A partire dal secondo dopoguerra, lo sforzo della censura di contrastare la diffusione di contenuti cui viene applicata la terminologia sinonimica oscenità/pornografia/immoralità investe un territorio esteso di soggetti e di materiali, in cui il cinema rappresenta un tassello centrale ma non esclusivo. Si può ricavare un’idea di tale estensione da un fascicolo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, intestato «Pubblicazioni immorali»,[1] in cui sono inclusi incartamenti relativi al primo decennio del dopoguerra: riviste illustrate, teatro, televisione, arte (sotto accusa i disegni di Salvador Dalì per la Divina Commedia commissionati nel 1949 dal Poligrafico dello Stato) e persino decalcomanie da «applicare a moto-scooter e calendarietti». E ovviamente il cinema: un sottofascicolo riguarda il divieto d’importazione della rivista Paris-Hollywood (che tra il 1947 e il 1973 con il cinema intrattiene per la verità un rapporto piuttosto pretestuoso, sfruttando quali pin-up per le sue copertine attrici americane frammiste a una miriade di modelle anonime); un secondo riguarda invece la proiezione di film propriamente pornografici, nel corso di serate clandestine organizzate da privati in casa propria (ma anche nella sala di una gelateria, dopo l’orario di chiusura) grazie alla compiacenza di un operatore che prestava competenze e pellicole, a sua detta senza scopo di lucro. L’irruzione della polizia, organizzata a seguito della segnalazione di un quotidiano romano, ha esiti tragicomici: si scontra infatti con l’impossibilità di procedere al preventivato arresto di tutti i convenuti (uomini e donne), a causa della presenza fra il pubblico di «membri del Corpo Diplomatico e personalità politiche».[2]