Quella di Sonia Bergamasco, pubblicata recentemente per la collana Gli struzzi di Einaudi, è un’agile autobiografia di circa centotrenta pagine che, fin dal titolo e dal progetto grafico (curato da Ugo Nespolo), mostra una specifica dichiarazione di intenti. Se in copertina si staglia, sullo sfondo bianco caratteristico di Einaudi, la silhouette di un corpo nudo femminile nell’atto di guardarsi allo specchio, il titolo Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice rende ancora più palese il focus del testo.
È infatti il corpo attoriale il perno su cui Bergamasco fa ruotare la sua breve narrazione autobiografica, da un lato, ricordando come il corpo sia lo strumento fondamentale della propria espressione artistica e di quella di qualsiasi attrice o attore, dall’altro, ricostruendo la storia di quello che è diventato, lungo gli anni, il suo corpo d’attrice.
Il testo spicca, se si guarda alle autobiografie delle attrici contemporanee, appunto per il modo assolutamente personale di intendere lo scrivere di sé, ovvero tenendo il racconto biografico saldamente ancorato alla descrizione delle pratiche attoriali. In nessun altro caso, se si eccettuano forse Fiato d’artista di Paola Pitagora (Sellerio, 2001) e La stanza dei gatti di Franca Valeri (Einaudi, 2017), è riscontrabile una tale minuziosa attenzione verso ciò che connota il mestiere di attrice; al punto che Un corpo per tutti sembra rimandare, più che alle recenti scritture del sé delle attrici, alle memorie delle Grandi attrici teatrali come, fra tutte, quelle di Adelaide Ristori.
Certamente un’autobiografia, dunque, in cui Bergamasco si sofferma su alcuni eventi chiave del suo percorso esistenziale, come la perdita del padre in giovane età; gli anni, fondamentali, della sua formazione al Conservatorio; la scoperta della recitazione alla Scuola di teatro del Piccolo di Milano; gli spettacoli teatrali (compresi quelli che ha scritto o diretto); l’esordio televisivo e la sfida della comicità sul grande schermo in Quo Vado? (Gennaro Nunziante, 2016). Lungo le pagine, scorrono anche brevi ritratti e aneddoti sui maestri Carmelo Bene, Gabriella Bartolomei, Giorgio Strehler; sulle colleghe scomparse Piera degli Esposti e Monica Vitti; sul marito, l’attore Fabrizio Gifuni.
Come anticipato, a tali cenni memoriali si alternano dettagliate riflessioni sulla professione attoriale, tanto che il testo – come d’altra parte suggerisce lo stesso sottotitolo – si presenta come un’indagine del sé proiettata verso l’esterno, in cui l’introspezione diventa il pretesto per poter tracciare, appunto, una biografia del mestiere di attrice. Spinta, probabilmente, dalla felice esperienza nei corsi di formazione, nei laboratori e nelle accademie, Bergamasco utilizza la breve autobiografia per condividere e «tradurre in maniera utile» (p. 130) il proprio patrimonio di esperienze. Se, come afferma, «non esiste un identikit» (p. X) dell’interprete, è tuttavia possibile rintracciarne lievemente i contorni, tentando di fornire un’immagine per chiunque si domandi «che cosa significa “fare l’attrice”» (ibidem). Evitando qualsiasi tipo di schematizzazione, Bergamasco crea un ritratto di attrice attraverso un flusso continuo, inseparabile dai ricordi; ciò nonostante, ritengo che siano tre i tratti principali di cui l’autrice si serve, nel testo, per comporre tale ritratto.
Sguardo. È da uno specchio che comincia il racconto. Prima di giungere alla consapevolezza del proprio corpo di attrice, Sonia bambina osserva allo specchio l’immagine di una sconosciuta. Da quel momento nasce un’istintiva e inconsapevole spinta a misurarsi con quel corpo:
Dovevo ammaestrarla. Quella pratica dello sguardo è proseguita negli anni, con una determinazione sempre più affilata. Da una parte c’era lei, quella creatura bionda che cominciavo a conoscere, e dall’altra c’era il desiderio di scolpire, di sfidare l’immagine per avvicinarla a quella del mio desiderio. Quella riflessione era una lotta, una sfida. Non c’era ombra di pacificazione o condiscendenza nel mio sguardo su di lei. […] Faccia a faccia, nello specchio, provavo una certa diffidenza per quel corpo, ma anche la certezza di doverci “lavorare insieme” (pp. VII-VIII).
Un’attrice, però, deve confrontarsi anche con altri sguardi. Uno è quello, temibile, del pubblico: «ho affrontato l’ennesimo specchio, composto questa volta dalle centinaia di occhi che convergono sull’azione che compio» (pp. 45-46). Solo con l’esperienza e il tempo la paura si trasforma in «carburante essenziale», in «energie positive, creative, plastiche» (p. 46), fondamentali non solo per la buona riuscita della performance ma anche per instaurare quel rapporto di scambio tra palcoscenico e platea che nel teatro è indispensabile. Un altro tipo di occhio, altrettanto spaventoso per un attore, è quello «da ciclope» della macchina da presa, a cui non si può sfuggire: l’unica soluzione è lasciarsi guardare, accettare di poter essere visti e fissati nell’attimo e rispondere sostenendo quello sguardo, attuando una vera e propria seduzione nei confronti dell’obiettivo (pp. 114-115).
La disponibilità a lasciarsi guardare e, insieme, un continuo esercizio di sguardo sul mondo dovrebbero essere accompagnati anche dalla capacità – ardua da ottenere per chi fa l’interprete – di non prendersi troppo sul serio, rinunciando cioè a qualsiasi pretesa di perfezione. Per Sonia Bergamasco è stata una «metamorfosi silenziosa ma costante che ha condotto la ragazzina biondo cenere incastonata tra le note di una sua partitura ideale a scendere a patti con la sua forma quotidiana, con i suoi modi e le tante cose buffe o ridicole che fanno di una persona quello che è» (p. 59).
Voce. L’autrice utilizza non a caso il termine ‘partitura’ poiché, come racconta, la musica è stata il «filo segreto del [suo] percorso» (p. 112). Gli anni al Conservatorio a cui si è già accennato sono stati particolarmente formativi, al di là della conoscenza musicale: «la musica era entrata nel mio lessico quotidiano in maniera prepotente sin da bambina, e aveva lavorato negli anni dentro di me, per poi manifestarsi, nel corpo, attraverso un linguaggio inatteso» (p. 5). Nel provino finale della Scuola del Piccolo Teatro, Bergamasco «solfeggia» la sua parte, manifestando già quella musicalità che poi avrebbe caratterizzato e reso unica la sua recitazione. «Orfana dello strumento» (p. 7), non le rimaneva che la sua voce: «avevo stabilito (da sola), tempo, linee melodiche e armonie […]. Avevo “tradotto” quelle parole in un alfabeto a me più familiare, le avevo avvicinate alla mia esperienza» (p. 6). Fondamentale, per un’attrice, è riuscire a «sintonizzarsi» (p. 42) con le voci degli altri, partendo da una conoscenza profonda della propria. Quella di Bergamasco, grazie a uno studio costante messo al servizio delle proprie esigenze espressive, negli anni ha subito una trasformazione profonda, in cui «le note acute su cui si attestava agli inizi sono scivolate gradualmente di tono in tono, verso il basso» (p. 43) e dove la sua risata, particolarmente sonora e squillante, è diventata «un tratto distintivo, un segno di riconoscimento, un passaporto» (p. 72). La pratica di attrice le ha permesso di «farsi strumento» (p. 22).
Corpo. Infine, lo strumento ultimo – quello che racchiude e sintetizza anche gli altri – e a cui è dedicata la maggior parte delle pagine, è protagonista di una continua indagine sul suo rapporto con l’interprete. Un corpo «sonoro» (p. 12), capace, in scena, di creare un legame anche erotico con il pubblico e di tenere insieme le «pulsioni contrapposte» alla base della recitazione: la tensione costitutiva verso la ripetizione, dunque il voler riprovare e fare meglio, e, viceversa, la noia unita all’insoddisfazione (p. 29). Per Bergamasco esibirsi davanti al pubblico difficile del carcere minorile di Milano, davanti a coloro che all’epoca erano suoi coetanei, ha rappresentato la presa di coscienza del suo corpo d’attrice: «per la prima volta mi sono vista, mi sono sentita, con precisione scientifica. Ho percepito le potenzialità di un corpo di scena – il mio – armato per la prova» (p. 25).
Se il corpo di un attore è certamente uno strumento, da addestrare, bisogna tuttavia tenere a mente di non farsi sopraffare dal rigore degli esercizi pratici a discapito dell’emotività; come ricorda l’autrice, «tutto il “prima” è funzionale solo a quell’istante» (p. 54). Per sentirsi, infatti, è necessario fidarsi anche della parte di sé più istintiva, sensoriale, e lasciare che si manifesti durante la performance. D’altra parte, anche la memoria è corporea: «trattiene tutte le informazioni, le lavora e le riconsegna di volta in volta, con una sapienza infallibile» (p. 104).
Ed è alla memoria che Sonia Bergamasco affida la conclusione della sua autobiografia: «il mestiere dell’attrice è sicuramente una professione, ma è anche qualcosa di più. Perché dà voce alle storie di tutti. Fa spazio, dentro, ai ruoli incarnati ogni giorno dalle creature più diverse. Un corpo per tutti, un testimone» (p. 133). In qualche modo l’autrice, riconoscendo al corpo dell’interprete un insito valore testimoniale, svela a chi legge il legame implicito, ma saldissimo, tra arte scenica e scrittura memoriale.