Suso e Anna. Scritture, performance, corrispondenze. A proposito di Nella città l’inferno di Renato Castellani (1958)

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Nella città l’inferno di Renato Castellani rappresenta dal punto di vista della performance un caso di collaborazione a quattro mani tra la sceneggiatrice, Suso Cecchi D’Amico, e l’attrice, Anna Magnani; con la messa a punto del personaggio di Egle, l’istrionica detenuta del carcere delle Mantellate interpretata dall’attrice. Il contributo prenderà in analisi alcune scene delle due stesure delle sceneggiature, conservate presso il fondo Castellani del Museo Nazionale del Cinema, in cui il lavoro di scrittura dell’una per l’altra sottende da un lato una profonda conoscenza della Magnani, andando oltre lo stereotipo, e dall’altro una sicurezza avvalorata dalla profonda amicizia che legava le due donne, che ha permesso alla Magnani di valorizzare le potenzialità del suo lavoro attoriale, qui giocato sulla capacità di inserirsi nella scrittura della D’Amico potenziando la performance con l’assoluta padronanza della scena e l’uso dell’idioletto che contraddistingue il personaggio di Egle. 

…and the Wild Wild Women by Renato Castellani represented a case of collaboration between the screenplay and the performance as the result of the deep knowledge and friendship that connected the screenwriter, Suso Cecchi D’Amico, and the performer, Anna Magnani, that is flown into Egle’s character. The proposal is going to analyze some scenes of the two scripts, stored in the Castellani’s archive collection at the National Museum of Cinema, where this collaboration emerges and promoting and strengthening Magnani’s performance. 

 

 

 

Come si fa a definire il [suo] fascino? Non era bella, spesso cupa come il suo cane lupo color dell’ebano. Aveva sempre le occhiaie, un colorito terreo e i capelli neri come non si può immaginare, della consistenza di una matassa di seta pesante. Le gambe erano magre e leggermente storte, era piccolina e forte di fianchi. Aveva un décolleté splendido, come pure lo erano le mani e i piedi. Dovunque entrasse in scena, non guardavi altri che lei.[1]

Le parole di Suso Cecchi D’Amico poste in esergo offrono un ritratto di Anna Magnani in cui la lucida obiettività di talune affermazioni («non era bella […] le gambe erano magre e leggermente storte […]») viene del tutto sopravanzata dal tono poetico e immaginifico della descrizione («spesso cupa come il suo cane lupo color dell’ebano […]»), e dal suo chiudersi sull’improvviso emergere di tratti di splendore («aveva un décolleté splendido, come pure lo erano le mani e i piedi […]»), sino alla resa incondizionata di fronte al suo fascino («Dovunque entrasse in scena, non guardavi altri che lei»). Un ritratto delineato da parte di qualcuno che proprio scrivendo per lei, in qualche modo ʻdi leiʼ, aveva sviluppato con l’attrice e la donna un rapporto di profonda intesa e amicizia, durato molti anni e rievocato in numerose occasioni. Un’amicizia fatta di fiducia, in particolare da parte della Magnani nei confronti di Suso, che confidava nella scrittura della sceneggiatrice, avvertendola rispettosa della sua personalità più che dello stereotipato personaggio ʻMagnaniʼ e, soprattutto, delle sue qualità di attrice, spesso previste, anticipate, ma mai imposte nei ruoli scritti per lei; una collaborazione che inizia con L’Onorevole Angelina (L. Zampa, 1947) e prosegue con Bellissima (L. Visconti, 1951), Camicie rosse (G. Alessandrini, 1952), l’episodio Anna Magnani (L. Visconti, 1953) in Siamo donne, Nella città l’inferno, di cui si parlerà in questo contributo, e che si conclude con Risate di gioia (M. Monicelli, 1960). Ma se sono note le tappe di un rapporto che conosce una fase calante proprio in concomitanza con l’ultimo film di Monicelli, e che si nutre del sodalizio artistico ma anche di quello umano (con la Magnani che coinvolge l’amica nelle sue crisi sentimentali, nelle incomprensioni con i registi, nelle sue partenze – quella per l’America –, nelle sue ʻruzzeʼ notturne), non sempre sono state osservate nel dettaglio le relazioni tra la scrittura dell’una per l’altra, e la performance dell’attrice.

I film maggiori, costruiti a più livelli su di lei, certamente sono stati studiati sia nella dimensione registica che in quella propria della performance della Magnani (i titoli viscontiani in primis), ma il rapporto con la sceneggiatura, e in particolare con la scrittura di D’Amico, è stato perlopiù trascurato, forse anche in ragione della presenza di più apporti e pluralità di firme nella maggior parte dei film citati.

Eppure, non solo Suso progressivamente mette a punto per la Magnani una scrittura che l’attrice stessa riconosce come fertile, ma inoltre questa scrittura fa parte di un più ampio lavoro di costruzione di ruoli femminili che via via definisce una precisa direzione di intervento nel cinema italiano, ponendo attenzione su tipologie di donna che recepiscono o subiscono le modificazioni storiche e sociali, divenendone portavoce o sintomo, zona sensibile, critica, rivelatrice. Un lavoro di straordinario valore e importanza, che ha attraversato congiunture storiche, generi, registi, corpi e contesti molto differenti, in un caso unico nella storia del cinema italiano, ancora poco approfondito. Un lavoro, inoltre, condotto con precisa consapevolezza dalla sceneggiatrice, che in diverse testimonianze ha rivelato un intento non generico, ma invece mirato e in qualche modo militante nel lavorare sui ruoli femminili in quanto ricettori sociali, morali e storici. E da questo punto di vista è eloquente quanto D’Amico afferma a proposito del personaggio di Livia Serpieri in Senso (co-sceneggiato per Visconti), in un suo intervento su ʻCinemaʼ: «La donna […] è piuttosto una creatura incerta, esponente di un mondo che non ha saputo darle una moralità chiara, dei doveri precisi, e disordinatamente desiderosa di amore, di dedizione».[2]

Nel lavoro con la Magnani, questa puntuale attenzione alla definizione di ruoli che sono anche e soprattutto ruoli di donna, pur attraverso l’attrice, si evidenzia nella misura in cui la scrittura di sceneggiatura supera lo stereotipo legato al personaggio, rielaborandolo con una precisa consapevolezza della personalità e della persona Magnani, della donna Magnani, ben conosciuta, osservata, frequentata tra cinema e vita, come già si indicava in apertura; talvolta decostruendo lo stereotipo con particolare pregnanza e sottigliezza, anche attraverso strutture metacinematografiche complesse, come accade con Visconti in Bellissima e nell’episodio di Siamo donne, in entrambi i casi mettendo in discussione i soggetti di Zavattini. Ma, nell’ottica di illuminare qualche aspetto della scrittura di Suso per la Magnani e anche della peculiare relazione tra il testo di sceneggiatura e la performance dell’attrice, la sua risposta, e le corrispondenze che si stabiliscono tra l’una e l’altra, un luogo esemplare di verifica può essere rintracciato nella sceneggiatura di Nella città l’inferno: film che Renato Castellani realizza nel 1958 a partire dall’adattamento del romanzo-testimonianza di Isa Mari, Roma, Via delle Mantellate, uscito in prima edizione nel 1953, su cui ci si soffermerà più avanti.

Nella città l’inferno è luogo esemplare e privilegiato di verifica per più ragioni: innanzitutto per le condizioni di realizzazione della sceneggiatura, che vedono Suso Cecchi D’Amico come firma unica insieme al regista, il quale le concede completa libertà in una scrittura che già nel romanzo è tutta femminile, a cominciare dall’autrice e dall’ambientazione nel carcere delle Mantellate. Un caso esemplare anche a detta della stessa Magnani, che così ricorda:

Il personaggio di Nella città l’inferno è il primo, vero, grosso personaggio che io ho avuto nelle mie mani con mille sfaccettature di donna: dalla cattiveria, alla bontà, al sentimento. È un personaggio che a me ha affascinato, quello lì. Io credo che poi si veda che m’è piaciuto talmente da come l’ho fatto.[3]

Del resto, nel gioco di corrispondenza delle testimonianze è la sceneggiatrice a sottolineare una precisa intenzionalità nello scrivere per la Magnani: «Volevamo fare un film con la Magnani utilizzata in modo diverso»,[4] o ancora: «[…] la cosa era scritta su di lei. Il film non è male per niente. L’ho rivisto e sono rimasta proprio contenta».[5] 

Una reciproca soddisfazione, dunque, tra la sceneggiatrice e l’attrice, che si ritrovano nel risultato, grazie al magistero dell’una per l’altra vissuto in una corrispondenza rara.

Il presente contributo intende soffermarsi in particolare sul personaggio di Egle/Magnani del film di Castellani, partendo dai testi di sceneggiatura: una prima stesura (incompleta), in cui il personaggio in questione è ancora in nuce, ravvisabile in due diversi ruoli, e soprattutto la versione definitiva. Entrambe le stesure sono conservate nel Fondo Castellani del Museo Nazionale del Cinema di Torino. Il fondo, che si è iniziato a esplorare in occasione di un convegno dedicato al regista,[6] permette di esaminare nel dettaglio il lavoro di scrittura del personaggio di Egle che Suso Cecchi D’Amico ha confezionato sulla Magnani, indicando non solo gli atteggiamenti, le posture e la gestualità tipica dei suoi personaggi, ma anche lo stile delle battute di dialogo. Vale la pena inoltre ricordare che, rispetto alla sceneggiatura pubblicata nel 2003 dal Circolo del Cinema,[7] quella definitiva conservata al Museo Nazionale del Cinema presenta una suddivisione in scene e quadri che consente di individuare meglio le sottolineature che Suso Cecchi D’Amico intendeva conferire al personaggio di Egle, espresse da vere e proprie visualizzazioni, indicazioni sceniche e performative, come ha notato anche Mariapaola Pierini che, proprio in occasione del convegno citato, ha proposto un’ampia analisi comparata della recitazione di Anna Magnani e di Giulietta Masina.[8]

Qui ci soffermeremo, nello specifico, sull’ingresso del personaggio di Egle/Magnani e su come la sua presenza divenga il centro della scena, verso il quale convergono sia gli altri personaggi delle carcerate che l’attenzione del pubblico, a evidente conferma di quanto affermato da D’Amico: «[…] dovunque entrasse in scena non guardavi altri che lei».

Anna Magnani e Suso Cecchi D’Amico, Fondo Gastone-Bosio, Archivio Museo dell’Attore, GenovaAnna Magnani e Suso Cecchi D’Amico, Fondo Gastone-Bosio, Archivio Museo dell’Attore, Genova

 

1. Nella città l’inferno, un confronto tra scritture e performance

Come ricorda Renato Castellani, la Magnani è entrata nella produzione di Nella città l’inferno con «la voracità di un leone»,[9] offuscando il ruolo di Giulietta Masina che, sebbene fosse stata scritturata per prima, nel giro di pochi mesi si era vista ridurre considerevolmente la parte a vantaggio della Magnani. La presenza di Suso Cecchi D’Amico, che ben conosceva Castellani, è stata determinante nel far affievolire le tensioni emerse nel corso della lavorazione del film, nonché nell’apportare diversi cambiamenti rispetto al soggetto di partenza.

L’arrivo di Anna Magnani necessitava la «creazione di un personaggio più consistente»,[10] comportando un intervento da parte di D’Amico già sulla prima stesura della sceneggiatura che, secondo Mariapaola Pierini, non solo ha ridimensionato il ruolo di Giulietta Masina ma è servito a: «affiancare e in qualche modo contrastare quello di Lina».[11] In quello che si può definire un lavoro a quattro mani, e che, come è già stato rimarcato in apertura, con uno scambio ʻdell’una per l’altraʼ segna un’eccezionale corrispondenza tra le due amiche (Suso e Anna) che la performance fa risaltare, Egle conquista maggiore spazio e, per richiesta della stessa Magnani, acquisisce più alto rilievo, a conferma della sua grandezza di performer.[12] In tal senso è stato necessario un lavoro di cucitura, da cui Suso Cecchi D’Amico nella seconda scrittura ha ricavato il personaggio di Egle mettendo insieme più ruoli,[13] in particolare quello di Emma e della sigarettaia, consentendole un raggio d’azione più ampio e incisivo. Come ricordato, ne risulta un ruolo «scritto per lei e su di lei», Anna Magnani, per la quale «la parte si adatta in modo incredibile».[14]

Il personaggio della sigarettaia, già presente nella prima stesura, viene qui potenziato con maggiori tratti connotativi, caratterizzanti la figura di Egle: l’idioletto, le movenze, la gestualità, in cui il lavoro di performance della Magnani si inserisce senza improvvisazioni né cambiamenti, ma aderendovi totalmente.[15] Il risultato di questo rimaneggiamento è una donna che presenta innumerevoli sfaccettature: «dalla cattiveria, alla bontà, al sentimento»,[16] che consentono all’attrice di lavorare sulla complessità di Egle, dando corpo non a una popolana, come era accaduto in passato per altri ruoli che aveva interpretato, ma, per sua stessa ammissione, al personaggio che le è più riuscito,[17] sia per la possibilitàà di offrirsi alla macchina da presa in una gamma di sentimenti diversi, sia per la fisicità e sensualità dirompenti che emergono fin dalle prime inquadrature.

In questo confronto e analisi tra scrittura e performance partiamo proprio da questo elemento, più trascurato nella prima stesura della sceneggiatura, ma che invece emerge fin dal romanzo di Isa Mari attraverso diversi riferimenti alla nudità del personaggio di Paola che ha ispirato quello di Egle: «Paola era scesa dal letto nuda e si muoveva indifferentemente per la cella, con la grazia flessuosa di una ballerina di classe», o ancora: «Paola buttò via l’asciugamano con gesto regale e corse a spengere la luce. […] Paola mi voltava la schiena nuda».[18] La nudità di Paola, indice di estrema naturalezza e spontaneità, è un elemento che sfugge in entrambe le versioni della sceneggiatura, ma che in parte ritroviamo nel film nella presentazione di Egle, quando viene colta al risveglio mentre giace sulla branda della cella in sottoveste nera.

 fotogrammi tratti da Nella città l’inferno, presentazione ritardata di Egle che giace sdraiata sulla branda e che si mostra alla camera in una posa vulnerabile e sensuale fotogrammi tratti da Nella città l’inferno, presentazione ritardata di Egle che giace sdraiata sulla branda e che si mostra alla camera in una posa vulnerabile e sensuale

Se nella precedente stesura si fa solo un accenno al fascino della sigarettaia (inizialmente pensata per essere interpretata da un’attrice più giovane),[19] nella scrittura curata da D’Amico, invece, il lato sensuale di Egle riesce a emergere fin dalle prime scene.

Entriamo ora nel dettaglio dell’analisi e mettiamo a confronto le due versioni della sceneggiatura.

Nel primo caso la sigarettaia fa il suo ingresso nella scena 94 rivelando una bellezza che combina l’aria ironica a un atteggiamento sprezzante: «Una donna sui trenta, quarant’anni, arrestata per contrabbando di sigarette; bella a suo modo: molto bruna, con grandi occhi neri ironici e la bocca sempre atteggiata a disprezzo».[20] Ma veniamo alla versione definitiva in cui l’attenzione si focalizza fin da subito sulla misteriosa presenza della ʻdormienteʼ che, solo dopo alcune scene, si apprende essere Egle, poiché è l’unica delle carcerate a essere ancora nel letto. In quest’ultimo caso la sua presentazione comincia nella scena 90 (che corrisponde alla 95 della prima versione) e prosegue nelle successive con una messa in scena a suo modo ritardata, come a voler svelare il personaggio pian paino, passando in rassegna parti del suo corpo che ne mettono in evidenza la sensualità:

Nella camerata, dove Lina e Ida sono state fatte entrare, vi sono undici posti. Le brande, che si ripiegano in due durante il giorno per lasciare più spazio, sono quasi tutte ancora tirate giù; i letti disfatti e in disordine. In uno c’è ancora distesa una donna che dorme e della quale non vediamo il viso.[21]

Il viso nascosto della dormiente fa sì che, al momento, sia messo in risalto il corpo, che per quasi tutta la durata del film sarà avvolto dalla sola sottoveste nera, inevitabile reminiscenza di Bellissima, a rimarcare la fisicità di Anna Magnani, evidenziata anche dalla sua gestualità tipica (il passaggio delle mani tra i capelli, la camminata).

Proseguendo nella scena 92, la scrittura indugia sulle spalle del personaggio, ancora privo di volto e di nome ma già ben connotato fisicamente: «Renata dà una spinta a Lina per mandarla verso una delle brande ancora ripiegate e che è accanto a quella dove vediamo di spalle la donna che dorme».[22] E successivamente nella scena 94:

Adele ride sottovoce, a bocca chiusa, com’è sua caratteristica. Dondolando sulle gambe si dirige quindi verso la propria branda, passando davanti alla Maroni e al lettino dove c’è la donna che dorme e della quale non vediamo che le spalle nude.[23]

In quest’ultima scena è il dettaglio delle spalle nude a colpire, ribadendo la differenza con le altre carcerate. È poi solo nella scena 109 che a quel corpo si attribuisce un nome e un soprannome, a connotarne il temperamento e l’abitudine a tirare tardi:

Nella sua branda Egle, detta anche Aripijemece, o l’Ommini, continua a dormire. Quello che non ha potuto il fracasso che c’è stato nella camerata fino a quel momento, lo può ora il fruscio lievissimo della pioggia contro la persiana e il vetro della finestra a bocca di lupo.[24]

Infine nella scena 111 Egle è colta nel ʻsuo splendoreʼ  per ritornare alle parole scritte in esergo –, sottolineato dalla sottoveste nera e della gestualità delle mani che passano tra i capelli, per scarmigliarli ulteriormente e rimarcare la componente ribelle del personaggio: «Egle non le dà ascolto. Egle si è seduta sulla branda. Indossa un sottabito nero. Ora si sta arruffando i capelli già ribelli».[25]

Se nel romanzo di Mari la nudità di Paola a tratti è ostentata e presenta una descrizione fisica molto distante dalla corporeità della Magnani (qui infatti si fa cenno alla: «grazia flessuosa di una ballerina»), nel film il personaggio di Egle è caratterizzato da una forte energia erotica e da epifanie di splendore, che l’attrice conferisce al ruolo e che emergono nella descrizione iniziale; elementi che traspaiono anche dalla seconda stesura della sceneggiatura, in cui nelle scene a seguire (come ad esempio nella 136) Egle è ancora in sottoveste mentre fuma con voluttà:

Come veduta da Lina vediamo Egle che è in piedi vicino al tavolo, intenta a prepararsi delle sigarette con il tabacco che ricava da alcune cicche. Egle ha un’espressione molto diversa da quella che le abbiamo veduto la mattina. Appare più giovane, vivace. È proprio ben sveglia, insomma, e anche di buon umore. Ogni tanto fischietta. È sempre in sottoveste. Egle accende una sigaretta e ne aspira il fumo con voluttà. Si avvicina al cancello. [26]

Con la presentazione di Egle in cui si ritarda a esibirne il volto si ribadisce che ella è soprattutto un corpo ʻesplosivoʼ, spesso al limite come le sue azioni, che dall’istante in cui appare in scena divora il film.

 fotogramma di Nella città l’inferno, Egle appoggiata alla cancellata della cella

Alla spalla nuda già indicata in sceneggiatura, le riprese aggiungono l’ulteriore dettaglio del piede nudo, come a raccogliere e rilanciare l’attento sguardo della sceneggiatrice sul corpo della Magnani.

 fotogramma del film Nella città l’inferno

Nel personaggio di Egle si riscontrano molte caratteristiche proprie della Magnani dovute, come detto in apertura, al rapporto di reciproca stima che si instaura tra lei e D’Amico; tenendo conto di tutta la gamma gestuale e linguistica propria dell’attrice, e nella sua performance di una quasi totale aderenza al personaggio scritto e pensato dalla sceneggiatrice. Tipiche infatti sono le sue battute sulle quali, come ribadisce Pierini,[27] la Magnani non interviene modificandole, ma si affida completamente alla D’Amico che, dal canto suo, ne riprende lo stile, segno di una profonda osservazione e conoscenza, come nel caso della scena 138 e della successiva 139:

EGLE
- Assù! (cercando di convincere)
- Vie’ che te racconto un sogno che ho fatto. (Ride) Così me dici se vuol dire quello che penso io. (Impaziente) E movite!
VOCE F.C. ASSUNTA
- Sono a letto. Me lo dici domani.
EGLE
- Te lo voglio dire adesso.
VOCI F.C. DONNE
- Assù, non je dà, spago.
- Non te ce mette’ pure te co’ quella matta.
FRUTTAROLA (a Egle, minacciosa)
- Ma non c’è nessuno per farla azzittare!
EGLE (interrompendola violenta)
- Ah Mobby Dicche, e levati! Può sta che uno non può affacciasse senza trovarsi questo bidone davanti agli occhi? (forte a dispetto) Assuuuuuuntaaa!
VOCE F.C. ASSUNTA
- Domani.
EGLE
- Ammazzate quanto sei. [28]

La natura incalzante delle battute di Egle, l’idioletto tipico della sua romanità, così come l’atteggiamento da attaccabrighe e l’ironia, sono alcune delle caratteristiche, insieme all’aria scanzonata e beffarda, che emergono dai dialoghi tra lei e le altre carcerate, e che rendono il suo personaggio (il cui risveglio rappresenta per tutte uno dei pochi eventi nelle lunghe e ripetitive giornate trascorse in cella) centrale nell’intreccio della storia. Suso riprende qui una caratteristica del personaggio Magnani che è presente anche nel precedente L’Onorevole Angelina, conferendole quel magnetismo e carisma che fanno di lei (attraverso le battute e la collocazione nello spazio della scena a occupare una posizione predominante o centrale) un punto di riferimento verso cui convergono gli altri personaggi.[29] Egle domina la scena, animando con le sue parole e la risata fragorosa le giornate delle carcerate. Vera attrazione di ogni singola inquadratura, Anna Magnani caratterizza la performance in un crescendo di dinamismo verbale e gestuale, producendo un eccesso visivo che la macchina da presa fatica a contenere.

In Egle si ritrovano anche quelle ʻspettinatureʼ tipiche della gestualità dell’attrice, di cui parla Siro Ferrone in un’attenta analisi su Bellissima[30] e che, accanto agli «occhi fiammeggianti e a sguardi che cambiano repentinamente», sono qui usate da entrambe (Magnani e D’Amico) per rimarcare la presenza attoriale della Magnani in un film in principio pensato per altre (la Masina e, non ultime, le carcerate). L’incedere delle mani tra i capelli già ribelli – come ben evidenzia la sceneggiatura –, che diventano ancora più scarmigliati al loro passaggio, è uno dei gesti tipici di Magnani che diventerà proprio anche di Egle, a ribadire quell’attenta osservazione da parte dell’amica sceneggiatrice, che ben conosce «quella matassa di seta pesante»  per ritornare sulle parole di apertura di questo saggio –; e che rievoca anche l’ultima versione della sceneggiatura alla scena 111, che rimanda alla stessa gestualità: «[…] Ora si sta arruffando i capelli già ribelli».

Tutti dettagli, parti di un corpo che la D’Amico si impegna a scrivere come elemento primario del personaggio (coerentemente alla sua già citata dichiarazione), e che proprio sul corpo si sofferma quando le viene chiesto in che cosa consista il fascino della Magnani.

In conclusione i gesti, lo stile delle battute, l’idioletto che connotano il personaggio di Egle, riportati nella sceneggiatura del film sono frutto della profonda conoscenza e amicizia che ha legato negli anni Suso Cecchi D’Amico e Anna Magnani; legame che nel lavoro insieme per Nella città l’inferno emerge particolarmente, con la conseguenza che la performance di Magnani si inserisce negli spazi e nelle pause della scrittura di D’Amico, contribuendo con la sua presenza e fisicità a dare forma al personaggio di Egle, in un lavoro a quattro mani in cui l’una completa l’altra.

 

 


1 S. Cecchi D’amico, Storie di Cinema (e d’altro) raccontate a Margherita d’Amico, Milano, Garzanti, 1996, p. 126.

2 S. Cecchi D’Amico, ʻLa Scenarista. Dalla pagina allo schermoʼ, Cinema, 136, 25 settembre 1954, p. 358.

3 M. Persica, Anna Magnani, biografia di una donna, Bologna, Odoya, 2016, p. 275.

4 S. Cecchi D’Amico, da F. Francione (a cura di), Scrivere con gli occhi. Lo sceneggiatore come cineasta. Il cinema di Susi Cecchi D’Amico, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2002, pag. 23.

5 S. Cecchi d’Amico, ʻPeccato che la Magnani non abbia voluto fare la trucibaldaʼ, in O. Caldiron, M. Hochkofler (a cura di), Scrivere il cinema, Bari, Dedalo, 1988, p. 67.

6 G. Carluccio, L. Malavasi, F. Villa, (a cura di), Il cinema di Renato Castellani, Roma, Carocci, 2015.

7 S. Cecchi D’Amico, ʻNella città l’inferno: sceneggiatura originale dell’omonimo film di Renato Castellaniʼ, in Cinema Sceneggiature originali e materiali di studio, Mantova, Assessorato alla Cultura, Circolo del Cinema di Mantova, Provincia Mantova, Casa del Mantegna, 2003.

8 M. Pierini, ʻIdioma e idioletto: Magnani e Masina in Nella città l’infernoʼ, in G. Carluccio, L. Malavasi, F. Villa, (a cura di), Il cinema di Renato Castellani, cit., p. 189-197.

9 S. Trassati, Renato Castellani, Firenze, Il Castoro cinema, La Nuova Italia, 1984, p. 77.

10 M. Pierini, ʻIdioma e idioletto: Magnani e Masina in Nella città l’infernoʼ, in G. Carluccio, L. Malavasi, F. Villa, (a cura di), Il cinema di Renato Castellani, cit., p. 193.

11 Ibidem.

12 P. Carrano, Anna Magnani, Milano, Bompiani, 2013, p. 259.

13 M. Pierini, ʻIdioma e idioletto: Magnani e Masina in Nella città l’infernoʼ, in G. Carluccio, L. Malavasi, F. Villa, (a cura di), Il cinema di Renato Castellani, cit., p. 192.

14 S. Trasatti, Renato Castellani, cit., p.77.

15 Come ricorda Luchino Visconti, Magnani era solita contribuire alla messa a punto dei suoi ruoli confrontandosi con i registi e gli sceneggiatori. Un lavoro, quello dell’attrice, che si potrebbe definire autoriale nella preparazione della parte, che prevedeva una rielaborazione ma che lasciava anche molto spazio all’improvvisazione acquisita negli anni della rivista. Cfr. N. Lodato, ʻMagnanima Magnaniʼ, in B. Rossi, Anna Magnani. Un’attrice dai mille volti tra Roma e Hollywood, Genova, Le Mani, 2015, p. 14, e F. Faldini, G. Fofi, (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano da Ladri di biciclette a La grande guerra, vol. 2, Bologna, Cineteca di Bologna, 2011, pp.139 e 430.

16 M. Persica, Anna Magnani, biografia di una donna, cit., p.275.

17 Ibidem.

18 I. Mari, Roma, via delle Mantellate, Roma, Corso, 1953, p. 26.

19 Non è un caso che nella seconda scrittura scompaiono i riferimenti all’età, per evitare ulteriori dissapori con la Magnani che in quel periodo, e poi anche in seguito durante la lavorazione di Risate di gioia, tendeva a preservare la propria immagine temendo di apparire troppo vecchia rispetto alle colleghe. Cfr. S. Cecchi d’Amico, ʻPeccato che la Magnani non abbia voluto fare la trucibaldaʼ, in O. Caldiron, M. Hochkofler (a cura di), Scrivere il cinema, cit., p. 67.

20 Nella città l’inferno, coll. 391/I (marcatura sci 0026), Fondo Renato Castellani, Museo Nazionale del Cinema.

21 Nella città l’inferno, sceneggiatura, Fondo Renato Castellani, Museo Nazionale del Cinema, coll. 386/7 (marcatura SCRC 0025), p.26.

22 Ibidem.

23 Ivi, p.27.

24 Ivi, p.34.

25 Ivi, p. 35.

26 Ivi, p. 43.

27 M. Pierini, ʻIdioma e idioletto: Magnani e Masina in Nella città l’infernoʼ, in G. Carluccio, L. Malavasi, F. Villa, (a cura di), Il cinema di Renato Castellani, cit., p.194.

28 Nella città l’inferno, sceneggiatura, coll. 386/7 (marcatura SCRC 0025), p. 44.

29 Si veda a tale proposito l’interessante intervento ʻAnna Magnani: forme rappresentative, stile performativo e divismoʼ che Francesco Pitassio che ha tenuto nell’ambito di una lezione dottorale presso l’Università degli Studi di Torino (20/09/2016), in cui si affronta la messa in scena della diva Magnani in relazione al concetto di piazza e palcoscenico.

30 S. Ferrone, ʻ“Bellissima”: l’educazione teatraleʼ, Drammaturgia, 7, Firenze, 2000, pp. 83-95.