3.3. Non stare più nella - propria - pelle

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A ricordarci che le ʻquestioni di pelleʼ hanno una rilevanza di genere, una testata come ʻBellaWeb.itʼ allorquando si preoccupa non solo di fornire alle sue lettrici – e ai suoi eventuali lettori – opportune indicazioni sulla cura dell’epidermide femminile ma anche di informare sulle locuzioni correlate. Nel riportare il significato della formula «non sto più nella pelle», sulla scorta del Dizionario dei modi di dire Hoepli, ne riconduce la genealogia alla nota favola di Fedro «dove la rana per diventare più grossa si gonfia fino a scoppiare» [fig. 1].

L’apologo, nella sua componente pedagogico-punitiva, non sembrerebbe in linea con la definizione data invece dell’«attesa frenetica di qualcosa di piacevole con grande gioia e impazienza», oppure della «manifestazione di una tale eccitazione da sembrar sul punto di schizzare fuori dalla pelle, incapaci di trattenersi». L’accostamento è però funzionale a rilevare il portato stratificato dell’espressione, facendoci muovere così tra le pieghe delle parole come tra le pieghe della pelle, invece che schiacciarci nella chiusura perentoria della definizione. Da un lato si richiama infatti la valenza identitaria connessa al binomio essere/apparire, dove la muta è riconducibile tanto a una condizione di costrizione che porta a ʻscoppiareʼ, quanto a un cambiamento espressamente ricercato, volto a lacerare la pellicola che dà forma e quindi anche riconoscibilità in un ordine simbolico; dall’altro, si espone il ventaglio emozionale che induce o accompagna tale muta, dal momento che le pelli, tutt’altro che materiale inerte, vibrano e respirano.

Come sontuosamente ʻdispiegataʼ da Giuliana Bruno nel suo recente Superfici. A proposito di estetica, materialità e media (2014), la pelle declinata quale superficie pellicolare è l’epidermide ma anche quelle altre pellicole che rivestono «come una seconda pelle» il derma, drappeggiando quest’ultima nell’intreccio delle carni, dei muscoli rivestiti e pertanto modellati, negoziando e riconfigurando spazialità in cui implodono le designazioni di interno/esterno, nelle valenze individuali, soggettive o comunitario/sociali. Tra le pellicole, in primo luogo la stoffa, il vestito, l’abito, quindi anche il paesaggio e le architetture, in una costante configurazione di spazi in ambienti, quali esiti dinamici di tessuti relazionali delle diverse componenti in campo.

Questo gioco tensivo impregna la sequenza visionaria che interviene verso la fine del film Vergine Giurata di Laura Bispuri (2015), il cui portato eccede la mera funzione descrittiva aprendo uno squarcio di temporalità epifanica nella calibrata scansione diegetica. Composti e scomposti in combinazioni d’insieme, colti in porzioni e segmenti pellicolari ʻpictiʼ, pigmentati, decorati [figg. 2-4], superfici sottoposte alla spinta, alla pressione o all’abbraccio del liquido cui si abbandonano, i corpi delle bagnanti e dei bagnanti trasfigurano l’ambiente della piscina in cui avevamo visto impegnata in rigorosi allenamenti la giovane Jonida. L’atmosfera acquea e immersiva conferisce a questo spazio filmico una valenza intimamente ʻumoraleʼ: umori intesi come secrezioni e come disposizioni che scaturiscono e talora trascinano le personagge e i personaggi con il loro carico di pulsioni, esigenze, inquietudini.

Di qui la dimensione organica, pellicolare, dell’architettura proposta da Bispuri posta sotto il segno di una corporeità espansa, in cui gli umori fluiscono tra gli spazi e i corpi individuali. La pelle – derma e pellicole – ne costituisce il medium: è la bianca benda che preme il diafano petto ed è il reggiseno che sostiene, non il leggero peso delle mammelle, ma l’incertezza eccitante di una nuova fase; ancora, sono gli abiti che impostano gesti, posture, sguardi. Principale polo aggregatore di una tale corporeità espansa, in cui si innesta l’attenzione riservata alle ambientazioni e al paesaggio, è certamente la figura di Hana/Mark interpretata nella sua fase adulta da Alba Rohrwacher, ma riguarda anche le altre figure. In essa la pelle si fa superficie di negoziazione di quello che potremmo definire il tropo dell’accoglienza, evocato nelle parole rivolte da Hana/Mark alla sorella, con cui il film si congeda: «Grazie di avermi accolta a casa tua quando non ero niente».

Letto frequentemente a sancire l’approdo di una traiettoria che ricompone la devianza/zione imposta dall’ordine sociale, ripristinando l’essenza primigenia al completamento di un percorso esperienziale del sé, dischiuso dal processo metamorfico intermedio, tale ringraziamento può, in una diversa calibrazione di accenti, suggerire una più complessa geografia rispetto a quella evocata dall’ambientazione ripartita (Albania, Italia) che, come un’esca, ha catturato la ricezione, promuovendone una lettura dicotomica spesso raccolta anche da analisi che opportunamente ne hanno scombinato le attribuzioni schematiche.

Se materia pulsante della proposta di Bispuri è il corpo – quello della/del protagonista e quello dell’attrice, la cui torsione scandisce l’intero film –, esso è da intendersi quale componente di una corporeità definita da una spazialità d’insieme che costantemente saggia l’elasticità duttile e la tenuta strutturale della propria pelle e delle perimetrazioni da questa disegnate.

Sotto questo segno si colloca la scena in cui una massiccia figura maschile scende dai monti (Gjergj/Bruno Shllaku) sostenendo tra le braccia una ragazzina dai lunghi capelli (Hana/Drenka Selimaj). Quel corpo di adolescente, tracciato dal peso abbandonato che grava sulle forti membra dell’adulto, dalle linee disegnate dalle vesti e dalle chiome, avrà un suo posto nel letto occupato, nella casa dell’uomo, da un altro corpo adolescente (Lila/Dajana Selimaj). Spetta dunque a questo gesto, che dispone la ripartizione inedita di uno spazio domestico intimamente corporeo, sancire una sorellanza e una genitorialità foriera di prossimità affettive, cui si associa l’atto di nominazione: «Mi chiamo Hana» [fig. 5].

Lungi dal costituire un processo indifferente o routinario, l’accoglienza implica una non anodina gestione dello spazio abitativo e abitato –fisico o emotivo – a fronte dell’ingresso di un’entità non contemplata. La stabilità dell’ambiente così riplasmato si definisce nelle interazioni delle parti, che a loro volta sono invitate a modellare reciprocamente la propria spazialità in una prospettiva di coesistenza che, a differenza di quanto si dà nella valenza temporanea attribuita all’ospitalità, deve affrontare il logorio di un orizzonte di permanenza. Così, l’affacciarsi inatteso di Mark (Alba Rohrwacher) all’uscio dell’abitazione italiana di Lina imporrà di intervenire nello spazio domestico e in particolare della stanza di Jonida (Emily Ferratello), la sua giovane e irrequieta figlia. Un luogo più conformemente ospitale è quello, del resto, verso cui il padre vorrebbe spingere quella sua figlia dalle disposizioni eccedenti: «Vai anche tu, cerca il tuo posto» è l’invito, quasi una preghiera, che egli rivolge a Hana al tempo della fuga di Lila verso l’Italia. Ma allora per Hana il ʻproprio postoʼ si trovava, malgrado tutto, nel villaggio albanese, accanto a quell’uomo che l’aveva accolta in un’altra genitorialità. È invece nel vuoto lasciato, e non altrimenti occupato, dalla morte di questa seconda coppia genitoriale che si fa strada l’urgenza della lacerazione, del cambio di pelle: non un ritorno a uno stadio primigenio e costitutivo, dunque, ma l’esigenza di un nuovo assetto, sollecitato dalla smagliatura della trama relazionale.

In questa cornice la ʻmessa in formaʼ, che attiene tanto al giuramento di Hana/ Mark quanto alla disciplina sportiva che Jonida impone al proprio corpo ʻesuberanteʼ scolpendolo nelle geometrie previste dalla coreografia ginnica, prospetta uno stadio processuale di interazione, dalle valenze più o meno aggressive e repressive in relazione alla flessibilità del set in cui agisce. In questa direzione, senza alcuna accondiscendenza per la violenza connessa, lo stesso statuto di ʻvergine giurataʼ traduce entro la disposizione normativa del codice l’aporia che si dà nell’accoglienza di un’eccedenza non transitoria che impone pertanto di essere com-presa, o espulsa.

Il «niente» a cui Hana/Mark fa riferimento non è allora dissimile dallo stato in cui riversava Hana bambina trasportata dalle forti braccia di un uomo prima che, riordinato lo spazio domestico, egli diventasse suo padre. Il ʻnienteʼ cui Lina e la sua famiglia sono andati incontro è, dunque, una delle temporalità proprie di una spazialità organica e metamorfica, definita in quanto tale non da un proprio ʻessereʼ raggelato ma dalle disposizione di quanto, abitandola, concorre a costituirla.

Scorticata e pertanto inospitale è invece la scena di Favola di Sebastiano Mauri (2018), trasposizione cinematografica dell’omonimo spettacolo FAVOLA. C’era una volta una bambina, e dico c’era perché ora non c’è più scritto e diretto da Filippo Timi, che ne è l’interprete principale insieme a Lucia Mascino e Luca Pignagnoli nell’allestimento prodotto per il Teatro Franco Parenti. Al centro campeggia la performance di Filippo Timi en travesti, che si alimenta del confronto vivo col corpo attorico: vigoroso, imbrigliato nei vitini di vespa, la massa piroettante sui tacchi, la muscolatura e i tratti intagliati impegnati nella malia produttiva di una fascinazione in cui l’essenza muliebre, tanto codificata quanto imperitura, non offusca il sottotesto maschile.

Le geometrie a tinta pastello e i panneggi floreali nella morbidezza delle tonalità e dei disegni dissimulano il metallo della struttura – del design come degli abiti – [figg. 6-7], contenitiva dei volteggi di Mrs Fairytale, come una gabbia per un canarino. In questa scena ʻscorporataʼ i corpi sono impossibilitati a trasmettere i fremiti che li percorrono, sino a ridisegnarne la superficie che si distende sulle carni e sulle geografie emozionali. La scena è infatti sprovvista dell’elasticità pellicolare: superfici di altra materia la contornano e non contemplano il ʻnullaʼ dell’accoglienza che negozia i propri territori. Adamantina reclama il ripristino degli equilibri che insistono massivamente nel suo perimetro: sia essa l’eliminazione fisica (l’uccisione del marito greve e violento sotto la facciata perbenista borghese) sia la gioiosa anarchia proposta nel finale dal gruppo di transfughi, non a caso in una cornice naturale dai tratti onirici, esente, si auspica, dalla costrizione di architetture scorticate.

Del resto, il sogno e l’illusione costituiscono nella narrazione i soli spazi in grado di accogliere desideri e inquietudini di Mrs Fairytale. Valicando i confini della diegesi, il cinema occupa in tale geografia un posto privilegiato nella sua doppia valenza di fabbrica dei sogni, al contempo disciplinante e sovversiva. Ce lo ricorda il fuoco incrociato dei rinvii chiamati in causa, sin dalla pièce teatrale, da precise citazioni, da riconoscibili allusioni, oppure dalle evocazioni liberamente mobilitate dagli immaginari spettatoriali individuali.

Lo schermo quale superficie «impressionabile» (L.U. Marks), esposto alla visione aptica di spettatrici e spettatori colti non nell’astrazione di codificazioni categoriali ma nella contingenza di contesti e vissuti, continua ad essere abitato da ʻquestioni di pelleʼ e a vibrare al contagio epidermico tra attrici, personagge e spettatrici. Così, nell’intensa testimonianza di Igiaba Scego, schermato il bagliore luminescente delle tante ʻragazze dalla pelle di lunaʼ [fig. 8] si può ingaggiare il corpo a corpo con il cinema del presente e la sua storia, mettendone a nudo di volta in volta lo statuto resistente del dispositivo o la natura relazionale, negoziale, rispondente, pellicolare delle sue superfici.

 

 

Bibliografia

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