Alessio Pizzech, Chi cazzo ha iniziato tutto questo?

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Alla fine dello spettacolo una signora dalla folta chioma rossa dice all’amica: «Sono soddisfatta! Finalmente ho visto un testo, una regia e degli attori». A qualcuno potrebbe apparire banale come ‘recensione’ ma, invero, non lo è affatto: non è scontato, oggi, imbattersi in una drammaturgia contemporanea che abbia scheletro e muscolatura; non è scontato, oggi, che un regista abbia capacità ermeneutica e consapevolezza dei mezzi di scena; non è scontato, oggi, che il palcoscenico sia calcato da persone di talento, lì per mestiere e non per caso. Questo è quanto si è verificato al Festival di Teatro Internazionale “Quartieri dell’Arte” di Viterbo (29 agosto – 3 novembre) con la messa in scena di Chi cazzo ha iniziato tutto questo?.

Il testo rappresentato è frutto del progetto Hybrid Plays- A Cultural Translation Project: una serie di workshop per drammaturghi senior e junior, di diversa nazionalità, che si incontrano per sviluppare copioni ibridi in cui linguaggi e orizzonti collidono. In questo caso il senior è Dejan Dukovski, macedone, Premio della critica al festival di Venezia 1998 e autore di Who the Fuck Started All This; la junior è la scrittrice norvegese Agate Øksendal Kaupang, che ha tradotto e adattato il testo sviluppando un sistema che ambisce a dinamicità attraverso l’alternanza di quadri e cornice ma che sempre al medesimo abisso giunge: la disperazione (spesso violenta) che attanaglia ogni singolo uomo. Un orizzonte senza fuga messo in scena da Alessio Pizzech, regista che si muove con disinvoltura tra lirica e prosa, qui alle prese con quattro attori dalla genuina attitudine: Daniela Giordano, Caterina Gramaglia, Maximilian Nisi e Nick Russo.

Entrano in scena quando la sala è completamente al buio e l’Ave Verum Corpus di Mozart condisce l’aria con religiosa tensione. Una lenta assolvenza rivela gli attori disposti sul fondo, in fila l’uno accanto all’altro, con due valigie agli estremi a serrare il quartetto. Le prime battute pronunciate da Miss Dukovski (Giordano) fungono da sinopia, ci mostrano i neri contorni del disegno che diverrà affresco attraverso la successione delle scene: «Perché tutti i rametti del bosco diventano serpenti. […] Tutte le ragazze norvegesi diventano puttane, e tutti gli stranieri, loro diventano stupratori». Un determinismo spietato che trova albergo tra quattro cassette di legno grezzo e quattro sedie anni ’50 in formica rossa, raccattate nella dispensa del festival. Miss Dukovski e Agate (Gramaglia) sono i due personaggi che si trovano al di là dei quadri scenici, in una cornice che consente di pronunciarsi sul “reale” e sul testo stesso che sta andando in scena. Così, dopo il monologo di Agate, che restituisce il profilo di una ragazza sfatta alla fine di un capodanno, ha inizio la prima scena, o quadro, o cerchio tra L’esattore (Russo) e Bezaniya (Gramaglia). Lei, tenera, conserva una coppia di fragole in una busta di plastica bianca da cui mai si separa e subito si emoziona alla vista di una stella cadente; lui, disprezza astri e desideri e quando ormai le parole a disposizione stanno per esaurirsi spezza il corpo di lei con una progressione di cieca violenza.

Secondo cerchio. Un circo “morto”, così almeno recita la didascalia. Mentre un clown (Nisi) sproloquia con sufficiente volgarità una ballerina (Giordano) sistema la sua mise: sfoderato un nastrino bianco si cinge un piede a mo’ di punta, gesto semplice ma incantevole per la delicatezza che emana. Due strisce di tulle bianco sui fianchi e la ballerina è pronta, una scarpa e una “punta”, in perenne sbilanciamento. Ricorda un po’ Manon nell’Histoire di Prévost messa in coreografia da Kenneth MacMillan: lì la danseuse sale e scende dalle punte dando vita a un efficace gioco di seduzione; qui, invece, la superba tentazione diventa scoperto e fragile squilibrio. Quando il cerchio grottesco sta per chiudersi, dopo uno scambio che ha sancito l’incomunicabilità tra i due, la ballerina dice di voler “volare” e tende le mani verso il cielo; sopraggiunge il clown alle sue spalle, la uccide e poi muore lui stesso, chiudendosi il volto dentro la busta di plastica che non ha più posto per le fragole.

Terzo cerchio. In un tunnel siffatto non poteva mancare la scena di pedofilia, ecco quindi il Professore “Fallos” (Nisi) e uno Studente in scambio (Russo). La parabola è oltremodo discendente: il giovane ha vinto una borsa di studio, è galvanizzato e curioso di conoscere il noto docente; ma al posto di un serioso luminare si troverà davanti una «puttana sveglia e complicata», annoiata dalla vita. L’interazione diviene sempre più aggressiva, fino a che non si inverano sulla scena le tre righe di didascalia che chiudono il quadro: Lo afferra per i capelli - Lo stupra - Un urlo. Gridano anche le due attrici ai bordi della scena, durante la pièce infatti il quartetto è sempre com-presente, non ci sono quinte di protezione, solo una scena nuda in cui sostare silenti quando non si ha la responsabilità della battuta. Si ode nuovamente il finale dell’Ave Verum Corpus e si spezza la drammaturgia passando ancora alla cornice. Agate e Miss Dukovski si scambiano impressioni sul testo: «La prima volta che ho letto questa pièce teatrale non ho notato che qualcuno è stato ucciso o stuprato alla fine di ogni scena. Non ci ho fatto caso, mi è semplicemente scivolato addosso come… le collette in tv e le edizioni speciali del telegiornale». Alessandro Dal Lago parlerebbe di indifferenza verso la crudeltà.

E poi uno sguardo, un respiro e Agate diventa Ikonija, Miss Dukovski Konstantine. Quarto cerchio. Le due donne ricordano, dopo 10 anni, l’amore che le ha unite. Si fronteggiano e corrono ripetutamente l’una verso l’altra, e quando la passione sembra destinata a riprendere il suo corso come una ghigliottina arriva la confessione di Ikonija: «Sono felicemente innamorata. Lo amo davvero tanto». Comincia allora un monologo che è uno squarcio nel buio, una finestra nell’intimità ferita di una donna affamata d’affetto. È forse il momento più toccante dello spettacolo. Il Lamento della ninfa di Monteverdi suggella la chiusa e funge da sutura con il Quinto cerchio, un triangolo che ha come protagonisti Lulu (Gramaglia), un Uomo mascherato (Nisi) e un Terzo uomo (Russo). Lei è una puttana che sogna una vita punteggiata da piccoli gesti affettuosi (come svegliarsi accanto all’amato e preparargli il caffè a colazione); lui, la maschera, non gli ha mai promesso nulla e, dopo averle mostrato il suo volto, prova a lasciarle una mancia e se ne va; rimane il terzo uomo, voyeur per tutta la scena e adesso pronto a spogliare Lulu, desolata sul fondale.

Uno stralcio dello Stabat Mater di Scarlatti prepara il passaggio al piano cornice, con Agate e Miss Dukovski che parlano di un ragazzo dipendente a tal punto dai video giochi da urinare sui pannolini per non alzarsi dal divano. Seguono gli ultimi due cerchi: il sesto, con un diavolo arabo e talebano (Russo) e un angelo alla ricerca delle sue scarpe (Giordano), chiuso da un colpo di pistola; il settimo, con un Demone in gabbia (Nisi, avvolto da un bel taglio di luce calda radente) e soccorso da un monaco curioso (Gramaglia) che lo raccoglie tra le sue braccia come un Cristo in pietà sulle note della Matthäuspassion di Bach.

Una dissolvenza e poi un cambio di luce, adesso fredda, da dietro. Il quartetto riprende posizione sul fondo perché il cerchio si chiuda e tutto finisca come è cominciato. La Giordano ci consegna gli ultimi versi di Dukovski, grido poetico sull’umana esistenza:

 

Eravamo dei
Siamo scesi sulla terra
Per interpretare gli uomini
Per interpretare i morti
Ci siamo persi nel gioco
Abbiamo dimenticato il tempo
Ci siamo persi
Siamo diventati qualcos’altro
Tu non ci sei
Qualcosa è morto
Ma abbiamo lasciato gli angeli
In un posto lassù
Per guardarci e per curarci
Per ricordarci
Per dire, basta
Basta giochi
Fa male
Portami indietro
In un posto lassù
Per giocare agli dei
Per giocare all’amore
Per dimenticare
Che ci siamo persi.

 

 

CHICAZZOHAINIZIATOTUTTOQUESTO

Un testo ibrido di Dejan Dukovski e Agate Øksendal Kaupang

Regia: Alessio Pizzech

con: Daniela Giordano, Caterina Gramaglia, Maximilian Nisi, Nick Russo

Assistente alla regia: Antonio Ligas

Luci: Richard Gargiulo