Teatro come luogo della domanda. Conversazione con Alessio Pizzech

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Non c’è bisogno di arrivare alla fine di questa intervista per capire che Alessio Pizzech (Livorno, classe 1972) è un regista sui faber: a nove anni la folgorazione per il teatro, luogo in cui la fragilità può rivelarsi forza, poi tanta gavetta autonoma (preferita alla tradizionale sequela). Adesso è una delle personalità più interessanti del panorama teatrale internazionale e con disinvoltura oltrepassa (o forse abita) la soglia che separa prosa e teatro musicale. Da sempre alla ricerca di autori complessi e scomodi di cui sviscerare le domande, ritiene che il teatro (italiano) abbia bisogno di direzioni curiose e coraggiose. La regia? Un mestiere ancora assai giovane. Il regista? Un abusivo…

 Alessio Pizzech (Ortigia 2016) Ph. Michele Maccarrone

Biagio Scuderi: Quando è nata la passione per il teatro?

 

Alessio Pizzech: Ricordo che a nove anni, mentre recitavo un pezzo da un poemetto conviviale di Pascoli intitolato La scuola dei paggi, mi inginocchiai su un lettino che faceva parte della scenografia e cominciai a piangere, recitavo piangendo; alzai gli occhi e mi accorsi che attorno a me piangevano tutti. Era successo qualcosa, quella fragilità che contraddistingueva il mio carattere in quel momento era diventata una forza, qualcosa che poteva essere ‘utile’, forse una piccola forma di potere, ciò che sentivo io lo sentivano anche gli altri; mi sembrò una sorta di rivelazione, una strada per me e per la mia vita.

 

B. S.: Quali incontri hanno segnato la sua formazione artistica?

 

A. P.: All’inizio fu importante l’incontro con Enzina Conte, una vecchia insegnante di recitazione che aveva fatto l’Accademia ai tempi di Vanda Capodaglio e che insegnava le regole della recitazione classica: la dizione, la chiusura della battuta, il fraseggio della frase. Appunto, una formazione accademica. Le devo molto perché mi ha insegnato la disciplina, il rigore, la dedizione all’arte. Successivamente gli incontri che mi hanno cambiato sono stati quelli con Eugenio Barba e tutta la scuola grotowskiana di Pontedera, attraverso Dario Marconcini e Paolo Billi, l’incontro con Jacques Fornier, grande docente di teatro francese dell’ENSATT di Lione che mi aiutò a sviluppare tutta la tecnica della respirazione; ancora la frequentazione dei Magazzini criminali, ovvero di Federico Tiezzi, Sandro Lombardi e Marion D’Amburgo, attivi a Castiglioncello in residenza e fautori di un teatro fatto di immagine e di estetica. In mezzo due incontri non continuativi nel tempo ma fondamentali: da una parte Giorgio Strehler, l’anno che passai al Piccolo Teatro a vedere le prove del Festival Brecht, dall’altra il compianto Leo De Berardinis, un maestro assoluto di cultura teatrale.

 

B. S.: Pier’Alli?

 

A. P.: Io non ho mai fatto l’assistente alla regia, non fa parte del mio percorso; l’unica esperienza di assistentato è stata quella con Pier’Alli. Fu molto bello, si trattava del suo rientro in prosa con il Principe costante al Fabbricone di Prato (con le musiche di Battistelli) e fu per me un incontro importante perché mi mise in contatto con una visione del regista come deus ex machina, motore di un percorso estetico e creativo. Devo molto a Pier’Alli, soprattutto per avermi sopportato come assistente.

 

B. S.: Quali testi hanno scavato dapprincipio un solco nella sua anima?

 

A. P.: Anzitutto Brecht, è stato per me un grande incontro prima come spettatore e poi come attore; lo considero un padre spirituale e ricordo sempre con affetto Brechtiana e Ascesa e caduta della città di Mahagonny. Pasolini, con lo spettacolo Solitudine incerta. E poi l’incontro con due grandi autori francesi: Jean Cocteau, con Il bell’indifferente e La voce umana, con Le Théâtre de Poche scritto per Jean Marais, piccoli testi teatrali radiofonici molti belli che misi in scena con una mia traduzione; e il grande incontro con Bernard-Marie Koltès di cui ho messo in scena diversi testi teatrali e che ha rappresentato per me l’apertura verso un teatro post-drammatico.

 

B. S.: Qual era all’epoca il suo ruolo? Attore o regista?

 

A. P.: Koltés è stato uno dei primi autori in cui non mi sono auto-diretto, abitudine che avevo sino ad allora. Con lui comincia il mio ‘secondo periodo’, in cui ho cominciato a dirigere. Mentre Brecht e Pasolini li ho vissuti sulla mia carne e sul mio corpo, come attore.

 

B. S.: Stare dentro, come attore, e stare fuori, come regista… quali sono le differenze?

 

A. P.: Nasco come attore e ho vissuto e amato il brivido dello stare dentro, quel totale abisso del sentire, il punto di vista interno del percepire l’organicità e necessità di una verità scenica. A un certo punto, però, ho sentito di voler stare fuori, per esercitare quella distanza che ti consente di sentire la verità della scena, una distanza che giorno dopo giorno, durante le prove, ti fa essere sempre più dentro. Star fuori per comprendere, per verificare la necessità, per essere specchio e primo spettatore di te stesso. Star fuori per imparare a osservare e ad ascoltare senza giudicare, per garantire agli interpreti la libertà nelle regole. Star fuori per abbracciare l’insieme che lavora assieme.

 Alessio Pizzech (Ortigia 2016) Ph. Michele Maccarrone

B. S.: Quali sono le caratteristiche fondamentali che ricerca in un autore?

 

A. P.: Ho sempre cercato autori complessi che avessero anche vite esemplari, così Pasolini, Koltés, Griboedov, Dukovski, fino a Pietro Grasso. Cerco autori che siano maestri, persone che con la loro vita testimonino la loro scrittura e viceversa. Autori che stiano nel loro presente e capaci, al contempo, di generare domande nel mio quotidiano. Il teatro per me resta un luogo dove imparare. Cocteau, Savinio, Koltés, Pasolini sono i miei padri e maestri, e grazie a loro mi sono costruito un’idea del mondo. Ho scelto autori di cui potevo essere mezzo, veicolo di conoscenza, autori scomodi che lascio al di sopra di me, con le loro domande che ho il dovere di accogliere e mettere in dialogo con le mie.

 

B. S.: Quando ha scoperto la passione per l’opera lirica?

 

A. P.: Quando avevo 25 anni l’allora direttore artistico del Festival di Castiglioncello, Massimo Paganelli, mi chiese di curare la regia di due piccole produzioni nella piazzetta di Bolgheri, in accordo col direttore artistico del Teatro di Livorno, Alberto Paloscia, che scelse Le pauvre matelot di Darius Milhaud. Paganelli sapeva della mia passione per la musica e così ebbi modo di cimentarmi con la regia lirica. In quell’occasione l’amore per la musica e per il teatro camminarono insieme e pensai che poteva essere un’idea buona, da sviluppare. Qualche anno dopo sempre Paganelli mi chiese se volevo fare l’assistentato a Pier’Alli, allora andai a vedere il suo Pelleas et Melisande al Comunale di Bologna: di fronte alla bellezza di quell’allestimento capii che dovevo dedicarmi a questa forma di spettacolo così complessa e affascinante. Le cose poi andarono avanti quasi a prescindere dalla mia volontà.

 

B. S.: Quali sono le tappe che ricorda come più significative?

 

A. P.: Importante fu l’incontro con l’allora direttore artistico del Festival Donizetti di Bergamo, Francesco Bellotto, che mi ha dato molta fiducia. Grazie a lui feci il Don Giovanni di Giuseppe Gazzaniga e una nuova edizione dell’Elisir d’amore. Altro incontro significativo, artisticamente, fu quello con il Teatro Sperimentale di Spoleto dove curai produzioni di punta come La Cenerentola di Rossini ma anche cominciai a sperimentare una pedagogia di lavoro che metteva insieme il background di regista di prosa con il lavoro sui giovani cantanti. Gli anni dello Sperimentale li ricordo con grande piacere perché fu un periodo in cui ci fu un grande scambio di talenti e intelligenze con persone come Omar Montanari, Maria Agresta e Federica Carnevale. Altra tappa fondamentale è stata senza dubbio il Teatro di Livorno, il teatro della mia città. Devo molto al direttore artistico Alberto Paloscia che ha molto creduto in me dandomi la possibilità di fare delle cose particolari, come La voix humaine di Poulenc o delle serate musicali su Kurt Weill. È stato lui a farmi conoscere Mascagni, affidandomi diverse regie, ed è stato lui a commissionarmi Ascesa e caduta della città di Mahagonny, spettacolo che ha profondamente cambiato il mio modo di fare regia lirica.

 

B. S.: In che senso?

 

A. P.: Nel senso che Mahagonny mi ha costretto a pensare che la regia lirica non è solo decoro o movimento ma è qualità di un processo, presa di posizione drammaturgica, che la regia lirica non può essere gastronomica. Lì ho capito che non si fa regia lirica solo per accondiscendere il pubblico o se stessi e che anche dietro il teatro musicale c’è la volontà, da parte del drammaturgo o del compositore, di dire qualcosa che stia nel proprio tempo.

 Ascesa e caduta della città di Mahagonny (Livorno 2009) Ascesa e caduta della città di Mahagonny (Livorno 2009)

 

B. S.: Che differenza c’è tra il teatro di prosa e l’opera in musica?

 

A. P.: La differenza si coglie nel percorso produttivo che ci sta intorno. La prosa è per sua natura, naturalmente quando è fatta bene, sempre spazio di riflessione; porta con sé una certa cultura della prova, dello studio, della ricerca teatrale; c’è un raccoglimento nella prosa, c’è la voglia di costruire delle verità, la voglia di mettersi in gioco fino in fondo. Nella lirica spesso tutte queste necessità sono nascoste, più difficili da far venir fuori, perché spesso manca la cultura delle prove, si pensa che l’opera è già scritta e basta poco per farla, non ci si pone molte domande, o meglio si pongono musicalmente ma non teatralmente. Ecco: la prosa, quando è fatta bene, è il luogo della domanda, la lirica è un luogo dove spesso si cercano soprattutto risposte, efficaci, veloci e che funzionano. Ma quando si fa diventare la lirica il luogo della domanda le persone si appassionano, si divertono.

 

B. S.: Il teatro, dunque, come luogo della domanda… Lei ha detto in più occasioni che l’attore quando recita deve mettere se stesso in difficoltà? In che senso?

 

A. P.: Sì, il teatro per me resta il luogo delle domande che trovano risposte momentanee, costantemente in divenire. È la domanda il motore del fare, è la domanda nella sua forza politica a rappresentare il movimento verso la ricerca del senso. La risposta sta nel percepire il significato più profondo delle cose. Ed è la domanda che mette in difficoltà, noi, gli attori, l’uomo, e fa cadere ogni certezza o giudizio con la sua forza dirompente, costringe ad attraversare territori sconosciuti e a superare i limiti. In un tempo come questo in cui si cercano solo risposte facili e veloci il teatro sacralizza la domanda e si pone come un rito antico quanto l’uomo. L’attore deve assolutamente mettersi in difficoltà, aiutato dal regista, per dare forma a questo mistero che ci parla della complessità dell’uomo e della sua necessità di esplorare.

 

B. S.: Nella prosa c’è solo il tavolo del regista, nella lirica c’è anche il podio del direttore d’orchestra. Com’è stato sinora il confronto con chi tiene la bacchetta? Ci sono collaborazioni che l’hanno segnata?

 

A. P.: Il compianto Massimo de Bernart guardando una primissima edizione della mia Cavalleria fatta a Carrara mi disse: «Dopo aver guardato la tua regia cambierei delle cose nel mio modo di pensare l’opera». Poi io vidi la sua direzione al Goldoni di Livorno – lui era molto malato – e mi ricordo ancora con commozione la sua interpretazione dell’Intermezzo. Penso questo del rapporto col direttore d’orchestra: in quell’esecuzione c’è stato uno scambio. Io gli regalai, ragazzino, l’incoscienza di quella mia regia e lui mi regalò la direzione di quell’Intermezzo. Il lavoro col direttore deve essere uno scambio di immagini e sensazioni. Penso, allora, quanto ci siamo confrontati con Jonathan Webb per Ascesa e caduta della città di Mahagonny, che lui aveva già fatto alla Deutsche Oper mentre io ero un debuttante; era colpito dal mio lavoro e accettò di recitare lui stesso le didascalie brechtiane dalla buca. Penso allo scambio con Ottavio Dantone con cui facemmo il Giulio Cesare attraverso un lavoro a quattro mani per trovare, insieme, delle nuances sui recitativi. Penso al meraviglioso incontro con Alessandro De Marchi quando lui diresse il mio Elisir d’amore a Bergamo. Devo molto anche a Enrico Onofri con cui abbiamo condiviso il progetto su Le nozze in sogno di Cesti a Innsbruck. Tutti mi hanno insegnato qualcosa.

 Giulio Cesare Händel (Ferrara 2011) Giulio Cesare Händel (Ferrara 2011)

B. S.: Il teatro: un’arte della ragione o della carne?

 

A. P.: Il teatro è ragione che si incarna, il corpo pensa e il pensiero si fa corpo. Non esiste un aut aut, ragione o carne, la parola è sintesi fra queste due dimensioni. Nel teatro i due opposti coincidono armonicamente raggiungendo la bellezza. L’uomo-attore dialoga attraverso la lente d’ingrandimento della regia con queste due dimensioni e funambolicamente cerca un equilibrio nello squilibrio tra razionalità e carne.

 

B. S.: Quali sono i suoi spettacoli dove la visualità assume un ruolo semantico predominante?

 

A. P.: Ne scelgo due: nella lirica Mahagonny, dove lavorai con l’artista visuale Giacomo Verde per creare i fondali video. Non ero mai stato amante di certe tecnologie ma in quell’occasione scoprii la potenza narrativa di immagini che rispondevano a una necessità didattica, brechtiana; invero una bella esperienza circa la dimensione visiva. In prosa non posso che riferirmi, in generale, al lavoro fatto sui testi di Koltés, togliendo la scena e lavorando sul vuoto, sui muri nudi del palcoscenico destrutturato. Una visualità scarnificata che vuole dichiarare «qui c’è l’uomo, lui dà senso allo spazio». Ricordo uno spettacolo su tutti: Processo ebbro.

 

B. S.: Scorrendo la sua teatrografia musicale si nota che lei ha curato diversi titoli barocchi, cosa pensa di questo repertorio? In che modo lo affronta?

 

A. P.: La prima opera barocca fu il Tito Manlio di Vivaldi che feci con Federico Maria Sardelli e successivamente, in altra edizione, con Stefano Montanari. Ho messo in scena il Giulio Cesare di Händel con Ottavio Dantone, il Re pastore di Piccinni con Titta Rigon, Le nozze in sogno con Enrico Onofri. Questo per dire che ho visto modi diversi di affrontare il barocco e ho maturato la convinzione che questo repertorio sia uno straordinario laboratorio che ci mette nelle condizioni di ridiscutere il nostro modo di fare arte. Si tratta infatti di un repertorio nato pensando che il teatro e la musica dovessero dialogare e non contrapporsi come spesso avviene ai giorni nostri. Una strada comune e un obiettivo comune: raccontare gli affetti. L’attitudine di un corpo, il modo di porgere una parola, una tensione emotiva: il barocco ha bisogno di questo, di essere riscritto nel corpo di un attore-cantante attraverso un approccio fortemente interdisciplinare.

 Le nozze in sogno (Innsbrucker Festwochen der Alten Musik, 2016) Ph. Rupert Larl Le nozze in sogno (Innsbrucker Festwochen der Alten Musik, 2016) Ph. Rupert Larl

 

B. S.: Molto si è parlato del suo ultimo Rigoletto al Comunale di Bologna; si tratta della sua quarta declinazione del personaggio verdiano, che parabola è stata?

 

A. P.: Una parabola che mi ha permesso di concretizzare qualcosa che avevo intuito e percepito sin dall’inizio: la crudeltà, l’asprezza, la durezza, la profonda drammaticità di quest’opera. Credo sia stata una parabola che ha portato il racconto a questa sintesi. Lo spettacolo, pur nella sua ricchezza di segni che arriva a tratti al barocchismo, ha una profonda essenzialità e necessità. Sento di aver fatto uno spettacolo in cui questa ricerca sul personaggio ha trovato una sua esposizione compiuta e sento di aver trovato un compromesso tra la tradizione e la contemporaneità. Ritengo di aver creato uno spettacolo davanti al quale ci si può commuovere, arrabbiare, si può ridere, ma non si può rimanere indifferenti.

 Rigoletto (Bologna 2016) Ph. Rocco Casaluci Rigoletto (Bologna 2016) Ph. Rocco Casaluci Rigoletto (Bologna 2016) Ph. Rocco Casaluci

 

B. S.: Il femminile è una dimensione fondamentale in quest’ultima versione che lei ha concepito del capolavoro di Verdi: all’inizio Rigoletto compare in abiti femminei; la messinscena è punteggiata da un gruppo di ragazze-manichini su cui più volte si canalizza la voracità dei cortigiani; Gilda, inoltre, pare la vera protagonista dell’opera…

 

A. P.: Rigoletto è vestito da donna perché per far divertire gli altri umilia se stesso. Il femminile è ‘usato’ per sopravvivere, per guadagnarsi il favore del Duca e, paradossalmente, ha dei punti di contatto col femminile di Gilda, stereotipato, incorporeo, da bambola, da oggetto di devozione che può stare rinchiuso in un armadio. Il femminile non viene mai valorizzato nella sua essenza ma appare come strumento di costrizione, violenza, negazione. Il femminile in Verdi compie se stesso quando diventa sacrificio. Non dimentichiamo che personaggi come Gilda vengono fuori da penne maschili, per questo la libertà è raggiunta solo nell’atto della morte. Nella mia interpretazione lei è un angelo che sceglie di morire come atto d’amore, prima di tutto per se stessa e per la propria condizione di volontà. E trovo che tutta la storia dell’opera rappresenti questo paradigma: una libertà cercata ma giammai raggiunta, e non si tratta solo di una donna, in ballo c’è la libertà di un’intera società, c’è quindi una dimensione fortemente antiborghese, fortemente rivoluzionaria, proprio nel ruolo del femminile. Tutta la storia dell’opera è legata a questa forza eversiva che hanno le donne.

 Rigoletto (Bologna 2016) Ph. Rocco Casaluci

B. S.: Nel suo team c’erano due donne, la costumista Carla Ricotti e la coreografa Isa Traversi; vi siete ritrovati in questa riflessione sull’elemento femminile?

 

A. P.: Direi di sì. Parliamo di due donne profondamente libere: Carla è riuscita a entrare alla perfezione in questo universo di dolore grottesco. L’idea di Gilda come bambola, vestita in abiti da bambina, è certamente un’intuizione forte così come la proposta che lei mi ha fatto di Rigoletto in guêpière, che io ho pienamente imbracciato. Lei aveva visto il mio Rigoletto di Busseto e penso abbia intuito la scarnificazione del femminile in atto. Isa Traversi porta con sé una percezione del corpo sempre come attraversamento, nel suo lavoro i corpi sono attraversati dall’energia e questo è tipico delle donne, perché loro sono biologicamente attraversate dalla vita, sono costrette. Nel lavoro di Isa c’è il declinare un’istruzione che io do in una semplice attitudine di un dito, perché sente quelle parti periferiche che sono invero fondamentali nella percezione del corpo. Certamente il punto di vista di due donne penso abbia dato a questo lavoro peso e poesia.

 Rigoletto (Bologna 2016) Ph. Rocco Casaluci Rigoletto (Bologna 2016) Ph. Rocco Casaluci

 

B. S.: Dei cinque grandi del melodramma italiano chi le piacerebbe mettere in scena adesso?

 

A. P.: Mi piacerebbe tornare a Puccini, perché non ho avuto ancora occasione di approfondirlo e assaporarlo come vorrei. Mi piacerebbe Madama Butterly, sempre per questo ruolo del femminile, ma anche il Trittico. Vorrei confrontarmi con la sua drammaturgia e scontrarmi con la libertà all’interno delle sue partiture. Il lavoro recente con Norma Fantini in Turandot mi ha risvegliato il desiderio di confrontarmi con questa donna bambina tutta pucciniana. Vorrei darne una lettura novecentesca.

 

B. S.: E del repertorio straniero cosa la affascina?

 

A. P.: Quando ho fatto Mahagonny mi sono stupito della ricchezza linguistica del tedesco, una lingua densa cui vorrei riavvicinarmi. Come non sentire il fascino della Mitteleuropa? Della Lulu di Berg, Erwartung di Schönberg, ma anche certo Janáček, mondi apparentemente così lontani dai miei.

 

B. S.: Spesso si dedica all’attività didattica. Una necessità?

 

A. P.: Insegno perché mi piace consegnare qualcosa ai più giovani. Credo sia importante porsi il problema della trasmissione del sapere artistico. Chi ha fatto dei percorsi autentici, che gli appartengono, deve trasmettere il suo sapere. Insegnare mi aiuta anche a fare il punto su di me, sono costretto a imparare e rimettere in gioco, a comprendere il senso del perché faccio questo lavoro. L’insegnamento è un regalo prezioso, un guadagno morale ed emotivo.

 

B. S.: Le capita di tornare sul palcoscenico come attore?

 

A. P.: Una volta l’anno torno con un mio recital, perché fa bene provare quella paura che accompagna chi si deve mettere in gioco.

 

B. S.: Le ho sentito dire che il regista è un abusivo…

 

A. P.: Il regista rischia di essere un abusivo, quando non studia, non si mette nei panni di chi sta sul palcoscenico, e nella lirica è arrivato talmente tardi che viene sempre vissuto un po’ come un abusivo, uno che si intromette in una questione che è soprattutto musicale. Questo è dato dal fatto che siamo arrivati nella storia del teatro solo negli anni ’20 del secolo scorso, per la prosa, e negli anni ’50 per la lirica; quindi è chiaro che si tratta di un mestiere ancora molto giovane.

 

B. S.: A gennaio lei ha ben due appuntamenti con il contemporaneo…

 

A. P.: Esatto. C’è Il viaggio di Roberto all’Opera di Firenze, dal 26 gennaio al 3 febbraio al Teatro Goldoni, una nuova edizione dell’opera contemporanea fatta con Paolo Marzocchi e Guido Barbieri e che ha debuttato un anno fa per la Giornata della memoria a Ravenna; un’esperienza davvero bella, profonda, sono molto contento di ri-allestirla. E poi, il 26 gennaio al Teatro Sperimentale di Ancona, ancora teatro contemporaneo con Le imperdonabili, un progetto incentrato sull’ultima lettera di Etty Hillesum per cui avrò come compagni di viaggio Silvia Colasanti e, ancora, Guido Barbieri (in replica il 27 a Macerata e il 30 Pesaro). Ad aprile un po’ di prosa con la ripresa di Chi cazzo ha iniziato tutto questo di Dejan Dukovski, che ha debuttato alcuni mesi al Festival Quartieri dell’arte di Viterbo. In maggio Emma B. Vedova Giocasta di Savinio al Teatro dei Conciatori a Roma.

 

B. S.: Il teatro italiano, quali orizzonti?

 

A. P.: Il teatro italiano deve uscire dalle proprie anguste vedute e recuperare passione, entusiasmo, la capacità di parlare al pubblico. Il nostro teatro ha bisogno che lo stato lo finanzi riconoscendo la sua funzione civile. C’è bisogno di comunità, di stima reciproca e di rispetto fra chi fa questo lavoro. È necessario sciogliere le catene con la politica, affinché i direttori artistici siano liberi nelle programmazioni. Basta con le mode e il ‘nuovo’ a tutti i costi, e basta con la dicotomia fra tradizione e contemporaneità, la seconda la si costruisce sulla conoscenza della prima, sono due aspetti che devono entrare in dialettica; e poi il teatro, quando è fatto bene, è sempre contemporaneo. Il teatro ha bisogno di direzioni curiose e coraggiose, capaci di dialogare con ciò che è diverso. Nella nostra Italia c’è bisogno, oggi come ieri, di cultura teatrale.