1. Spazi da scrivere
Com’è, vorrei chiedere, com’è vivere in un posto immobile, un posto in cui, a parte l’approfondirsi impercettibile delle rughe, niente vi dice che il tempo sta passando, perché le stagioni si confondono, a volte nevica anche a giugno, e le persone e le cose che avete davanti sono sempre le stesse, si butta via il meno possibile, si compra il meno possibile […], e insomma il passare del tempo sembra assomigliare davvero alla distensio animi di Agostino: non un dato ma una dinamica, un’evoluzione interna all’io, che non ha vero rapporto con ciò che accade fuori.[1]
Questo lungo periodo, posizionato a metà di pagina 35, rappresenta una pregnante mise en abyme concettuale di Tutta la solitudine che meritate, volume composto dai testi di Claudio Giunta e dalle fotografie di Giovanna Silva, pubblicato nel 2014 nella collana ‘Travel Books’, gestita in cooperazione dalle case editrici Humboldt e Quodlibet. Il periodo summenzionato contiene, infatti, tra le righe il nucleo fondante dell’interrogativo che abita in maniera carsica le pagine e le immagini contenute in questo libro stratificato e composito, che è al contempo reportage di viaggio eterodosso, arguto baedeker, atipico diario iconografico, in cui le diverse sezioni – il racconto odeporico, la sezione fotografica, il dossier letterario, le informazioni pratiche per il viaggio (consigli utili per i voli, gli spostamenti, i pernottamenti, gli approvvigionamenti) – si integrano e si completano traendo sostegno dalla struttura globale dell’opera, in definitiva armonizzante e unitaria. Come indagare narrativamente e visualmente il tempo attraverso lo spazio e lo spazio attraverso il tempo personale del viaggio?
Minaccia, esortazione o – come suggerisce Sabrina Ragucci – «oggettiva condizione della nazione»,[2] il titolo di questo elaborato dispositivo fototestuale non solo esibisce immediatamente le ragioni e le condizioni che popolano le fondamenta dell’esperienza raccontata, ma soprattutto illumina l’aspetto focale che viene messo in gioco quando si parla di Islanda, una nazione con densità abitativa media tra le più basse al mondo: la solitudine e le sue più manifeste declinazioni. Fondato sull’intreccio strutturale, coagulato e coeso, di elementi disparati – non fiction, memorialistica, fotografia, resoconto storico, trattato sul costume, dossier letterario, intervista, mappe –, Tutta la solitudine che meritate è un’opera fortemente intermediale e intertestuale, che fonda la propria ragion d’essere sulla riuscita dialettica interna che ne anima la progressione e ne consente una fruizione ad elastico. Nell’economia del libro testo e immagine si fanno correlativi di un racconto similare ma non sovrapponibile, attuando inevitabilmente strategie compositive differenti e mutevoli. L’alternarsi dualistico di diversi sguardi e punti di vista, in cui s’inserisce nel finale la presenza di ulteriori angolazioni e focalizzazioni – il Dossier Islanda, l’intervista di Barbara Casavecchia a Roman Signer – mette in gioco e problematizza reiteratamente le tre polarità proprie di ciascun regime scopico – immagine, dispositivo, sguardo –, collaborando a creare un palinsesto eterogeneo in cui ogni acquisizione interna ed esterna al libro è temporanea, relativa, suscettibile d’essere ampliata, contraddetta, obbligata ad essere rimessa in discussione nel prosieguo delle varie parti che si susseguono. La prima sezione, che ha lo stesso nome del libro, è dedicata interamente al resoconto esperienziale del viaggio intrapreso, inframmezzato rapsodicamente da immagini fotografiche (sedici su un totale di settantatré pagine) di piccolo formato, 5cm x 8cm, compendio visivo che puntella il testo e fornisce dimostrazioni iconograficamente fedeli e rispondenti alle constatazioni che il testo effettua nel suo farsi. In questa prima parte del volume le immagini, anche a causa della monocromia imposta dal bianco e nero, emergono di poco rispetto al corpo e alla trama segnica del testo che le circonda, svolgendo perciò un compito prettamente informativo. La storia di Giunta e Silva, la storia del loro viaggio, è un percorso nel macrospazio d’Islanda in cui «la potenza geodetica»[3] del tragitto funge da finestra aperta sul quotidiano dell’estremo Nord, alle propaggini terminali dell’abitabile, un tramite per comprendere i moti che serpeggiano al fondo di una terra che impone innanzitutto di resistere al bisogno intrinseco di socialità che si palesa con intensità e frequenza variabile in ogni essere umano, all’interno di un perimetro geografico che per naturale fisiologia topografica propone una costante verifica della possibilità di fare a meno dell’altro e degli altri. D’altronde, in Islanda il comportamento dell’uomo, ciclico, reiterato in forme pressoché identiche da centinaia di anni e ancora legato a primarie esigenze di sopravvivenza, è frutto di una meccanica ma salvifica coazione a ripetere, capace di autogenerarsi e autosostenersi a prescindere dai segnali spesso impalpabili del divenire esteriore. Qui il tempo, così come il fluire delle stagioni, è sfilacciato, alineare, indistinto e produce effetti meno evidenti sul circostante e sul contingente, tanto che alcuni anfratti così remoti da essere irraggiungibili sopravvivono in una dimensione di apparente astoricità, o per meglio dire, entro una dimensione della temporalità che trascende la storicità umanamente intesa, così come la temporaneità caratteristica degli spazi industrializzati, votati alla produzione e al consumo. La geografia umana e quella territoriale-ambientale sono direttamente proporzionali, ma è la seconda a decidere effettivamente le propaggini caratterizzanti della prima. Se il tempo della lunga durata rimane indifferente, altèro, è destinato a perdere valore ermeneutico e dev’essere perciò esplorato attraverso lo spazio, elemento dalle sottovalutate qualità euristiche che ne veicola le manifestazioni pregnanti nell’avvicendarsi degli ambienti e dei paesaggi. Lo spazio è allora destinato ad assurgere a «ecosistema esistenziale, in cui il soggetto percepisce sé stesso e le relazioni con gli altri che vi abitano».[4] A differenza di quello che accade in gran parte del macrocosmo occidentale, in particolare negli ambienti urbani e metropolitani, dove si progredisce a rapide falcate verso un futuro di luoghi-non-luoghi, sedi «del tempo rettilineo della finitezza autofondata e autofinalizzata»,[5] in Islanda «lo spazio ha un significato esatto»[6] e i paesaggi vuoti – almeno per l’occhio di una persona abituata a ben altre percentuali di consumo di suolo –, omogenei e ripetitivi che lo caratterizzano sono una regola assoluta, un pegno imprescindibile, uno schiaffo inconsapevole alla brama antropomorfica di chi vorrebbe essere sempre posizionato in un luogo potenzialmente razionalizzabile, recettivo, servibile, collegabile opportunamente ad altre forme di vita, riconducibile in fondo a una percezione umanizzante del reale. In un contesto così strutturato, l’umano appare conseguentemente come un’eccezione e la solitudine che l’avvolge e lo accompagna è talmente palpabile, talmente presente da configurarsi non come uno stato emozionale – uno tra i tanti –, bensì come una condizione vincolante e irriducibile. Anche la natura, o almeno le declinazioni naturali a noi più vicine e assimilabili – boschi, foreste, fiori – sono sparute e refrattarie, quasi inesistenti. Ciò che continua a sorprendere Giunta, nonostante il numero dei suoi viaggi sull’isola stia per raggiungere la doppia cifra, è il fatto che «l’oggetto Islanda […] s’impone sui soggetti»,[7] di modo che la superficie elementare, essenziale, che ne riveste l’aspetto esteriore si presta poco a ermeneutiche forzose o coercitive, è poco suscettibile a sovradeterminazioni polisemiche atte a trasformare l’oggetto d’osservazione in simbolo o in allegoria. Non è una natura da idolatrare o alfabetizzare, rifugge gli astrattismi e le appropriazioni indebite. La materia pervadente che riveste spazi dilatati e sempre identici a sé stessi, distese aride e brune in cui nulla è a portata di mano, oppone una strenua resistenza a ogni facile tentativo di trascendenza, a ogni impulso di elevazione spirituale che per una collaudata quanto mistificante osmosi dovrebbe verificarsi senza eccezione in luoghi impervi e desolati. Giunta opera, assecondando un movimento antinomico a quello che percorre solitamente la letteratura di viaggio, una consapevole e puntuale operazione di demitologizzazione e defeticizzazione dei luoghi raccontati, li emancipa dalla «topografia dell’immaginario»,[8] per restituire loro, a costo di apparire prosastico, una verità altra, fattuale, decongestionata. Sembra che la prosa di Giunta, mai concettosa e sempre divertita, a tratti caustica, sostenuta da un registro piano e colloquiale che non lesina apostrofi dirette al lettore, tenda proprio a voler smorzare l’idealizzazione romantica e artificiosa che storicamente connette – almeno dal periodo del ‘sublime’ romantico in poi – in maniera stringente luoghi brulli, solitari, estremi, a pensieri profondi, sofferti e a intensi e proficui momenti di riflessività. L’afflato antilirico, anti-idillico e disincantato che sorregge e sostanzia il racconto-conversazione di Giunta è utile poi ad allargare l’indirizzo precipuo del narrato ad altre componenti argomentative che si accostano al flusso principale a mo’ di reticolo alveolare, come ad esempio i passaggi dal sapore trattatistico-documentario incentrati sulle manifestazioni più tipiche del turismo in salsa islandese e sulle costanti sociali e folkloristiche che scandiscono il rapporto tra stranieri e autoctoni, i brani analettici che rievocano viaggi precedenti e istituiscono un altalenante dialogo intratestuale e comparativo tra presente e passato, anacronie minime utili a rimarcare le divergenze sviluppatesi e ad estendere la prospettiva dello scrivente e del lettore, o le considerazioni personali che incrementano la presenza e la voce autoriale. Inoltre, le intersezioni di carattere ricognitivo storico-politico – indice primario e maggiormente riscontrabile di una tendenza diffusa alle digressioni e all’aneddotica –, non solo rispondono alla funzione di contestualizzare e tratteggiare un approssimativo quadro informativo, ma altresì arricchiscono il sostrato narrativo, ampliandone il portato e intensificandone l’interesse. I brevi intermezzi lirici – Rilke, Sereni, Borges – fungono invece da contraltare denotativo, dunque rivelatorio di una sensibilità acuitasi di fronte a certe persone, luoghi, eventi, alla scrittura piana e orizzontale di Giunta, attento, come già accennato, a evitare patetismi e a non scadere nel sentimentalismo retorico in cui rischia di rimanere irretito nel descrivere le toccanti vicende che si celano dietro le vite sorprendenti degli interlocutori con cui entra in contatto. Del resto, uno dei fenomeni più frequenti che pare innescarsi durante la visita o il soggiorno in Islanda è uno sfasamento profondo della percezione e dello sguardo, una sproporzione tra ciò che ci si immagina e la realtà tangibile. Entro le spire di un’atmosfera sospesa e rarefatta, quello che appare allo sguardo interpretante dello straniero, abituato a determinati sistemi di pensiero e valutazione, non è ciò che realmente è; il processo attivo nel soggetto percipiente, dal momento che percepire è «sempre percepire da un qualche programma d’azione all’interno di un mondo che è già fortemente intriso di valore per chi lo abita»,[9] tende a confondere, a corrompere e a trasfigurare il noumeno, lo scheletro fondante del percepito, assegnandogli significati impropri e imprecisi. È l’uomo ad applicare alla fenomenologia del reale un consolidato canone di bellezza, a decriptare i segni dell’altro da sé attraverso un pregresso bagaglio di conoscenze e mediante il filtro del proprio immaginario. La cognizione di tutto ciò che si pone al di fuori deriva dal filtraggio continuativo introdotto dalle nostre categorie di interpretazione e riflessione, dalle nostre articolate tassonomie e ingegnose casistiche, eppure, da secoli l’Islanda pare soprassedere agli assalti, alle catalogazioni, alle mode passeggere. In Islanda l’uomo acquisisce chiara consapevolezza del proprio fallimento, il fallimento di non poter essere altro che sé stesso e di non poter possedere nient’altro rispetto a quello che possiede già. L’isola decentralizza l’uomo, lo marginalizza, lo allontana dalla cabina di comando a cui è ancorato e lo restituisce alla sua esiguità, alla sua caducità. La natura in Islanda è un sostitutivo ‘logico’ delle forme artistiche, storicamente latenti in un paese che non ha mai avuto un ceto aristocratico o alto borghese che potesse permettersi un’esistenza dedita all’arte e al mecenatismo. Essa appare magnificente e intimorente, ma ciò che davvero la declina e la trasfigura, mutandone l’aspetto e la fisionomia, è la luce, una luce che scolpisce e influenza l’osservazione esterna, ne orienta il sentimento e ne estende il momento dell’appercezione. Il paesaggio in Islanda, luogo in cui la morte e la privazione sono elementi storicamente ordinari, parla un linguaggio muto, capace però di determinare l’umore di chi lo guarda e lo attraversa, decretandone gli apici e le svolte improvvise. Per questo motivo, per non dipendere eccessivamente da un clima né amico né nemico, che conduce l’essere umano a riconsiderare le virtù insite nel limite e nella stasi, a raggiungere l’apogeo della frugalità, è necessario coltivare l’interiorità, ispessire il proprio baricentro intimo, le proprie risorse caratteriali. Giunta si sofferma a più riprese sulla paradossale seduzione esercitata dal monotono, dal ripetitivo, una seduzione espressiva che trasla dal piano tematico a quello formale mediante i vuoti, le espunzioni del discorso intrapreso e non attraverso i pieni, le forzature illustrative e conative. In un mondo socializzato e aperto, globalizzato e interconnesso, in cui ogni fenomeno pretende d’essere significativo e di destare attenzione, le parole di Giunta, sovraesponendo fedelmente la dignità dell’ordinario, costituiscono un sincero e sentito elogio del marginale, del contro-egemonico, dell’antiestetico, del normale. Il Dossier Islanda che segue la sezione iconografica è un innesto ibrido, di carattere letterario, costituito da tre microaree: un commento critico a Gente indipendente (1935) di Halldór Laxness (premio Nobel per la letteratura nel 1955), un commento critico a Letters from Iceland (1937) di W. H. Auden e al libro eponimo di Jean Young, e infine l’intervista di Barbara Casavecchia a Roman Signer, artista svizzero particolarmente legato all’Islanda. Questa sezione aggiuntiva permette non solo di gettare nuova luce, con la relativa dose di paragoni e differenziazioni, sul passato della terra islandese, ma anche di estendere e impreziosire il ventaglio di lettura, conoscenze e discernimento. Rappresenta, inoltre, una modalità comparativa di attraversamento del reale che si avvale della sonda letteraria e artistica, spesso capace di rivelare ciò che la realtà medesima tende a nascondere.
2. Ai limiti del reale (fotografico)
Paesaggi dopo tutto. Il titolo che apre la sezione interamente fotografica del libro, composta da 32 foto dislocate ciascuna su una pagina singola, si colora di sfumature di significato potenzialmente varie ed enigmatiche, in special modo il dittico ‘dopo tutto’. Viene infatti da chiedersi: dopo tutto cosa? Dopo la fine di ogni cosa? Paesaggi dopo la fine del mondo? Dopo tutto, dopo ogni tentativo di accostamento, cooptazione, corteggiamento, ecco lo spettro frammentato, l’esperimento di carotaggio fotografico che cerca di restituire gli emblemi visivi del loro passaggio su quella terra o, meglio ancora, gli emblemi visivi di quel paesaggio offertosi inconsapevolmente al loro passaggio? In Islanda è la vista l’organo sensorio privilegiato e preferenziale. L’Islanda si vede, e solo dopo averla vista, solo dopo che quel vedere si è depositato e lentamente decanta e sedimenta si può tentare di comprenderla. Il racconto iconografico di Giovanna Silva è un racconto allo stesso tempo contiguo a quello precedente e però alternativo, indipendente, sprovvisto di didascalie, di coordinate, di denominazioni geografiche esplicative e perciò configurantesi in una dimensione di relativa indeterminatezza. L’assenza di un apparato testuale di supporto alle immagini evita l’irrigidimento degli stessi significanti in una definizione univoca, logicamente presente invece nella componente didascalica, che per sua natura lavora per fissare «in un messaggio linguistico la natura non linguistica del messaggio fotografico».[10] Il testo è unicamente visuale, compone una propria peculiare e speculare narrazione, parla la lingua propria delle immagini, i cui lemmi non modellano solamente un surrogato dell’esistente, ma una vera e propria cartografia dell’estremo vedere e dell’estremo possibile. Le fotografie formano un corpus affine – a tratti giustapponibile – che si innesta sul testo primario condividendone lo stesso sostrato di partenza, lo stesso ethos, da cui però poi diverge secondo un proprio ritmo costitutivo, per il bisogno di ampliare e arricchire in maniera svincolata il discorso, smettendo i panni dell’accompagnamento illustrativo e integrativo per inaugurare una traiettoria altra, parallela, per introdurre una «visione intensiva».[11] La scrittura è dedita per predisposizione intima e innata a organizzare il proprio discorso intorno all’uomo, ai suoi comportamenti, ai suoi sentimenti, alle sue relazioni. Le immagini riescono a cogliere e a imprimere l’altra faccia della medaglia, quella a cui la scrittura può solo approssimarsi senza riuscire mai a farsene specchio totalmente fedele. Se l’esprit autoriale di Giunta è prevalentemente analitico, immanente, ironico, quello che anima le foto di Silva pare votato ad una visionarietà sobria, equilibrata ma a tratti elusiva, misteriosa, tendente a restituire al reale quel disavanzo liminare di irrealtà che nasce e si produce mediante il processo di rifigurazione visuale insito nell’atto fotografico. Atto fotografico da intendere nell’eccezione conferitagli da Philippe Dubois, che ha parlato di un’«immagine-atto» che non «si limita semplicemente al solo gesto della produzione propriamente detta dell’immagine (il gesto di ‘scattare’), ma che include tanto l’atto della sua ricezione quanto quella della sua contemplazione».[12] Le foto, tranne la prima e l’ultima, compongono via via, posizionate come sono nella parte alta della pagina, tutte dello stesso formato (9,5cm x 14,5cm), una sequenza di dittici in cui viene a innescarsi un sotterraneo dialogo visuale e geometrico, per cui le immagini accostate condividono forme interne similari, panorami affini, colori della stessa tavolozza, coerenza cromatica negli effetti ombrati, omogeneo trattamento della luce, divenendo in tal modo tappe di una filogenesi reticolare che si sostanzia gradualmente. Come fossero variazioni su un tema, ciascun binomio iconografico esplora in serie, secondo una grammatica compositiva imparentata, scaglie visive di un mondo sin lì solo auscultato tra le righe di Giunta, evocative sì ma fisiologicamente impossibilitate a imprimersi e a impattare sulla retina così come riescono a fare le fotografie. Silva predilige inquadrature simmetriche, bilanciate nel rapporto tra primo piano e sfondo, in cui il soggetto principe è rappresentato quasi sempre al centro. L’estetica limpida e rigorosa che sostanzia le foto permette al focus dell’immagine di indirizzare lo sguardo del lettore e poi di lasciarlo fluttuare nell’area circostante, in cerca di nuovi appigli su cui posarsi. Osservando attentamente queste fotografie, in cui la presenza umana è assai rara, ci si rende conto con molta evidenza che l’immaginazione innescata dalle parole funziona sino a un punto-soglia che resta molto al di sotto della realtà vera e fotografabile. Una macchina parcheggiata vicino al relitto arrugginito di una nave, sullo sfondo uno specchio d’acqua e le montagne innevate. Una grande casa bianca situata nel perfetto centro del rettangolo dell’immagine. Due crateri tondeggianti, il primo costeggiato dall’acqua, il secondo fumante, entrambi sormontati da un cielo plumbeo e greve, macchiato da nubi di un grigio sfumato. Una valle brulla macchiettata di neve, al cui centro sorge una centrale rossa pervasa dai fumi, la nitidezza lattiginosa dei bianchi che confondono il sopra con il sotto e negano una netta separazione. La striscia multicolore di un arcobaleno che sembra nascere all’interno della roccia e prolungarsi poi all’infuori, verso l’altra estremità del burrone. Deserti gibbosi, distese aride di lava rappresa. Geyser che producono vapori sulfurei. Un fiume piatto che scorre lambendo le due coste di terreno scuro ai lati, tagliando orizzontalmente l’immagine. Una brughiera in primo piano pianeggiante e chiazzata di piccoli arbusti verdi, in secondo piano punteggiata da basse conformazioni rocciose dalla fisionomia pressocché tondeggiante. Piccoli laghi nati nelle convessità della roccia. Ghiacciai frammentanti il cui terso azzurrino rimanda al colore del cielo. Una montagna che spicca solitaria e puntuta. Una bolla sferica di acqua ribollente. Uno scivolo d’acqua blu che si allunga a mo’ di serpente spiraleggiante. Una vasta piscina naturale in cui numerose persone fanno il bagno, in lontananza fumi che si alzano e si disperdono nell’aria.
La natura si presta all’occhio che la spettralizza monumentale e criptica, sorprendente e altèra. I luoghi colti e rappresentati compongono un itinerario cronotopico che spazializza il tempo, perché è nella particolare conformazione spaziale e morfologica di questi stessi luoghi che il tempo disfunzionale islandese, abile a scorrere invisibile, è rimasto incapsulato e si espande in verticale sotto mentite spoglie. Anche nelle foto di Silva che compongono la seconda parte di Togliatti. La fabbrica della Fiat,[13] volume pubblicato da Humboldt nel 2020 sempre in collaborazione con Claudio Giunta, emerge – sebbene qui in maniera preponderante dal momento che i vari soggetti sono di matrice e configurazione urbana: case, palazzoni, strade – lo stesso gusto per inquadrature simmetriche, tagli rettilinei, perfetti incastri geometrici, precise articolazioni figura-sfondo, proporzione dei volumi e dei contrasti, ortogonalità delle linee, segmentazione del campo visivo. Tuttavia, se in Togliatti lo spazio appare esperito visivamente con fare tendenzialmente sistematico, catalogatorio, pronto a indugiare sugli effetti residuali della consunzione metropolitana, in Tutta la solitudine che meritate lo spazio sembra invece imporsi per vie meno dirette, meno preparate, meno confidenziali. Le piazze, le vie, le fontane, i busti, ogni differente e variopinto elemento che caratterizza i luoghi dechirichiani della città di Togliatti pare essere partecipe nella formazione di quello che Amigoni definisce «un teatro ottico»,[14] di per sé esistente solo in potenza, ma attivo e lampeggiante per l’istinto fotografico di Silva, abile a mettere in forma e ad armonizzare i volumi, gli oggetti, i corpi che gli appaiono davanti. Dal momento che la forma è «sia delimitazione dello spazio sia insieme di valori spaziali»,[15] mettere in forma vuol dire allora proporre una «struttura autonoma di articolazione del significato»,[16] ipostatizzare un nuovo processo sensoriale ed effettuale. Rispetto alle manifestazioni della città, bersagli privilegiati anche per l’evidente portato di significazione che li pervade in quanto lessico specifico di una sintassi che esiste a prescindere e perciò più conniventi a divenire eidòlon, gli spazi islandesi sembrano resistere al processo di codificazione e trasfigurazione in simulacro. Nei luoghi fotografati riconosciamo gli stessi luoghi citati in precedenza da Giunta ma l’alone di indefinibilità che li incornicia contribuisce a creare un ulteriore livello di lettura e comprensione, un’esperienza recettiva complementare e però conchiusa in sé, l’approssimazione a un mondo lunare, extraterrestre, l’attraversamento di una soglia. Per le foto di Giovanna Silva vale ciò che Giunta scrive in merito a Gente indipendente di Halldór Laxness: «la forza dei processi naturali è preponderante».[17] Instaurando un rapporto mesmerico con le asperità del circostante, operando nella direzione di una volontaria decontestualizzazione che gioca di volta in volta sulle possibilità potenziali di circoscrivere lo sguardo su di un paesaggio letteralmente sconfinato, le fotografie dismettono la mediazione prettamente testimoniale-documentaristica per istituire un panorama percettivo che, seppur in grado di comunicare per rimandi chiari col testo precedente, trova nelle aporie della presenza e nella fenomenologia dei vuoti che mette in mostra ragioni sussistenti per rendersi autonomo. Entro il perimetro di questa dialettica dicotomica le foto diventano veicoli di senso ambivalente, in cui al «sapere rappreso, raggrumato nell’istante perpetuo»[18] si alterna una pulsione intermittente che sovrasta e marginalizza la referenzialità pura dell’emanazione fotografica. D’altronde, la fotografia, prima ancora che riproduzione iconica del reale, prima ancora che testimonianza postuma di un noema, «è traccia, essa stessa materia del mondo, segno fisicamente connesso (attraverso la luce) con il referente».[19] Quelle di Silva sono foto che, in perenne oscillazione tra «l’astrazione del segno imitativo o simbolico e l’implicazione immediata, nel processo di significazione, della concretezza materiale del mondo»,[20] non vogliono comunicare, né tantomeno connotare, eppure dicono senza volerlo, comunicano proprio in virtù della loro reticenza a esprimere e a descrivere. La fredda lucidità che le immagini di Silva sembrano promanare rivela il necessario distanziamento messo in atto per inglobare nel medium il tessuto circostante, il paesaggio posto di fronte all’obiettivo, senza però soggettivizzarlo, sovradeterminarlo, renderlo simbolo o metafora. Cionondimeno, l’istanza duale, contrastiva, ellittica, depositata al fondo dell’immagine-impronta, la inscrive inevitabilmente all’interno di un movimento duplice ma non oppositivo, per cui se, da una parte, essa entra in contatto con un reale frammentato, che non può essere simbolizzato perché ha perso il legame organico col tutto che lo circonda, dall’altra, mantiene in vita un cordone, un nesso interstiziale col proprio referente che può esplicarsi come «memoria intersoggettiva, dotata di una sua forza paradigmatica, di metafora viva della esperienza che può così essere trasmessa».[21] Dal momento che la scelta e l’arbitrio individuale determinano sempre un’interpretazione, le immagini non si esauriscono nella raffigurazione obiettiva, né tantomeno la raffigurazione obiettiva si esaurisce nell’interpretazione visuale di un’esperienza. L’azione riproduttiva viene rimpiazzata sincronicamente dall’azione produttiva, in grado di plasmare una rinnovata esperienza del reale, che cessa di essere tale per divenire una realtà fotografica compiuta. La raffigurazione artistica – pittorica o fotografica –, attraverso la sperimentazione di un linguaggio assoluto e irriducibile, mediante «l’ordinamento di ciò che fa parte dello spettro estetico dell’artista»,[22] non si pone al servizio dell’esistente, del dato, ma lo re-visiona, lo re-incanta, lo risemantizza. Le immagini di Silva, per mezzo di una sospensione marcata delle manifestazioni più caratterizzanti del moderno e del contemporaneo – sovrastimolazione sensoriale, frenesia, cosalità, iperindividualismo – producono una serrata fantasmagorizzazione del reale, che contribuisce conseguentemente alla dislocazione di un reale potenziale che non potremmo conoscere altrove se non mediante questo passe-partout che è in grado di farci accedere retroattivamente a un sempre presente, il sempre presente dell’immagine fotografica. Dotate di una spiccata figuralità, quasi latente, che pare tendere e svilupparsi verticalmente nell’immoto fotografico, le fotografie incorniciano perfettamente lo straniamento della solitudine, dell’isolamento che si fa presenza insostituibile e al contempo disancorano l’analogia totalizzante col reale fenomenico per ispessirne le sfumature di senso, per raddoppiarne anagogicamente gli enigmi visivi. La densità che abita le immagini è «il risultato del sovrapporsi e del coabitare di indizi che agiscono all’interno di una combinazione particolare»,[23] presenze evanescenti che comunicano attraverso un contrappunto serrato, testimoniando «il dislocarsi di un processo, di una prassi, di un’azione».[24] Le fotografie sono allora percorse da forze centripete, nel medesimo istante gravate come sono dall’estrema contingenza, impossibilitate a trascendere verso un’altra cosa[25] e però, oltre la qualità intrinsecamente attestativa ed empatica, collegate a doppia chiave a una «valutazione del mondo».[26] Del resto, gran parte dell’attrattiva che le fotografie esercitano su di noi risiede nella loro capacità di offrire contemporaneamente «un rapporto da intenditore con il mondo e un’accettazione indiscriminata del mondo stesso».[27] All’interno di queste scenografie aliene, regioni di una natura solo raramente incisa dalla presenza dell’umano, il punctum di matrice barthesiana si cela paradossalmente nell’esatta assenza del punctum. Lo sguardo vaga in cerca di un centro calamitico ed epifanico ma è destinato a rimanere deluso. Esiste di certo un centro focale ma esso non si trasforma mai in metonimia, in ponte per un dialogo votato a svolgersi oltre i confini temporali e materici della fruizione. L’impossibilità di fissare un soggetto centrifugo, rivelatorio, agglutinante, che si allunghi oltre la bidimensionalità del supporto fotosensibile emancipa, da un lato, le foto dall’obbligo di piegarsi a un significato aggiuntivo ed extrafotografico, non determinato dall’occhio della fotografa, dall’altro, l’osservatore dalla necessità pressante di trovare qualcosa – un’eccezionalità, uno scarto, un surplus – che giustifichi a tutti i costi l’esistenza di una certa immagine, dal bisogno di carpire i motivi formali che soggiacciono alla scelta di una specifica inquadratura, di un particolare taglio o scorcio. La mancanza del punctum permette di sconfiggere la tensione finalistica che abita l’occhio dell’osservatoree e allo stesso tempo consente di accedere a uno stato contemplativo. La disponibilità alla contemplazione (dal latino contemplari: attrarre nel proprio orizzonte) è conditio sine qua non «affinché la percezione viva»[28] si modelli in noi.
1 C. Giunta, G. Silva, Tutta la solitudine che meritate, Milano-Macerata, Humboldt Quodlibet, 2014, p. 35.
2 S. Ragucci, ‘Perché amare l’Islanda?’, Doppiozero, 9 maggio 2014 <https://www.doppiozero.com/materiali/clic/perche-amare-lislanda> [accessed 23.01.2021].
3 P. Virilio, Città panico, Milano, Raffaello Cortina, 2004, p. 10.
4 Ibidem.
5 R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, Palermo, Edizioni Novecento, 1994, p. 79.
6 S. Ragucci, ‘Perché amare l’Islanda?’.
7 C. Giunta, G. Silva, Tutta la solitudine che meritate, p. 12.
8 S. Albertazzi, In questo mondo. Ovvero, quando i luoghi raccontano le storie, Roma, Meltemi, 2006, p. 17.
9 G. Marrone, Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica del testo, Torino, Einaudi, 2000, p. 313.
10 E. Cappellini, Michel Tournier e la didascalia, tra immagine, realtà e scrittura, in S. Albertazzi, F. Amigoni (a cura di), Guardare oltre. Letteratura, fotografia e altri territori, Roma, Meltemi, 2008, p. 127.
11 L. Moholy-Nagy citato da S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine della nostra società [1973], trad. it. di E. Capriolo, Torino, Einaudi, 1992, p. 2.
12 Ph. Dubois, L’atto fotografico, a cura di B. Valli, Urbino, QuattroVenti, 1996, p. 17.
13 C. Giunta, G. Silva, Togliatti. La fabbrica della Fiat, Milano, Humboldt Books, 2020, p. 55 sgg.
14 F. Amigoni, L’ombra della scrittura. Racconti fotografici e visionari, Macerata, Quodlibet, 2018, p. 35.
15 F. Scrivano, Lo spazio e le forme. Basi teoriche del vedere contemporaneo, Firenze, Alinea, 1996, p. 69.
16 Ibidem.
17 C. Giunta, G. Silva, Tutta la solitudine che meritate, p. 120.
18 J.P. Sartre, Immagine e coscienza. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione [1940], trad. it. di E. Bottasso, Torino, Einaudi, 1948, p. 138.
19 C. Mazza Galanti, Paradigma indiziario e fotografia: Sebald, Modiano, Perec, in S. Albertazzi, F. Amigoni (a cura di), Guardare oltre, p. 90.
20 Ibidem.
21 R. Vecchi, Intermittenti presenze: la traccia, l’immagine, il subalterno, in S. Albertazzi, F. Amigoni (a cura di), Guardare oltre, p. 204.
22 F. Scrivano, Le forme e lo spazio, p. 84.
23 Ivi, p. 149.
24 Ibidem.
25 Cfr. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia [1980], trad. it. di R. Guidieri, Torino, Einaudi, 2003, p. 6.
26 S. Sontag, Sulla fotografia, p. 77.
27 Ivi, p. 72.
28 A. Gentile, Apparizioni, Milano, nottetempo, 2020, p. 16.