Abécédaire Varda*

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Da quando Agnès Varda, regista francese di origini belghe classe 1928, ci ha lasciati nel 2019 tante proiezioni fisiche o in streaming e la pubblicazione in cofanetto di tutti i suoi film hanno continuato a rievocarne la lezione attraverso la sua produzione quasi irriducibile per ricchezza e varietà. Per questo fra immagini e parole, in omaggio anche alla sua idea di cinescrittura, si è scelto di presentarne idee, opere ed eredità attraverso un ‘alfabeto vardiano’ che propone un indice per un orientamento ragionato.

Since Agnès Varda (the French film director born in Belgium on 1928) left us in 2019, many physical or online screenings or promotions through DVD boxes of all her films have continued to evoke her lessons through her irreducible production for its richness and variety. For this reason, between images and words in honor to her concept of cine-writing, we have chosen to present her ideas, works, and legacies through an alphabet about them in order to propose a reasoned introduction.

 

 

 

Screen da Varda par Agnès (Varda by Agnès, 2019)

 

Arti

Agnès Varda non approda al cinema con un canonico percorso di formazione ed è forse questo che ha reso quasi naturale la sua continua sperimentazione autoriale, contrassegnata dall’appropriazione spontanea di ogni tipo di linguaggio fra cinema, televisione, letteratura, arti figurative e plastiche.

Nata nel sud della Francia, da madre francese e padre greco, dopo i primi studi letterari a Parigi, si dedica alla storia dell’arte per diventare curatrice museale. È la fotografia, però, l’incontro più incisivo grazie alla frequentazione di una scuola che la porterà a lavorare per molti anni come fotografa, soprattutto di scena.

Di quest’humus resta la propensione alla commistione artistica di generi mediali, modalità espressive e riferimenti culturali in ogni sua attività e produzione visuale. Il lavoro di Agnès Varda con le immagini prosegue infatti quasi in ogni direzione.

Nei suoi film si ritrovano fotografia, animazione, vignette, cartoline, elementi figurativi, opere scultoree e architettoniche. Sin dal 1967, poi, lavora per la televisione con il corto Les engants du Musée (per la serie Chroniques de France), cui segue il successivo film televisivo Nausicaa del 1970 sugli esiliati in Francia dalla Grecia dei Colonnelli (mai trasmesso in realtà e andato distrutto). Anche questo mezzo diventa per lei motivo di sperimentazione: in Une minute pour une image (1983), episodio per una serie, mostra per sessanta secondi un’unica immagine. Con il passaggio al digitale, si dedica a un’intera miniserie televisiva nel 2011, Agnès de ci de là Varda.

Con questa propensione si dedica anche all’arte installativa ed espositiva, in cui recupera e traduce materialmente gli elementi cardine della sua poetica.

 

Barriere

Lo sconfinamento vardiano non si realizza soltanto nell’ibridazione delle sue opere. Fin dall’inizio rompe con gli standard e le tradizioni artistiche del suo tempo. Documentario e finzione soprattutto sono ripresentati da Agnès Varda come due facce della stessa realtà con racconti insieme simbolici e realistici in entrambe le modalità. Questa tensione è evidente sin dal suo primo film, La pointe Courte (1954), nato dopo un sopralluogo fotografico nell’omonima cittadina francese di pescatori per un amico originario del luogo ma in fin di vita. Nel film intreccia riprese dal forte sapore realista alle vicende, in parallelo, di due amanti che si ricongiungono lì prima del matrimonio.

Margini e sconfinamenti, risemantizzati, diventano il tratto specifico della sua produzione, specialmente quando si tratta di separazioni fisiche e sociali. Tale modalità è evidente in Black Panthers, corto del 1968, che riprende le manifestazioni delle pantere nere contro l’odio razzista e l’arresto del loro leader Huey Newton. Qui, Agnès Varda si concentra anche sulle forme d’espressione della cultura artistica e performativa. Lo stesso vale per il film Mur Murs (Mural Murals, 1981) in cui racconta la separazione di alcune comunità a Los Angeles attraverso dei muri, dando voce e immagine alle loro parole, alle creazioni figurative o musicali realizzate lì. Questi film sono marcati da una forte spinta politica, vissuta in direzione di un senso pieno di collettività. Le tre parole chiave per lei, del resto, sono da sempre «ispirazione, creazione e condivisione». Con questo intento partecipa nel 1967 alla realizzazione del film Loin du Vietnam (Far from Vietnam, 1967) con Joris Ivens, William Klein e altri registi contro la guerra nel paese.

All’idea di co-produzione sul fronte cinematografico, per superare i limiti del sistema contemporaneo, contribuisce fondando sin dagli anni Cinquanta una cooperativa che diventerà poi stabilmente la casa di produzione Ciné-Tamaris. La libertà conquistata non le eviterà alcuni fallimenti finanziari, ma le difficoltà produttive si trasformano spesso in un pungolo creativo. La regista affermava, anzi, che il messaggio di un film può essere veicolato in maniera più coesa se al lavoro vi è un gruppo ristretto di fiducia o un artista che concentra su di sé diverse competenze. Dei suoi film infatti è stata spesso produttrice, sceneggiatrice, regista e direttrice della fotografia.

Tematicamente, uno dei motivi ispiratori più ricorrenti è il senso del limite nella vita. Si tratta quasi sempre di immagini e momenti di transizione per i protagonisti dei suoi film ma anche per il pubblico. Basta pensare all’attesa degli esiti di un esame su una possibile malattia in Cléo de 5 à 7 (Cléo From 5 to 7, 1961) o al racconto dell’amore di una donna adulta verso un adolescente in Le petit amour (Kung Fu Master, 1988). Non è un caso, forse, che ricorrano spesso la figura del medium, come in Le lion volatil (The Vanishing Lion, 2003) dove la statua di un leone nei pressi delle catacombe di un quartiere parigino si anima.

Screen tratto da La pointe Courte (1954)

 

Cinema

Agnès Varda è stata spesso associata al gruppo del Left Bank Cinema con Chris Marker e Alain Resnais, ma per la sua sperimentazione permanente è stata in grado di anticipare alcuni tratti della Nouvelle Vague proseguendo poi fino all’età del digitale.

È stata la prima regista del paese a ricevere la Palme d’honneur al Festival di Cannes (2015). Tra i più importanti premi ottiene anche il leone d’oro a Venezia nel 1985 per Sans toit ni loi (Vagabond); l’Oscar alla carriera da parte dell’Academy nel 2018 (con la candidatura nello stesso anno come miglior documentario per Visages Villages); nel 2013, il premio della FIAF (International Federation of Film Archives) per il lavoro svolto a favore della salvaguardia dei materiali filmici.

La consapevolezza storica del riuso del patrimonio cinematografico è per Agnès Varda un processo particolarmente dinamico. Diventa presupposto estetico e narrativo lavorando sulla percezione stilistica. Con Méfiez-vous des lunettes noires (Les fiancés du pont MacDonald, corto, 1961) insieme a Godard e Anna Karina rievoca una comica da cinema muto. L’estratto compare poi in Cléo de 5 à 7 (Clèo from 5 to 7, 1961).

La regista mette in quadro protagonisti e dinamiche della storia del cinema ‒ intesa via via come sistema industriale, politico e immaginario. In Lions Love, film del 1969, mostra un fare cinema ad Hollywood come atto inventivo, alternativo e stravagante attraverso alcuni attori della Warhol Factory, interpreti del musical Hair. In appena centocinquanta secondi, invece, crea nel 1986 un tributo alla cinemateca francese con T’as de beaux escaliers, tu sais (You’ve Got Beautiful Stairs, You Know). Di più ampio respiro è Les cent une nuits de Simon Cinéma (One Hundred and One Nights, 1995), film commedia con cui celebra i cent’anni della storia cinematografica attraverso il vecchio Simon Cinéma, che racconta a uno studente di cinema visioni e suoni da film francesi, tedeschi italiani e giapponesi. Gli fanno visita nel frattempo registi e attori noti.

Il cinema per Varda, dunque, può e deve sempre essere un atto di reinvenzione soprattutto quando è il centro nevralgico della propria azione. Basta rivedere per questo L’Univers de Jacques Demy (The World of Jacques Demy, 1995) in cui ripercorre l’avvicinamento alla macchina del cinema del marito Jacques Demy, mescolando diversi generi di visione, momenti storici e performativi. È un modo di comunicare il cinema che trova esplicito spazio in prodotti come Der Viennale ’04 – Trailer (Vienna International Film Festival 2004 – Trailer, corto, 2004) in cui in un minuto trasmette, attraverso immagini e suoni, l’idea di un cinema-mondo fonte di attrazione, movimento e racconto del reale. Nel 2008, invece, con Le Petite Histoire de Gwen to Bretonne (The Little Story of Gwen From French Brittany, 2008) racconta la storia dell’amica Gwen Deglise, trasferitasi da Parigi a Los Angeles, dove diventa programmatrice della cineteca Americana.

 Screen tratto dal film Cléo de 5 à 7 (Cléo From 5 to 7, 1961)

Donne

Pur essendo riconosciuta come uno dei punti di riferimento per la cinematografia femminista, Agnès Varda racconta, celebra e interviene a favore delle donne soprattutto attraverso le sue produzioni artistiche. I procedimenti tecnici sono lo strumento principe con cui attraverso il lavoro sui corpi e le percezioni dei personaggi femminili produce un effetto di de-oggettificazione, moltiplicazione e riappropriazione del racconto dando loro voce e immagine.

Le vicende narrative si intrecciano spesso con la storia dell’artista e il contesto contemporaneo. Si tratta di occasioni e spazi per Varda, anche attraverso la sua esperienza, per interrogarsi in modo plurale sulla figura della donna e le sue rappresentazioni. A distanza di anni, per esempio, Varda parlerà del suo aborto illegale, tema presente in alcune opere insieme alla maternità intesa come atto umano, personale e libero: L’opéra-mouffe (Diary of a pregnant Woman, corto, 1958); Rèponse de gemmes: Notre corps, notre sexe (Women Reply: Our Bodies, Our Sex, 1975), film nato dopo la firma nel 1971 de Le manifeste des 343 contro il divieto di aborto.

Le conquiste storiche, le lotte e la politica dei corpi lasciano spazio a veri e propri inni poetici. L’une chante, l’autre pass (One Sings, the Other Doesn’t, 1977), in tal senso, celebra l’amicizia e la gioia femminile nella storia di Pauline e Suzanne, due donne che si ritrovano a distanza di anni senza mai essersi perse in realtà.

I personaggi femminili di Agnès Varda sono spesso fragili e forti al tempo stesso. La loro personalità emerge spesso dal confronto con il contesto. In questa ottica le figure più emblematiche sono la madre single neodivorziata che vive nell’alienante Los Angeles in Documenteur (Documenteur: An Emotion Picture, 1981) e la protagonista senza fissa dimora di San toit nil loi (Vagabond, 1985).

Nell’ultima parte della sua produzione la coralità si riflette nel rapporto tra macchina da presa, regista e soggetto filmato. Questi aspetti sono fulcro dei film Jane B., par Agnes V. (Jane B. by Agnes V., 1988) e Quelques veuves de Noirmoutier (Some Widoes of Noirmoutier, 2006) sulle vedove francesi dell’omonima isola, opera che diventerà poi un’installazione nel 2004-2005.

 

Episodi

L’uso della serialità da parte di Agnès Varda, attraverso il carattere episodico delle storie, la suddivisione in capitoli, il tratto ripetuto e variato di alcune riprese o del montaggio (anche delle opere installative) e la realizzazione di alcuni prodotti seriali, meriterebbe un approfondimento più ampio.

Qui possiamo ricordare che il primo film, La pointe courte del 1954, è suddiviso in episodi paralleli con la storia di due giovani da un lato e la realtà dell’omonimo centro di pescatori, che manifestano il farsi del film come insieme di possibilità. L’alternanza di capitoli invece di Cléo de 5 à 7 (Clèo from 5 to 7, 1961), che suddivide la storia temporalmente, deriva dalla pratica letteraria di Faulkner per segnalare l’andatura stessa della vita come insieme di frammenti connessi fra loro. Tale pratica serve ad Agnès Varda anche per esplicitare in modo corale diverse prospettive come in Sans toi ne loi (Vagabond, 1965) sugli incontri di una ragazza nomade fino alla sua morte.

Nel 1999 aveva immaginato il film Les Glaneurs et la Glaneuse (The Glaneurs and I, 2000) come un progetto seriale televisivo, che realizzerà invece nel 2011 con Agnès de ci de là Varda, serie tv in cui rielabora i propri appunti filmici di viaggio raccontando persone, luoghi e artisti incontrati.

 

Fotografia

Il rapporto fra cinema e fotografia in Varda non può che essere ricordato come una relazione, un confronto continuo. Per mezzo della fotografia e del cinema l’artista esplora composizioni, forme e significati che vanno oltre la contrapposizione tra still e moving images. Il cinema fotografico o la fotografia filmica diventano anzi strumenti esplorativi unici, anche a livello materiale, per raccontare qualcosa in più oltre le loro superfici.

In Salut les cubains! (corto, 1964) lavora al montaggio animando le fotografie realizzate lì durante un viaggio. Daguerrèptypes (1975) crea un parallelismo tra la tecnica ritrattistica di fine Ottocento e i types, i tipi umani, di Rue Daguerre (la via dove Agnés Varda vive per quasi tutta la sua vita). Tra le opere più sperimentali vi è Ulysse, corto realizzato da immagini fotografiche che ritraggono un giovane artista in spiaggia nudo, accanto a elementi di natura morta, montate con un tempo di visualizzazione di dieci, quindici secondi (1983); o ancora Une minute pour une image, progetto seriale destinato alla televisione, che prevede per ogni episodio il commento di un’immagine per la durata standard di un minuto.

Le fotografie diventano spesso anche parte integrante delle storie narrate, autobiografiche e non: è il caso di Ydessa, les ours et etc. (Ydessa, the Bears and etc., corto, 2004), costruito a partire da delle fotografie riscoperte; di Cinévardaphoto (2004), composto da tre brevi documentari fotografici per i suoi quarant’anni di produzione filmica; e di Les dites cariatides bis (2005, corto), in cui racconta un elemento classico dell’architettura attraverso il montaggio dei suoi scatti realizzando un photoplay.

 

Gioie

Pur essendo esposti alle tensioni della vita, i personaggi di Agnés Varda restano dei vettori di gioia per la regista. L’esempio più emblematico forse è Le Bonheur (Happiness, 1965) in cui Francois sposato con Therese le rivela il suo amore per Emilie con cui riuscirà a essere felice mentre la prima muore suicida.

Montaggio di screen tratti da Le Bonheur (Happiness, 1965), L’Univers de Jacques Demy (The World of Jacques Demy, 1995) e Les Glaneurs et la Glaneuse (The Glaneurs and I, 2000)

 

Hair

«I hated myself totally white. So now I cheat. It’s my white hair, and I put color there. My grandson says I’m punk».

Screen tratto da Visages Villages (Faces Places, 2017)

Riconosciuto da Gucci come uno dei modi più creativi per affermare la propria ‘radicalità’ estetica, la scelta della regista di portare i capelli per molti anni in una versione bicolore e stravagante, ha rappresentato un modo per catturare l’attenzione sulla ridefinizione dell’identità degli altri spesso considerata per motivi simili marginale o di importanza minore per la sua estraneità alle abitudini dei più.

Al contrario, l’artista ne ha fatto un motivo centrale che ha accompagnato il racconto artistico della sua vita, come in due self-portraits di Les Glaneurs et la Glaneuse (2000). Nel primo l’inquadratura sui suoi capelli è abbinata alla visione delle rughe sulle sue mani mentre declama, rifiutandoli, alcuni versi de Il Cid di Corneille sulla vecchiaia: «No, no, it’s not “O rage,” not “O despair,” not “O my enemy old age,” it might even be “my friend old age,” but even so, there’s my hair, and there are my hands, which tell me that the end is near.». Nel secondo, invece il proprio autoritratto in forma di cartolina è affiancato comparativamente ad un ritratto della moglie di Rembrandt in cui inquadra gli stessi particolari, ricordando a voce che questo ha rappresentato il suo modo di filmare. Come ha notato Ince, questo passaggio segna il suo consapevole atteggiamento di riappropriazione fenomenologica della rappresentazione filmica inquadrando in prima persona ciò che ci esprime il nostro essere come soggetti che guardano e sono guardati.

 

Installazioni

Il rapporto intermediale di Agnès Varda con gli spazi espositivi – al di là della loro tematizzazione nei film insieme a varie altre forme d’arte ‒ può risalire al 1967 quando realizza il corto televisivo Les engants du Musée su un laboratorio per bambini tra pittura, scultura e manipolazione dei materiali, in cui vengono animati i loro stessi lavori.

Le azioni espositive della regista si concentrano però nel nuovo millennio e si basano soprattutto sull’uso di materiali filmici, fotografici e di oggetti all’interno di spazi per generare delle interazioni con una ricerca affine alle questioni sociali, culturali e (auto)biografiche della produzione filmica.

Nel 2003 inaugura alla Biennale di Venezia la sua attività con Patatoupia, che richiama su più schermi il riutilizzo di una materia organica povera, costruendo un parallelismo con la propria attività e le proprie visioni (come nel film Les Glaneurs et la Glaneuse, The Glaneurs and I del 2000).

Il progetto viene poi riproposto nel 2005 con 3-3-15=3 Installations, il cui titolo si riferisce al numero di schermi usati, insieme a due nuovi lavori: The Widows of Noirmoutier, in cui rielabora una precedente opera filmica con quattordici mini schermi a cornice intorno a uno più grande, che consentivano di vedere o ascoltare singolarmente tramite delle cuffie le storie di alcuni abitanti dell’omonima isola, e Triptiche of Noirmoutier, in cui gli schermi disposti a trittico ritraevano un interno familiare.

I tre lavori saranno poi rielaborati nella mostra L’île et elle (The Island and She) del 2006: un percorso di installazioni in omaggio all’isola di Nourmoutier in cui Agnès Varda trascorreva le sue vacanze. Per l’occasione costruisce uno spazio in cui immergersi, delimitato all’accesso come la stessa isola e composto da una serie di installazioni realizzate con postcards, pellicole, ritratti, foto, colori e suoni ripresi.

Nel 2007 Agnès Varda realizza Les justes (The Righteous), opera installativa con cui omaggia i francesi che aiutarono gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale con cento ritratti sul pavimento e la proiezione a colori su quattro schermi di un albero e alcune immagini d’archivio.

Le Chambre occupée (The Occupied Room, 2012) invece è un’opera che compare all’interno della serie Agnès de ci de là Varda (2011), allestita in uno stabile occupato per accendere i riflettori sul bisogno di (cinema come) una casa. Gli elementi essenziali per una vita dignitosa erano rappresentati da un frigo, un letto e un camino all’interno dei quali la regista monta degli schermi.

Nel 2013 la stessa Agnès Varda lavora alla realizzazione al Los Angeles County Museum of Art di una mostra retrospettiva a lei dedicata, Agnès Varda in Californialand, che raccoglie i materiali realizzati durante i suoi viaggi nell’area.

 

Luoghi

Negli anni Cinquanta Agnès Varda inizia a girare i suoi film in ambienti esterni, mentre è ancora forte il sistema di riprese in studio. Durante i suoi viaggi, con cui attraversa molti continenti, riprende la storia di diverse civiltà attraverso le immagini: con Salut les cubains (corto, 1963) cattura il paese cubano nel post-rivoluzione di Fidel Castro mentre l’Iran è al centro di Plaisir d’amour en Iran (The Pleasure of Love in Iran, corto, 1976).

Ma è la Francia il centro nevralgico di molte delle sue opere. Tra le prime produzioni ci sono i film commissionati dal French Tourist Office come O siason, o chateaux (corto, 1958), realizzato fra le architetture e i giardini dei castelli della Loira; La cocotte d’azur (1958), in cui la riviera francese è rappresentata dai variopinti costumi delle persone, e Du cote de la cote (Along the Coast, corto, 1958) molto apprezzato da Bazin.

Ed è proprio negli stralci documentari, tra le strade parigine, inseriti anche in momenti di finzione che il senso dei luoghi si intreccia per Agnès Varda ai tipi umani. I film ambientati a Parigi nascono spesso anche per l’impossibilità di muoversi, a causa di motivi personali (per esempio durante la sua gravidanza) o contingenze produttive. Le riprese dei tanti volti incontrati tra i quartieri e le vie della capitale francese diventano spesso il coro e l’arena al centro delle costruzioni drammaturgiche, soprattutto in Cléo de 5 à 7 (Cléo From 5 to 7, 1961) e Daguerrèotypes (1975).

Lo stesso grado di personificazione coinvolge anche gli elementi architettonici, che costruiscono lo spazio attraverso la rielaborazione dello sguardo compositivo della regista: dal monografico Les dites cariatides (The So-Called Caryatids, corto, 1984) fino a Le lion volatil (The vanishinf lion, 2003), in cui la statua si anima esplicitamente.

Tra aree urbane e rurali, però, Varda svolge un dialogo intenso fra umano e non, storico e antropologico, crudo e lirico cogliendo al tempo stesso divergenze ed elementi di comunione nel racconto. Ne sono esempi il racconto degli spigolatori e delle spigolatrici in città così come nella campagna (e nell’arte) di Les Glaneurs et la Glaneuse (The Glaneurs and I, 2000) o il viaggio di una giovane donna in Les 3 Boutons (Three Buttons, corto, 2015) dalla prima verso la seconda.

 

Musica

Agnès Varda è stata una delle prime artiste a usare il sonoro in presa diretta negli anni Cinquanta, grazie all’adozione del registratore portatile Nagra. Attraverso questo strumento affina la ricerca e il riuso di un ritmo musicale scandito dagli stessi elementi della realtà.

Molti dei suoi film però intessono anche un ricco repertorio di riferimenti a musica classica, jazz o performance culturali dei paesi visitati. Le produzioni originali e l’alternanza tra sonoro, musica e attimi di brusca interruzione o silenzio invece accompagnano spesso l’incedere dei personaggi così come delle persone riprese o la percezione di una dimensione irreale o naturalistica.

In molte opere, e più sottilmente in L’opéra-mouffe (interamente musicato con i lavori di Georges Delerue, 1958), si avvertono un uso e una movenza dei gesti, dei corpi umani e non, che ricordano da vicino quasi un’orchestrazione e una messa in scena da teatro musicale.

La presenza del musical invece è molto legata al marito Jacque Demy che si era dedicato al genere. Agnès Varda gira, per esempio, Les Demoiselles Ont eu 25 Ans di Demy in occasione delle celebrazioni dei venticinque anni del suo musical Les Demoiselles de Rochefortr, ma il momento da musical più noto si ritrova in una scena del film Cléo de 5 à 7 (Cléo From 5 to 7, 1961).

 

Natura

Nelle opere di Agnès Varda ricorrono molto gli elementi naturali dell’aria, della terra, e soprattutto dell’acqua. Ogni ambiente, dettaglio materiale o essere vivente diventa motivo espressivo anche se non vitale, come quando ritrae elementi aridi, crudi o morti.

La loro ripresa è per la regista stimolo all’immaginazione. L’approccio poggia sulle idee di Gaston Bachelard per cui tutto può essere messo a nudo, esprimere una forma di interiorità emotiva con cui entrano in relazione l’uomo e gli elementi artificiali. Non a caso in molti passaggi l’artista genera forme di parallelismo anche tra corpi organici e inorganici mentre non nasconde, ma anzi cerca di far sentire, la natura della tecnica usata.

 

Oralità

Tanti dei film di Agnès Varda sono accompagnati dalla sua voce fuori campo che instaura un dialogo profondo fra materia e pubblico. La parola, unita alla camera, è lo strumento principe di confronto con i soggetti sotto forma di continue domande. Su questo meccanismo costruisce per intero il film Daguerrèotypes nel 1975.

L’affabulazione vardiana si serve però anche della poesia, secondo opzioni e modi diversi: dai poemi del Seicento ai versi del poeta Baudelaire in Les dites cariatides (The So-Colled Caryatids,1984) fino alle poesie recitate dagli stessi protagonisti di Elsa la rose (corto, 1966).

Il procedimento dialettico investe anche i protagonisti dei suoi film che si fanno portatori, in prima persona, del loro racconto o di intensi confronti dialettici con altri personaggi.

 

Policromie

Sin dai suoi primi film Varda sperimenta, passando dall’uno all’altro, il contrasto tra l’uso del colore per manifestare un tratto ir-reale e il bianco e nero per momenti di verosimiglianza come in Cléo de 5 à 7 (Cléo From 5 to 7, 1961), L’Univers de Jacques Demy (The World of Jacques Demy, 1995) e Le Bonheur (Happiness, 1965), in cui adottava anche delle transizioni colorate al posto delle classiche in bianco, in nero o trasparenti.

L’uso cromatico legato invece agli elementi iconografici e artistici disseminati nei suoi film è esplicitato al massimo in Oncle Yanco (Uncle Yanco, corto, 1967), film in cui riprende l’incontro con uno zio di origini greche, pittore, ritrovato in America.

Screen da Oncle Yanco (Uncle Yanco, corto, 1967)

 

Quello che resta

Quella manifestata da Agnès Varda è di certo un’attenzione ecologica che dalla materia, filmica e non, procede verso l’ambiente e le relazioni anche per mezzo dell’arte. Non a caso al centro della sua attività poetica vi sono spesso materiali, soggetti o pratiche scartate o considerate marginali.

Varda però punta l’attenzione sul bisogno di una memoria filmica capace di incidere sulla percezione delle immagini, spesso oggetto di attenzioni troppo repentine e troppo labili. La regista rivela così grande empatia, amore e uno sguardo straordinario che si estende anche verso le cose più pragmatiche, soggette a un riciclo creativo tra film e opere d’installazione. Riutilizza, per esempio, i materiali filmici scartati in Les Créatures (The Creatures, 1966) per realizzare Ma Cabane de l’èchec (My Shack of Failure), che diventa poi l’installazione Le Cabane du Cinema (The Shack of Cinema, noto anche come My House of Cinema per la struttura a forma di casa interamente ricoperta dalle pellicole del film).

Il corto circuito tra realtà fisica, filmica e artistica è esplicitata nell’installazione Patatoupia (2003), dove osserva in un trittico di schermi ciò che resta nel tempo di una materia organica attraverso una costruzione inorganica, e nel film Les Glaneurs et la Glaneuse (The Glaneurs and I, 2000) dove la regista riprende spigolatori e spigolatrici che raccolgono per vivere quello che rimane in campi o strade, come molti artisti.

 

Ritratti

La formazione artistica e fotografica conduce Agnès Varda a realizzare, anche attraverso i suoi film, dei veri e propri ritratti. Si pensi all’uso stilistico della tecnica fotografica di fine Ottocento nel film Daguerrèotypes (1976), dove riprende gli abitanti della sua via, o al richiamo figurativo di molti quadri nella composizione della galleria di figure a lei care.

Ogni ritratto, pur calibrato dalle scelte estetiche dell’artista, porta con sé un margine di casualità, dovuto alla postura dei soggetti, spesso autonoma, libera e aperta al caos della realtà e alla sua indeterminatezza. Ecco perché anche i ritratti autobiografici della stessa Varda sono consapevoli ma frammentari, fortemente connessi al contesto sociale, culturale e storico. Ogni autorappresentazione vive il paradosso di essere contemporaneamente singolare e plurale, perché rivolta verso un sé collettivo. L’autobiografia Varda par Agnès (1994) individua fin dal titolo il meccanismo di rispecchiamento io-noi, adottando una forma di distanziamento in terza persona. A questa seguono, nella stessa ottica, Cinévardaphoto (2004), composto da tre brevi documentari fotografici sui suoi quarant’anni di attività filmlica; Le plages d’ Agnes (The Beaches of Agnes, 2008), realizzato per i suoi ottant’anni ma reso pubblico dieci anni dopo, e Varda par Agnès (Varda by Agnès, 2019).

Tra gli ultimi film, Visages Villages (Faces Places, 2017), girato con l’urban photographer JR, ha al centro una serie di ritratti fotografici di persone reali nelle aree rurali francesi, installati via via grazie a un camioncino che ne consente la stampa in grande formato: immagini destinate poi a svanire volutamente. Anche Agnès Varda, alla fine del film, dopo un’installazione tratta dal suo progetto Ulysse si congeda artisticamente dal suo pubblico, svanendo in una tempesta di sabbia nella stessa spiaggia di molti anni prima.

 

Spiagge

Le spiagge accompagnano, quasi ininterrottamente, tutta la produzione vardiana. Per la regista rappresentano il contrario dei muri, l’emblema cioè di un confine che delimita ma lascia aperto un varco, soprattutto verso la propria interiorità. Lungo la sua filmografia, esse sono luoghi di incontro, confronto, o paesaggi in cui cogliere una traccia espressiva di tutti i segni della natura e della dimensione del tempo. Le spiagge pertanto diventano un motivo identificativo quasi iconico, come rivela fin dal titolo Le plages d’Agnès (The Beaches of Agnès, 2008).

Che esista poi una intima corrispondenza fra spiagge e immagini è la stessa Varda a suggerirlo attraverso una delle installazioni di L’ile et elle (The Island and She, 2006), dove una grande foto del mare in still lascia spazio, alla base, a una proiezione animata che restituisce profondità e movimento, per finire poi ai piedi dello spettatore con della sabbia vera.

 

Tecnica

Senza una formazione cinematografica alle spalle, Agnès Varda gira i suoi primi film con un approccio sensibile guidato dallo spirito di osservazione e dai propri riferimenti provenienti dalla storia dell’arte, dalla fotografia, dal teatro e dalla cultura popolare.

La capacità compositiva si accompagna col tempo a una pratica itinerante con una ripresa e un montaggio spesso mobili e fluidi fra personaggi e spazi. Quest’uso si rivelerà molto prolifico nelgi anni zero con il passaggio al digitale, di cui comprende la portata realistica (anche nell’uso dell’animazione) e le possibilità di montaggio in camera già durante le riprese.

Il montaggio, con un approccio avanguardista che anticipa la nouvelle vague, assembla sempre una selezione di elementi anche all’interno dell’inquadratura e tra scene diverse per elaborare un unico motivo. È il procedimento definito dalla stessa Agnès Varda nei termini di cinècriture (cineweriting o cinescrittura), sottolineando le capacità di costruzione discorsiva e creativa del cinema ben al di là della sola narrazione di storie. No sfugge a tale approccio rientra il documentario, in cui c’è sempre una forma di scrittura legata alla organizzazione diegetica. Di molti dei suoi film, inoltre, Agnès Varda è stata anche sceneggiatrice, a conferma della sua indole ‘politecnica’. In occasione, anzi, del primo film La Pointe Courte aveva scritto la sceneggiatura quasi come se fosse un libro.

Il tema del cinema come tecnica di scrittura emerge nel trattamento di alcuni film: in Elsa la rose (corto, 1966) poesia e memorie visive accompagnano il racconto della storia di due scrittori amanti, Louis ed Elsa; in Les Créatures (The Creatures, 1966), che ancora una volta ha al centro delle vicende uno scrittore e la sua arte, risuona esplicitamente la dialettica tra finzione e realtà.

Screen tratto da L’Univers de Jacques Demy (The World of Jacques Demy, 1995)

 

Unicità

Ogni volta che Agnès Varda doveva spiegare che cosa voleva dire produrre un film rispondeva sempre che non c’è altro modo di definirlo e di realizzarlo al meglio se non come un puro atto creativo dato dall’amore, l’empatia e lo scambio. Solo questo può garantirne l’originalità. Tale considerazione emerge in modo esplicito in questo passaggio, che vale come assoluta dichiarazione poetica:

You have no idea of the relationship I have with things that happen to come my way. […] You know artists used to talk about inspiration and the muse. The muse! That’s amusing! But it’s not your muse, it’s your relationships with the creative forces that makes things appear when you need them. Those are the mysteries of my passion for the cinema. This grace, this violence, I know what it is: it is to be inhabited by your film, it’s so impressive, a bit unbelievable. It’s happened fifty times on the set that things or people or chance encounters generated ideas we could use right on the spot (Kline, 2013, p. 124).

Zgougou

Insieme alle spiagge, i gatti sono stati l’altro elemento iconico della filmografia e della figura di Agnès Varda, tanto da farne l’emblema della casa di produzione Ciné-Tamaris Espressivi nonostante, o forse proprio, per la loro imprevedibilità sono presenti in tantissime occasioni, in riprese spesso solo apparentemente casuali, anche se attraverso i film della regista si potrebbe costruire un vero e proprio bestiario.

Per il suo gatto domestico, Zgougou, realizza Hommage à Zgougou (Homage to Zgougou, the Cat, 2002). Il video di base riprende le fasi di realizzazione di decorazione della sua tomba, filmando e animando una ad una le foto scattate. Questo è stato poi la base per un’installazione temporanea per la mostra L’ile et elle (2006) e poi in maniera permanente per la fondazione Cartier (col titolo Le Cabane du Chat). L’opera video, proiettata tra un muro e la terra, si conclude con una ripresa dall’alto che si allontana via via, mostrando la spiaggia vicina, sino a raggiungere una dimensione enorme e far sentire con un tono leggero e gioioso quanto umani e non siano accomunati per Varda dallo stesso ordine di ‘grandezza’.

Screen da Le lion volatil (The Vanishing Lion, 2003)

 

* Tutte le immagini che accompagnano l'articolo sono fotogrammi dei film citati nel testo. Titolo e anno sono riportati nelle didascalie. Si ringrazia la Ciné-Tamaris per la gentile concessione delle immagini.

Bibliografia

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T. Jefferson Kline (ed.), Agnès Varda. Interviews, USA, University Press of Mississippi, 2014.

K. Ince, ‘Feminist Phenomenology and the Film World of Agnès Varda’, Hypatia, 28, n. 3, pp. 602-617.

E. Petrarca, “An Ode to Agnès Varda’s Radical Style”, The Cut, 29 marzo 2019, <https://www.thecut.com/2019/03/agnes-varda-style-icon-gucci-oscars.html>, [accessed 31.10.2020].

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