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È difficile descrivere il ruolo di Violetta utilizzando una sola parola. Le figure come la sua sono identificate attraverso il neologismo Ê»YouTuberʼ, definizione che è però percepita con un’accezione negativa, sia dai creativi che dal senso comune (Andò, Marinelli 2016, p. 74). È comprensibile che Ê»YouTuberʼ sia un termine insoddisfacente, poiché indica essere in funzione esclusiva di una piattaforma dall’identità ambigua e fluttuante, in costante cambiamento, non ben definibile se non come contenitore di contenuti che segue le pure e dure strategie di mercato, senza dare una precisa immagine di sé, né in termini di valori né in termini di estetica. Se all’interno della piattaforma si escludono i contenuti costruiti ad hoc e quelli delle celebrità affermate tramite altri media (caso che meriterebbe considerazioni a parte), si avverte, infatti, una generale volontà di affermare la propria professionalità altrove. La piattaforma è vista come un punto di appoggio, un luogo dove crescere e non un punto di arrivo. YouTube nasce come community per la condivisione di video amatoriali, ma i suoi contenuti, sempre più collegati alle logiche del profitto, ben presto hanno virato al professionismo, così che il profilo attuale della piattaforma vede un sovrapporsi tra User Genered Content (UGC) e Professional Genered Content (PGC) (Burgess 2012, p. 53). La naturale spontaneità degli UGC di qualsiasi piattaforma, unitariamente alla grande utenza e al rapporto di fiducia instaurato tra i creatori di contenuti e il proprio pubblico, hanno inevitabilmente attirato l'attenzione di aziende di ogni tipo, che hanno individuato la potenzialità commerciale dei video. Così anche YouTube si è arricchito sempre più di ads, brandend contents, product placement, infuencers e link sponsorizzati, trasformandosi apparentemente in un immane Carosello. Così come quest’ultimo aveva lo scopo di «annacquare la brutalità del messaggio commerciale» (Boariu 2012, p. 124), si può dire che in YouTube le aziende abbiano trovato un modo per rendere più Ê»digeribiliʼ i messaggi pubblicitari, se non addirittura per farli passare sotto mentite spoglie. La situazione è comunque complessa: così come nella vita quotidiana è quasi impossibile non citare dei marchi, anche sul Web si fa spesso pubblicità involontariamente, e questo le aziende lo sanno bene. In tal senso, anche possedere un determinato oggetto o condividere certe attività significa pubblicizzare e alimentare l’immaginario legato ad un brand (Andò, Marinelli 2016, p. 135), il che rende quasi impossibile, se non è segnalato, distinguere un contenuto sponsorizzato da uno che non lo è. Non si può ignorare il grande numero di brand citati sul Web, ma allo stesso tempo non è chiaro il modo in cui un brand abbia a che fare con i contenuti, se si tratti di un’effettiva sponsorizzazione o di una citazione, e questa ambiguità rende difficili le definizioni. A differenza di altre produzioni audiovisive professionali, la maggior parte dei contenuti di YouTube è a carico di singoli o di piccoli gruppi, che si occupano in prima persona di tutti gli aspetti della produzione, del rapporto con il pubblico e con le aziende, e della presentazione della propria immagine (Andò, Marinelli 2016, p. 17). Proprio grazie alle sponsorizzazioni i creators possono ottenere dei guadagni che, soprattutto inizialmente, tendono ad investire per migliorare i contenuti a livello tecnico. In alcuni casi si rivolgono a delle agenzie che, in modo più o meno invasivo, fanno da tramite con gli sponsor, suggerendo strategie comunicative.

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