare la sua intenzione di trasgredire la legge, ma trova comunque contrarie al pudore alcune scene di cui ordina il taglio, basandosi su una definizione data dalla Cassazione nel 1960 secondo la quale «deve considerarsi osceno ogni atto, scrittura, disegno o rappresentazione cinematografica o teatrale che, facendo riferimento al rapporto sessuale, suoni esaltazione di bassi istinti erotici o susciti disgusto e ripugnanza nelle persone normali», cioè «tutto quanto costituisca aggressione e attentato alla normalità dei rapporti fra i sessi».[37] Scrive dunque infine che

la conoscenza di un certo genere di divertimento, e di alcune perversioni sessuali, mentre è scontata per il sociologo, lo psicologo o il medico, è soltanto pericolosa per la massa del pubblico fra cui le manifestazioni di degradazione morale rappresentate nel film potrebbe lasciar traccia esaltando tendenze ed istinti fuori della norma.[38]

Pertanto ordina il taglio delle due scene incriminate aggiungendone anche qualche altra secondo la propria sensibilità, tra cui quella dei travestiti e delle donne che ballano tra di loro.

Come postilla per una conclusione provvisoria di questo percorso, prendiamo rapidamente in esame il caso di Inghilterra nuda di Vittorio De Sisti, con il quale arriviamo al 1969. L’iter è simile: alcuni tagli, un divieto ai minori e poi un sequestro. Il giudice ordina la distruzione di ben 18 minuti di girato,[39] ma i produttori vincono l’appello. La sentenza sancisce che

il denudarsi della donna e il compimento di altri atti, anche fra persone di sesso diverso e perfino dello stesso, che abbiano un chiaro riferimento con le manifestazioni della vita sessuale (baci, abbracci, toccamenti) non meravigliano più, non solo se vengono raccontati o raffigurati, ma anche se commessi in pubblico, perché tutto ciò appare come più o meno normale espressione della natura umana.[40]

Ovviamente la sentenza da sola non basta a risolvere la questione e a depennare l’omosessualità dall’elenco dei tabù: la censura continuerà a non gradire l’argomento per altri anni ancora. Tuttavia è un segno rilevante dei mutamenti in corso e della direzione ormai intrapresa dalla società italiana in materia sessuale: se il cinema degli anni Sessanta contribuisce a una generale riconsiderazione dell’omosessualità e a modificarne la percezione nel pubblico, la società a sua volta influisce sulle prassi della censura, dal momento che gli interventi di quest’ultima sono regolati da un senso del pudore esplicitamente legato agli standard correnti della società stessa. Tale circolo, vizioso o virtuoso a seconda dei punti di vista, lascia i suoi segni: non ultimo, è rilevante che l’omosessualità maschile venga rappresentata sempre meno nel corso del decennio in favore di quella femminile, sfruttata in chiave erotica, sintomo di come la prima vada perdendo rapidamente il suo potenziale ideologico nei confronti di un pubblico sempre più assuefatto e di una politica sempre meno urtata dall’argomento.


1 Archivio Centrale dello Stato di Roma (d’ora in poi ACS), Presidenza del Consiglio dei Ministri 1948-1950, f. 2.3.6./32227.

2 Relazione del capo della polizia al gabinetto del Ministro dell’Interno e al Sottosegretario di Stato Paolo Cappa, 25 marzo 1947, ivi, sottof. 4.

3 Prot. n. 10.17358/12985.

4 Citato in M. Argentieri, La censura nel cinema italiano, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 76.

5 Su tale sforzo cfr. S. Bellassai, La morale comunista. Pubblico e privato nella rappresentazione del PCI (1947-1956), Roma, Carocci, 2000.

6 ACS, Fondo Ministero del Turismo e dello Spettacolo, Direzione generale spettacolo, Divisione Teatro, Revisione teatrale, Censura teatrale, schedario 1946-1962, fascicolo 716. Per una ricostruzione del contesto e delle conseguenze di queste indicazioni di Andreotti si rimanda a M. Giori, Poetica e prassi della trasgressione in Luchino Visconti. 1935-1962, Milano, Libraccio, 2011, pp. 99-108.

7 Nulla osta del 30 giugno 1959 in Ministero per i Beni e le Attività Culturali di Roma, Direzione Generale per il Cinema (d’ora in poi MBAC), f. 29800.

8 Lettera dell’8 ottobre 1959, ivi.

9 Nel caso in esame si registra ad esempio anche l’iniziativa del parroco di S. Chiara di Iglesias, il quale, appellandosi al «vero cattolico» che è nel ministro Tupini, lamenta non solo l’oscenità perdurante del film, ma anche quella del manifesto, e a documentazione di quanto sostenuto allega il bollettino parrocchiale del 29 novembre 1959 contenente un suo corsivo contro il film e, più in generale, l’oscenità del corrente cinema italiano, nonché una foto da lui stesso scattata ritraente due cittadini di spalle, in una luce allusiva, che osservano la locandina del film: «Avesse sentito i commenti che la gente faceva dinanzi ai cartelloni del film schifoso Costa Azzurra, diffusi in questi giorni nella nostra città! I buoni sono sdegnati, i cattivi gongolano!», scrive nella sua missiva manoscritta datata 30 novembre (ivi).

10 Nulla osta del 20 ottobre 1959, ivi. Inutilmente il produttore lamenta la «particolare ed inconsueta procedura» (lettera al Ministero del Turismo e dello Spettacolo del 23 ottobre 1959, ibidem), e altrettanto inutilmente, un mese dopo, inoltra un appello millantando scorrettezze procedurali da parte del ministero, in realtà in questo caso insussistenti essendosi dato semmai il caso contrario (la richiesta di appello è datata 23 novembre 1959, ivi).

11 Come hanno comprovato tra gli altri, in modi differenti e con scansioni cronologiche diverse, D. Forgacs, S. Gundle, Cultura di massa e società italiana (1936-1954), Bologna, Il Mulino, 2007, e M. Barbagli, G. dalla Zuanna, F. Garelli, La sessualità degli italiani, Bologna, Il Mulino, 2010.

12 Prot. n. 10.17358/12985.

13 Per quanto riguarda gli anni Sessanta, si veda M. Giori, ‘«Ma oggi come te movi te piano per…»: l’omosessualità nel cinema italiano degli anni Sessanta’, Cinergie, 5, 2014, pp. 34-44, http://www.cinergie.it/?p=4209 [accessed 26 settembre 2015].

14 Il documento, datato 10 maggio 1960, è in MBAC, f. 31867.

15 Revisione preventiva del 2 marzo 1960, in ACS, Fondo Ministero del Turismo e dello Spettacolo, Direzione Generale Spettacolo, Divisione Cinema, Concessione certificato di nazionalità, Fascicoli per film 1946-1965, f. 3265.

16 Nulla osta del 22 aprile 1960 confermato in appello il 21 luglio 1960 (in MBAC, f. 31790).

17 Cfr. F. Giovannini, Comunisti e diversi. Il Pci e la questione omosessuale, Bari, Dedalo, 1980.

18 Per un’analisi approfondita di questo caso si rinvia a M. Giori, Poetica e prassi della trasgressione in Luchino Visconti, pp. 189-246.

19 Revisione preventiva del 9 dicembre 1964 in ACS, Fondo Ministero del turismo e dello Spettacolo, Direzione Generale Spettacolo, Divisione Cinema, Concessione certificato di nazionalità, Fascicoli per film 1946-1965, f. 4717.

20 Nulla osta del 22 dicembre 1964, in MBAC, f. 44352.

21 Cfr. A. Kuhn, Cinema, Censorship, and Sexuality, 1909-1925, London-New York, Routledge, 1988.

22 Citato in M. Argentieri, La censura nel cinema italiano, p. 41.

23 Ora in ACS, Fondo Ministero del Turismo e dello Spettacolo, Direzione Generale Spettacolo, Divisione Cinema, Concessione certificato di nazionalità, Fascicoli per film 1946-1965, copione 3582.

24 Revisione preventiva del 28 marzo 1961, in ACS, Fondo Ministero del Turismo e dello Spettacolo, Direzione Generale Spettacolo, Divisione Cinema, Concessione certificato di nazionalità, Fascicoli per film 1946-1965, f. 3582.

25 Lettera del 30 marzo 1961, ivi.

26 Verbale del 23 marzo 1963, in MBAC, f. 39869.

27 Ricorso dell’8 aprile 1963, in MBAC, f. 39869.

28 Ibidem.

29 Verbale del 9 aprile 1963, in MBAC, f. 39869.

30 Nulla osta del 20 luglio 1963, ivi. Rimane a questo punto solo da superare un ultimo scoglio, cioè l’ammissione alla programmazione obbligatoria, dapprima rifiutata dalla commissione tecnica per manifesto dilettantismo ma infine concessa dopo il ricorso degli autori (si vedano i documenti in ACS, Fondo Ministero del Turismo e dello Spettacolo, Direzione Generale Spettacolo, Divisione Cinema, Concessione certificato di nazionalità, Fascicoli per film 1946-1965, f. 3582).

31 È quanto mettevamo in rilievo già a proposito del caso di Rocco e i suoi fratelli in M. Giori, Luchino Visconti. Rocco e i suoi fratelli, Torino, Lindau, 2011, pp. 216-218.

32 C. Cosulich, La scalata al sesso, Genova, Immordino, 1969, p. 85.

33 Per un inquadramento di questa produzione si rimanda a M. Goodall, Sweet & Savage: the World through the Shockumentary Film Lens, London, Headpress, 2006; D. Shipka, Perverse Titillation. The Exploitation Cinema of Italy, Spain and France, 1960-1980, Jefferson/London, McFarland, 2011; per un repertorio dei film prodotti, si veda invece A. Bruschini, A. Tentori, Nudi e crudeli. I mondo movies italiani, Milano, Bloodbuster, 2013.

34 Memoriale del 20 marzo 1961, in MBAC, f. 34159.

35 Nulla osta del 26 novembre 1963, in MBAC, f. 41657.

36 Nulla osta del 12 dicembre 1963, ivi.

37 Sentenza del Tribunale di Roma del 18 maggio 1964, ivi.

38 Ibidem.

39 Sentenza del Tribunale di Roma del 6 maggio 1969, in MBAC, f. 53667.

40 Sentenza del Tribunale di Rimini del 20 febbraio 1971, ivi.