Quando la memoria prende ‘corpo’ nello spazio. Francesco Grasso oltre Franchina

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Attraverso due opere letterarie che intrecciano l’autobiografia al racconto di memoria collettiva, si ripercorre la costruzione dell’identità di genere dello scrittore ‘prostituto’ Francesco Grasso intrecciata strettamente all’identità di un quartiere, a partire dai confini che separano ed escludono tanto uno spazio fisico quanto uno spazio identitario. In questa ricostruzione si vuole dimostrare come la parola scritta acquisisca un valore ‘sovversivo’ perché permette a chi scrive di svelarsi proprio nell’atto estetico in cui il corpo è invisibile, a differenza delle altre opere audiovisive (cinema, web serie, teatro), dove la visualità a cui il corpo è esposto spinge a una rivelazione che finisce per essere un doppio velarsi.

Through two literary works that intertwine autobiography with the collective memory, the gender identity’s construction of the writer 'prostitute' Francesco Grasso is closely traced back to the neighborhood’s identity, starting from the boundaries that separate and exclude so much one physical space as an identity space. In this reconstruction we want to demonstrate how the written word acquires a 'subversive' value because it allows the writer to reveal himself precisely in the aesthetic act in which the body is invisible, unlike the other audiovisual works (cinema, web series, theater), where the visuality to which the body is exposed leads to a revelation that ends up being a double veil.

Che un corpo attraverso la sua identità sessuale costruisca una relazione significativa con lo spazio è ormai un dato assodato e indagato. Basti pensare sia ai più recenti studi dei geografi umani postmoderni che ridefiniscono lo spazio non solo come luogo in cui accadono fisicamente gli eventi, ma soprattutto come rete di relazioni intersoggettive; sia più specificatamente agli studi sull’orientamento sessuale che riguardano il concetto stesso dell’abitare gli spazi e la condivisione di questi con le persone verso cui si orienta il desiderio sessuale.[1] Che il rapporto con questo spazio, allargato fino a identificarsi con un quartiere intero, diventi il nucleo narrativo manifesto di un’opera autobiografica e di memoria di uno scrittore che ha intrecciato la sua identità di omosessuale, travestito e ‘prostituto’ al luogo abitato, è cosa rara nello scenario letterario contemporaneo. E appare dunque di estremo interesse proporre una lettura di questa duplice e inscindibile costruzione dell’identità della figura che scrive e dell’identità dello spazio, da analizzare su un piano che si allarga fino a plasmare lo scrittore/personaggio/attore. 

Federica Castiglione, Specula speculorum, foto di scena, 2017

 

 

1. Le altre e il quartiere per parlare di sé

Francesco Grasso – che utilizza il nome Franchina non soltanto nella sua vita da travestito ma anche quando diventa personaggio di un film, di uno spettacolo teatrale, di una web serie, di un’intervista televisiva, di una canzone – comincia a scrivere nel 2000, in seguito alla grande retata che chiude le case del quartiere San Berillo nella città di Catania dove si prostituisce, dando così vita alla sua prima opera Davanti alla porta. Testimonianze di vita quotidiana nel quartiere catanese di San Berillo, pubblicato nel 2010 (con una seconda edizione nel 2012) dal Museo Civico Etno-Antropologico e Archivio Storico “Mario De Martino”, a cui farà seguito Ho sposato San Berillo, pubblicato nel 2018 da Trame di quartiere.

Le due opere si presentano entrambe come un insieme di piccoli quadri che hanno la duplice veste di scrittura autobiografica, centrata anzitutto sulla ricostruzione dell’identità di genere e di orientamento sessuale dell’autore, e di restituzione della dimensione spaziale in cui tale identità e tale orientamento hanno avuto modo di essere esplicitati, tracciati, costruiti, vissuti. A seconda di come vengano di volta in volta intrecciati e gerarchizzati questi due propositi, al lettore potrà apparire ora più forte il ‘patto autobiografico’ ora più incalzante il carattere ‘topo-cronachistico’ che mette in luce strutture temporali più complesse dell’immediata visione retrospettiva della scrittura autobiografica.[2] In tutt’e due le opere c’è di certo la volontà di raccontare qualcosa che si è vissuto: in Davanti alla porta i tratti autobiografici sono da rintracciare come pennellate leggere che impregnano l’intero sfondo dei 15 brevi racconti di «esperienze, sensazioni ed emozioni, fatti drammatici, comici, paradossali [vissuti] insieme alle altre»;[3] in Ho sposato San Berillo, invece, il racconto di sé diventa dipinto materico ordinato secondo un percorso cronologico e rintracciabile già, oltre che nell’imperante prima persona del titolo, da altri due elementi paratestuali: i titoli dei capitoli e l’uso del corsivo. Scorrendo l’indice di Davanti alla porta ci si rende subito conto di come non ci sia traccia dell’autore, quasi a dar l’impressione che l’opera abbia una sorta di carattere antropologico (Il quartiere, La legge Merlin, I clienti, Persone ed episodi, La discriminazione, L’igiene, La femminilità, etc.). In Ho sposato San Berillo, per contro, troviamo alcuni titoli dei capitoli eloquentemente riferiti all’autore/personaggio (Non lavarti con troppa frequenza, La strada ha scelto me, Una Franchina e un Michele, Se ho amato qualcuno, io non lo ricordo). All’interno poi dei capitoli in cui l’autore narra di sé si trova una distinzione tra una prima parte e una seconda, quest’ultima caratterizzata dall’uso del corsivo, al fine di rendere esplicito al lettore che dalla narrazione cronachistica di eventi autobiografici si passa alla riflessione e alle considerazioni dell’autore.

Di una più consapevole scrittura di carattere autobiografico in questa seconda opera è forse segno anche la scelta delle fotografie che corredano il testo: se in Davanti alla porta troviamo scatti che ritraggono l’autore, seduto o in cammino, soltanto di spalle, in Ho sposato San Berillo è possibile guardarne il volto, in alcuni casi con gli occhi dritti a fissare l’obiettivo.

Svadas, Franchina, immagine contenuta in Ho sposato San Berillo, p. 88

Per ultimo, rimanendo sempre sul livello paratestuale, l’acerbo e ampio profilo di Grasso scritto in prima persona nella prima opera (con l’emblematico titolo Due parole sull’autore) lascia il posto paradossalmente nella seconda ad un asciutto profilo biografico, corredato da una sua citazione, quasi a dimostrare la presenza di un’acquisita dignità letteraria conferita all’autore di un’autobiografia. Di certo Ho sposato San Berillo è complessivamente opera più compiuta rispetto alla prima dal punto di vista narrativo oltre che sin da subito dalla delineazione del proponimento:

 

Forse non riuscirò in pieno nel mio intento descrittivo/narrativo e forse talvolta mi lascerò prendere la mano dalla narrazione, perdendomi in digressioni strane, ma in fondo anche l’assenza di linee logiche nel racconto non fa altro che riflettere un po’ la vita di questo quartiere che sfugge alle regole comuni.[4]

 

La volontà di Grasso rimane dunque sempre duplice: parlare di sé per parlare di un luogo e di chi lo abita, ma in fondo parlare di quel luogo anche per poter parlare di sé. Di sé e degli altri ‘attori’ rilevanti nella sua vicenda biografica, i cui tratti costellano le due opere, a volte prendendo perfino la forma di piccoli e autonomi racconti-ritratti. Questa dimensione può considerarsi solo abbozzata nella prima opera, dove a un generico capitolo intitolato Persone ed episodi ne segue un altro più strutturato, Figure da ricordare, in cui vengono descritte sei figure che lo scrittore ritiene significative per illustrare la vita del quartiere e della prostituzione (La fascista, Gabriella Ferri, Maria, Matilde, Lalla e Lele), ma si tratta di racconti molto brevi in cui i profili sono appena accennati, a volte perfino pretestuosi. In Ho sposato San Berillo invece i ritratti acquistano una centralità differente, sono più strutturati, diventano davvero inserti autonomi, anche in questo caso con un’evidenza più marcata già a partire dai titoli: Antonina detta Susy, La terra trema sotto i piedi di Gregorio, Il profilo greco di Ramona, Il rimpianto di Pinuccia, Una vita senza limiti, Insuperabile Franco. Un rilievo diverso guadagna la figura di Michele, che l’autore presenta già nel capitolo Una Franchina e un Michele, che anticipa il suo cambio di status all’interno della narrazione. Tra i racconti-ritratti presenti in entrambe le opere, Michele è l’unico cliente che assume forma e nome e, soprattutto, con un estremo atto eterobiografico di cui diremo in seguito, è il solo a prendere la parola in un capitolo autonomo (Il contributo di Michele), anche se poi il suo discorso non riguarda soltanto il rapporto con l’autore ma la complessa vicenda che unisce un’identità ad un quartiere.

 

 

2. Il confine e l’attesa

In più occasioni, oltre alle parole presenti nelle opere,[5] lo scrittore racconta l’origine e l’urgenza del suo scrivere mettendo sempre in risalto come spartiacque fondamentale la data del 14 dicembre del 2000, quando vengono murate le case e cacciate moltissime prostitute e prostituti dal quartiere (non a caso il giorno prima del vertice Onu sulla tratta degli esseri umani che si sarebbe tenuto a qualche centinaio di metri dal quartiere). Grasso poi riconosce espressamente, nell’ottava puntata di San Berillo Web Serie Doc 1 del 2016, il sentimento della malinconia come scaturigine della sua scrittura:

 

Quella malinconia così dello stesso quartiere, dello stesso posto che per anni io avevo visto pieno di entusiasmo, di gioia... era diventato un cimitero. E questo mi ha reso malinconica, non soltanto a me ma anche alle altre. E sentivo questa malinconia e così per non morire anch’io dentro questa malinconia mi sono messa a scrivere, a raccontare ciò che era stato per me il quartiere, con tutte le sue avventure, disavventure, incursioni della polizia, le ragazze che avevo conosciuto, tutte le esperienze belle e brutte che si possono avere.[6]

 

In interviste precedenti, a seguito della pubblicazione del primo libro, Grasso aveva avuto modo di dichiarare ai suoi lettori come il fine della sua scrittura fosse legato alla volontà di ricordare il quartiere così come lo aveva vissuto nei vent'anni precedenti e destinato a lasciare una testimonianza della sua vita e del quartiere ‘a luci rosse’ per le generazioni future.

Se lo stato emotivo vissuto in prima persona dà ragione dunque della genesi di una scrittura autobiografica – pur se organizzata in maniera acerba sul piano narrativo, in particolare nella prima opera –, il senso di responsabilità verso il lettore declinato nell’ottica della testimonianza pone al centro la questione della scrittura intesa come atto di memoria che da individuale vorrebbe farsi collettiva, nella misura in cui tende a delineare l’identità di un gruppo sociale e non soltanto di chi scrive, elemento visibile sin dalla genesi stessa della scrittura: «e questo mi ha reso malinconica, non soltanto a me ma anche alle altre». Il palcoscenico su cui Francesco Grasso fa muovere le parole con cui compone le sue due opere letterarie è costituito dunque dalle coordinate di quello spazio fisico che da sfondo diventa occasione, materia narrativa, personaggio, e del tempo che si rivela nella funzione volistica della memoria che tende ad elevarsi verso una dimensione collettiva. Oltre ad osservare da vicino la costruzione di tale palcoscenico, ciò che qui si vuole indagare è come questa struttura diegetica costruisca e riveli l’identità performata dello scrittore – del travestito, del prostituto – e del quartiere, come si faccia corpo e diventi ‘palcoscenico incarnato’ (si rivesta di carne e si riempia di sangue, direbbe Bachtin, il quale ha scientemente perlustrato le implicazioni semantiche del cronotopo, senza spingersi però fino a indagare quanto queste possano determinare anche la costruzione di un’identità di genere nella sua performatività);[7] e in quanto tale, essendo frutto di un’attività intellettuale, come questa struttura narrativa risponda al nome di Francesco Grasso e non di Franchina, come accade invece nell’altro palcoscenico, quello della strada, ma anche in quello del film, del teatro, della canzone, in cui le cose accadono o vengono fatte accadere da un fotografo o un musicista o un regista. Solo in un’altra occasione è possibile trovare il nome di Francesco, anziché quello di Franchina, ed è a firma dei cicli di discussione da lui tenuti intorno al tema del vangelo cristiano (Il Vangelo ritrovato), e non è un caso che in ognuno di questi incontri la discussione venga aperta da Francesco con la lettura di un testo da lui scritto che occupa circa la metà dell’incontro, e dunque anche qui all’interno di un’operazione letteraria.[8]

L’operazione letteraria compiuta da Grasso è già un atto che valica i limiti dell’autobiografia per farsi biografia collettiva tendendo a colmare il divario tra la vita vissuta dall’individuo e la vita vissuta dalla collettività e innestando un rapporto dialettico tra personale e collettivo. Ciò è già visibile nella prima opera e non soltanto nella sezione dedicata alle Figure da ricordare, dove, come si è accennato, prendono corpo dei brevi ritratti di persone con cui l’autore ha condiviso la vita nel quartiere; l’intero testo è infatti attraversato da una tensione plurale e così i singoli episodi servono a mo’ di esempio per far respirare al lettore la vita del quartiere con i suoi attori e attrici protagonisti, le loro interazioni, la loro quotidianità.

Il tentativo di ampliare il racconto della propria vita per contenere quella degli altri ritenuti simili, perché accomunati da uno spazio e da un tempo, arriva fino all’annessione di un capitolo scritto da un’altra mano in Ho sposato San Berillo. Il capitolo in questione è opera di Michele – uno pseudonimo inventato dall’autore a coprire il vero nome di un cliente di Franchina –, lettore del suo primo libro, suo instancabile collocutore «prima, durante e dopo ogni rapporto sessuale», ma anche impulso per ritornare a scrivere e quindi motore della seconda opera. Grazie a lui Grasso decide di continuare a «soffermarsi sulla sua condizione di uomo, di donna, di travestito e di puttana».[9] Questa modalità di scrittura che comprende all’interno uno scritto appartenente ad un altro autore (completamente autentico? rivisitato o riscritto dall’autore il cui nome campeggia unico sulla copertina?) minaccia in qualche modo l’unitarietà dell’io che racconta, ovvero il carattere principe del genere autobiografico, come una trasgressione che rende inevitabilmente plurimo il testo, mediato dalle soggettività di più individui e quindi intersoggettivo.

Anche le parole di Michele ci appaiono intrappolate dentro le coordinate dello spazio e del tempo, perché ciò su cui più indugia, al netto delle sue riflessioni e dei suoi giudizi sui sentimenti e sulla sessualità, è il paesaggio sonoro e visivo del quartiere e delle sue strade accostato agli interni delle stanze in cui si consumano i rapporti mercenari del sesso e soprattutto l’enunciazione della cifra a suo dire più indicativa del tempo vissuto in quel luogo, differente dal resto della città, «la prima regola temporale attorno alla quale ruota questo microcosmo del sesso»:[10] l’attesa, da leggere non soltanto sull’asse orizzontale dello scorrere del giorno (l’attesa del prossimo cliente), bensì anche sull’asse verticale dello scorrere dell’esistenza (l’attesa di un amore, di una famiglia, di un sentimento autentico). In qualche modo parlando dell’attesa Michele enuncia un dato cronologico presente in tutte le pagine di Grasso, come una specie di non-tempo che fa da corrispettivo a un non-luogo sul piano spaziale, ovvero il confine. Ritroviamo quasi come in un manifesto poetico i due elementi cronotopici connessi tra loro in un altro capitolo della stessa opera in cui lo scrittore scrive:

 

Ho scoperto che c’è un piccolo spazio nei nostri ‘bassi’ che è il confine tra la casa e la strada e che in dialetto è detto pisolu. […] questo spazio che non è ancora casa né più strada è tuttavia nello stesso tempo casa e strada, è lo spazio del nulla e del tutto, vi si sta a riposo e in allerta, se giro le spalle alla strada c’è l’immobilità del mio letto, delle sedie e di tutto quanto intorno, se do le spalle alla casa c’è il movimento dei passanti, il suono delle voci, il dinamismo della strada.
Questo foulard di pietra appena rialzato che per tutti è solo un punto di passaggio è per me il luogo dello stare, delle lunghe attese fatte di ore, giorni e anni.[11]

 

L’attesa sta al tempo come il confine sta allo spazio: così come il confine (lo spazio ‘davanti alla porta’, la ‘soglia’, il ‘pisolu’) è quel non-luogo che sta tra due luoghi tangibili, allo stesso modo l’attesa è lo spazio temporale che sta tra due tempi riconoscibili, tra il tempo che è già avvenuto e quello che dovrà ancora avvenire ed è quindi di fatto un non-tempo. Di attese e di confini parlano i ricordi e le testimonianze contenuti nelle due opere e la ragione di ciò ci sembra rinvenibile nella volontà dell’autore di dover restituire l’immagine di un luogo, di un quartiere, che è sospeso temporalmente e fisicamente all’interno della città, in quanto spazio sessualizzato dove le identità di sesso, genere, desiderio, orientamento sessuale che ivi si manifestano vengono lette e riconosciute esse stesse dal mondo esterno come sospese.

A dimostrazione di ciò ci vengono in soccorso non soltanto gli studi sulla sessualizzazione dello spazio e la spazializzazione del sesso, ma anche contributi di autori che a partire dalla propria esperienza di vita (e di genere) hanno raccontato e testimoniato la loro condizione esistenziale. Si pensi in particolare, ma solo per fare un esempio, alle opere di Porpora Marcasciano, la quale spesso indugia sulle conseguenze che discendono dai perimetri tracciati intorno allo spazio del privato rispetto a quello pubblico in cui è possibile mostrare la fluidità identitaria, soprattutto transgender, senza correre il rischio di essere ‘scartati’, allontanati, rimossi, e di come spesso lo spazio della prostituzione diventi il solo campo riconoscibile: «la prostituzione era lavoro, vocazione, spettacolo e dramma, mezzo e fine, rito, regola, segno. Era marchio di riconoscimento. Era luogo e tempo, nonostante restasse un non luogo inserito in tempi non riconosciuti», e ancora: «il travestimento era di per sé oltraggio e provocazione – chiaramente quando questo era in luogo pubblico –, ma stabilire quale sia o debba essere lo spazio pubblico resta comunque discrezione di chi ne ha tracciato il perimetro e la distanza dal privato».[12] Ciò che nelle opere del travestito catanese riesce però a trascendere il confine tra spazio pubblico e spazio privato è l’allargarsi del perimetro del privato verso l’intero quartiere, di cui viene registrata e restituita la peculiare identità socio-culturale. Le foto che completano le opere di Grasso – soprattutto la prima – ritraggono Franchina che percorre le strade di San Berillo perché la sua identità è strettamente correlata ai margini del sobborgo. Questo significa giungere a spostare il confine della negazione e dell’invisibilità dalla casa a un quartiere; all’identità singola relegata al di qua della propria porta dello spazio privato viene concesso di oltrepassare la porta e percorrere le strade pubbliche solo perché è l’intero quartiere ad essere negato, relegato, invisibile, chiuso semanticamente al resto della città per i significati che porta, perché margine della diversità e della prostituzione.

Seguendo il ragionamento di Antosa, non si tratta di aver creato condizioni per permettere di vivere liberamente la propria identità di genere e la propria sessualità, ma soltanto di aver creato un nuovo closet, per dirla con Sedgwick:

 

Coloro che escono allo scoperto ed esperiscono liberamente la propria sessualità sia negli spazi privati che in quelli pubblici destabilizzano l’apparente normalità/naturalità dello spazio eterosessuale e – contestualmente – producono un nuovo spazio di rappresentazione e di visibilità [...]. Detto altrimenti, essi mostrano pubblicamente la natura artificiale e performativa degli spazi etero-sessualizzati nonché l’inefficacia della dicotomia pubblico/privato. Adattando la celebre espressione di Butler, in cui lei parla di «atti corporei sovversivi», David Bell e Gill Valentine parlano di «atti spaziali sovversivi», che hanno il fine di connettere la performatività delle identità di genere con la costruzione dello spazio, svelandone la natura sessualizzata e fortemente connotata sul piano di genere.[13]

 

Chi vive, ama e lavora a San Berillo non ha dunque, secondo questa lettura, compiuto un «atto spaziale sovversivo», neppure Franchina. Al contrario però Francesco Grasso, con la sua scrittura e forse inconsapevolmente, ha dato le mosse perché l’atto sovversivo potesse quantomeno avere inizio e non perché attraverso la diffusione del libro e le presentazioni in giro per l’Italia abbia contribuito a far conoscere il quartiere attirandone i visitatori (che anzi questo potrebbe essere a discapito della vita stessa del quartiere all’interno di un inevitabile processo di gentrification dovuto ad altri fenomeni sociali di ‘spossessamento’, da leggere all’interno della relazione tra il sistema capitalistico e l’organizzazione dello spazio urbano),[14] ma piuttosto perché raccontando ha rimosso il filtro che la memoria collettiva introduce per eliminare ciò che non è culturalmente accettato, «una memoria culturale che tende a scartare, dimenticare quindi rimuovere quanto non è elaborabile; [che] non va oltre, si ferma incorporando solo immagini di modelli accettati e condivisi».[15] Il lavoro della memoria compiuto da Grasso ha la funzione di porre quei corpi, la cui identità e gestione della sessualità viene rifiutata perché non classificabile, in rapporto con la storia. Il vissuto personale diventa fonte di conoscenza e di riconoscimento. Il movimento autobiografico da metodo per conoscere e comprendere se stessi assurge alla funzione collettiva secondo cui una città può e deve prendersi cura di sé, annettendo una parte dell’umanità che ha sempre tenuto ai margini, senza doverla trasformare, anche perché, come Franchina ribadisce più volte in varie interviste, «la diversità dona risalto a una città», chiarendo meglio nell’epilogo di Davanti alla porta:

 

Ho descritto in queste pagine la storia di un quartiere diverso dagli altri. Ho raccontato la mia vita e quella di tanti altri. Ho accennato alle nostre abitudini e di come si vive andando controcorrente. Non rimpiango nulla di quello che ho fatto e rifarei esattamente la stessa vita […]. Mi dispiacerebbe davvero se un giorno S. Berillo cambiasse e si omologasse agli altri quartieri.[16]

 

 

3. La parola rende queer

Più di Franchina che si identifica e viene identificata (causa? conseguenza?) da quanti la ritraggono col quartiere San Berillo, ci sembra dunque interessante riconoscere la funzione di racconto del quartiere che Francesco propone attraverso un visibile percorso di maturazione narrativa che intercorre tra la prima e la seconda opera, perché paradossalmente Francesco, a differenza di Franchina, non deve mantenere una posa prestabilita. Nei progetti fotografici a lei dedicati e nei reportages giornalistici Franchina, sempre nei suoi abiti femminili di travestito, appare quasi sempre impoverita della fluidità che appartiene alla sua identità di omosessuale, di transgender, di prostituta. E le vie che la incorniciano diventano scenari di pietre immobili che fissano dei confini inamovibili del suo personaggio e del quartiere.

Anche nel testo della canzone Franchina del cantautore Cesare Basile, nonostante esso abbia il merito di essere una condanna al perbenismo e un’ammissione di ciò che in genere viene ritenuto licenzioso, l’endiadi Franchina-San Berillo appare immodificabile, fissata in una forma definita, appunto. Francesco che attraverso la scrittura narra di sé in quanto uomo e in quanto donna, in quanto travestito e in quanto puttana, è un soggetto realmente queer e in quanto tale può mostrare a se stesso e agli altri la fluidità del suo genere e del suo desiderio, riconoscere quella degli altri e delle altre con cui condivide la vita e il lavoro nel quartiere e, così facendo, rimuovere quel filtro che mantiene San Berillo confinato e sospeso dentro la città.

 F. Castiglione, Francesco Grasso durante la presentazione del suo secondo libro, 2018

Solo in un’altra occasione tra le apparizioni di Franchina ci sembra che questa fluidità del soggetto si riveli ed è all’interno del film documentario Gesù è morto per i peccati degli altri della regista Maria Arena, dove Franchina si alterna nella storia a Francesco. Emblematica è la scena della festa di compleanno a sorpresa organizzata dai nipoti: quando lo scrittore/attore suona alla porta, alla domanda ‘chi è?’ risponde col nome Francesco, mentre al soffio della candela si sente un coro di auguri rivolti contestualmente a Franchina e ad un ancor più inincasellabile Franchino. In un contesto di performatività audiovisiva è l’unica occasione in cui Francesco-Franchina viene offerto allo sguardo come un soggetto fluido, senza essere solo l’uno o solo l’altra, per quanto sia difficile in tutto il resto del film recuperare i passaggi intermedi e non classificabili secondo il binario dell’eteronormatività, che soltanto la costruzione narrativa di Francesco riesce a mostrare nelle due opere, sia nelle riflessioni che nei racconti.

È probabile che a permettere questo sia da una parte l’autorialità di Francesco che gli consente di tradursi in parola senza la mediazione di un’altra figura, ma è ancor più probabile che c’entri la possibilità di sottrarre la propria performance da un contesto visivo, dove è più facile rispondere a un pubblico dentro un ruolo conformato, lo stesso pubblico che mentre pensa di andare oltre gli schemi della comune morale varcando la soglia di San Berillo e guardando e ascoltando Franchina, in realtà si sta accontentando – e mettendo l’animo in pace rispetto a una vaga volontà di ammissione morale e culturale – di interagire con una forma data una volta per tutte e di mettere dunque ancora un filtro confortevole tra sé e il quartiere. Non è un caso che è lo stesso pubblico che quando entra in contatto con Franchina e con tutte le altre ‘Franchine’ del quartiere allontana lo sguardo temendo la prostituta che inscena una rissa mentre si sta realizzando uno spettacolo teatrale, oppure rimane sgomento dinanzi alla figlia trans che si prostituisce insieme alla madre mentre quest’ultima si ostina a chiamare la prima ‘figlio’ o ancora si interroga turbato sul perché una transgender rivendichi l’orgasmo ottenuto dal suo membro virile. In fondo è lo stesso pubblico che dentro il quartiere, dove fluida è non soltanto la sessualità ma la modalità e la necessità di stare al mondo, sa interagire con la comunità migrante lì insediatasi con le proprie famiglie, ristoranti abbozzati, attività economiche, e allontana lo sguardo dai giovani stranieri costretti ad occupare casa arrampicandosi per i cavi della luce, ad accendere il fuoco per strada per riscaldarsi d’inverno, a sopravvivere attraverso tutti gli espedienti possibili, ad annegare il loro sconforto in paradisi che scaldano come le fiamme dell’inferno, a inscenare monologhi deliranti e tentativi di dialogo che trasbordano dalle performances organizzate per le strade del quartiere.

A valore emblematico di tutto ciò si prenda il caso di Specula speculorum [2017], uno spettacolo teatrale itinerante per le strade di San Berillo, atto finale di un percorso triennale di Teatro sociale e Drammaturgia di comunità nel quartiere condotto da Officina SocialMeccanica. Partendo dal presupposto che anche le comunità hanno bisogno di narrazione, altrimenti rimangono prive di storia e dunque di identità, si è lavorato attraverso dei laboratori sui temi cari a San Berillo quali le soggettività, relazioni di genere e la rigenerazione urbana, tentando di costruire una storia collettiva, che tenesse conto da una parte dei documenti d’archivio e dall’altra della voce viva di quanti vivono il quartiere, rispondendo all'esigenza delle persone di raccontare l'esistenza reale, in qualsiasi situazione o condizione esse si trovino, e lavorando con l’immaginario e i desideri di una comunità che vanno conosciuti, fatti maieuticamente emergere e anche sviluppati nella loro possibilità e nel loro diritto di esistenza. Dopo aver ‘cartografato’ tutto il materiale drammaturgico così ricavato, è stato prodotto – attraverso la costruzione di personaggi e azioni, vivificando situazioni e condizioni, collocando nello spazio finzionale le verità del quartiere – un testo drammaturgico frutto dell’immaginazione, dell’ascolto di sé e del mondo esterno, della produzione di situazioni visibili e condivisibili, che ha consentito a desideri, bisogni, paure, conflitti di organizzarsi ed esprimersi. Tra le persone coinvolte in questo lavoro sin dall’inizio c’è Francesco Grasso, che dà il suo contributo attraverso interviste teatrali e racconti. Mentre il composito canovaccio sta prendendo forma, viene proposto allo scrittore di inserire dei brani tratti dal suo primo libro e dall’allora manoscritto del secondo; lo scrittore accetta, sceglie i brani e si offre di leggerli durante lo spettacolo a condizione di essere una voce senza corpo, nascosta cioè al pubblico, e soprattutto dà indicazioni ai performer e alla regia su come devono svolgersi le azioni contestuali alla sua lettura (un sipario rosso e un letto in strada, una donna che si trucca, delle parrucche che vengono indossate).

Constantino Ruiz, Specula speculorum, Biennale di Teatro Sociale, 2017

Qualche giorno prima dello spettacolo, lo scrittore propone di aggiungere una seconda scena a quella prevista ovvero lui che esce dalla porta in cui no visto ha letto al microfono e in abiti femminili abbatte la quarta parete, si rivolge al pubblico, gli chiede di fermarsi prima di raggiungere la tappa successiva e recita un brano a quel tempo ancora inedito che ha la peculiarità di essere scritto in seconda persona rivolgendosi direttamente al lettore (in questo caso spettatore) e raffigura la condizione emotiva di una prostituta.

Federica Castiglione, Specula speculorum, foto di scena, 2017

È ovvio che durante lo spettacolo è stata Franchina a uscire da quella porta e a rivolgersi al pubblico e non lo scrittore, ed è altrettanto ovvio che il pubblico cercasse lei. In tutte le repliche, nonostante le regole date all’inizio al pubblico di seguire un Caronte che li accompagnava lungo le tappe dello spettacolo, nella tappa in cui appariva Franchina, a chiusura del suo monologo, tutti si fermavano, applaudivano a lungo, qualcuno si avvicinava pure a interloquire, dimentichi della consegna iniziale e senza tener conto dell’invito a proseguire verso il successivo atto performativo.[17] Il pubblico aveva varcato i confini di San Berillo perché voleva trovarsi faccia a faccia con lo scarto dalla norma, ma purché questo rientrasse in confini chiari e definiti, purché fosse uno scarto possibile. Il pubblico voleva Franchina e Franchina voleva il suo pubblico, in un gioco circolare e di modelli accettati. Nelle sue opere Francesco invece si pone il dilemma del suo rapporto con i suoi spettatori/lettori:

 

è la semplice ammirazione per colui che affronta un argomento caldo verso cui […] hanno sensibilità? Faccio moda e tendenza oppure sono apprezzato per quello che faccio e come lo faccio? Se [lo] stesso libro l’avesse scritto un qualunque eterosessuale avrebbe avuto la stessa importanza o sarebbe scaduto nella banalità?[18]

 

Qui Francesco però non riesce a spingersi oltre, non procede fino ad arrivare all’incaglio asfittico di un’eteronormatività soggiacente nella lettura delle differenze. Nell’ottica dell’interazionismo simbolico di Mead – la cui analisi meriterebbe di essere applicata in forma puntuale nello studio delle soggettività sessualmente fluide – è come se l’io risultante dalla negoziazione tra la forza del ‘sé’, intesa come immagine riflessa che gli altri ci rimandano, e la forza del ‘me’, ovvero ciò che ciascuno pensa di essere nel proprio intimo, vacillasse intorno all’incapacità e alla fatica di contenere insieme nello stesso soggetto Francesco e Franchina, liberati dalle forme più insidiose dell’eteronormatività – che sono quelle contenute all’interno del soggetto che si definisce differente – per diventare un soggetto pienamente antinormativo.

Ci sembra allora che lo scrittore solo attraverso la parola letteraria e la costruzione dei singoli racconti autobiografici e non, di sé e degli altri, riesca a tratteggiare portandola a compimento l’identità fluida di Francesco, di quel Francesco che per esempio ben presto sceglie di non assumere più estrogeni: «perché volevo essere me stesso, Francesco, travestito sì, ma con la mia anima»;[19] e anche del quartiere, che appare così uno spazio sessualizzato in grado di contenere una dimensione fluida e antinormativa che può disegnare e spostare di volta in volta i confini della chiusura spaziale e culturale, permettendo la coesistenza di identità plurime. È come se abbattendo la connessione tra la funzione indessicale della parola non scritta e i gesti che la collocano in uno spazio-tempo preciso – come accade nella performance teatrale e cinematografica – la parola scritta riesca a restituire la complessità identitaria dello scrittore e del quartiere. Di questo abbattimento dei confini identitari nelle due opere è spia linguistica la categoria flessiva di genere nella costruzione dei nomi e degli aggettivi che vede l’alternarsi del femminile e del maschile quando l’autore parla di se stesso/a ed è estremamente interessante rilevare come quasi sempre il femminile appaia nella forma plurale, ovvero quando egli parla di sé accomunandosi ad altre, siano esse donne, trans o travestiti, quando si sente cioè parte di una comunità più ampia a cui appartengono altre figure significative e fluide, collocate dentro il quartiere.

Attraverso la narrazione diventano così riconosciute e ammesse le identità delle donne, delle trans o dei transgender che nel quartiere si prostituiscono, oltre che le identità fluide dei clienti «di ogni ceto sociale, cultura, tradizione, religione», i quali vengono tratteggiati in piccoli quadri che lasciano trapelare con commozione il sorriso benevolo di chi li ha incontrati, accolti, accettati: sono schizzi veloci che in entrambe le opere mettono in luce fantasie sessuali o l’incapacità di gestire la scoperta di un desiderio considerato fuori dalla norma o ancora la necessità di trovare un appagamento fuori dalla relazione eterosessuale. Anche la disarmante e riservata semplicità delle metafore usate da Michele permettono di mettere in luce la fluidità dell’identità di un ipotetico cliente, seppur addomesticata dentro una cornice tranquillizzante:

 

Avete mai cambiato improvvisamente le vostre abitudini alimentari? Avete per un certo lasso di tempo tralasciato un cibo che vi piaceva per dedicarvi ad un altro? I vostri gusti sono talvolta cambiati per poi tornare dopo un certo tempo alle antiche passioni? Oppure avete mai aggiunto alla vostra normale alimentazione un cibo mai preso in considerazione prima? Io credo che ciò sia capitato a molti di voi e sono altrettanto sicuro che nessuno ha mai pensato di biasimarvi se alla carne avete sostituito le verdure, o se durante la colazione del mattino siete passati dal te al caffellatte e viceversa.
Ebbene allo stesso modo, e con lo stesso meccanismo psicologico, credo si possano sperimentare nuovi gusti sessuali senza necessariamente abbandonare i vecchi, quasi una globalizzazione del sesso.
Potrebbe trattarsi d’una sorta d’ampliamento delle conoscenze e delle esperienze sessuali che porta ad una maggiore consapevolezza su argomenti assai delicati che sprofondano spesso nelle illazioni di chi non sa.[20]

 

Anche se – ed è un dato che non si può tralasciare – attraverso questa modalità da uomo ‘semplice’ (sappiamo che è anche cliente ‘semplice’, secondo la definizione condivisa dalle prostitute per definire un cliente «facile da gestire, collaborativo e non pretenzioso») Michele non riuscirà però ad esimersi dal dichiarare anche le proprie crude verità contenute ancora dentro un sistema di riferimento eteronormato, come quando prova a rispondere alla domanda

 

che Franchina stessa, per sua curiosità, mi ha posto: può un uomo come Michele innamorarsi di una delle tante Franchina? riferendosi non alle puttane in genere, ma essenzialmente ai trans o travestiti come lei. È ovvio che la mia risposta non potrà essere assoluta per tutti […] ma per quello che mi riguarda […] il cliente etero si avvicina a questo genere di rapporto più per curiosità e certezza dell’appagamento, che per vera o latente tendenza omosessuale. Per tali circostanze escluderei quasi totalmente qualsiasi coinvolgimento di cuore, mentre riaffermo il legame basato sulla soddisfazione corporale.[21]

 

Il dialogo sotteso al testo che si instaura tra lo scrittore e Michele, pur nella sua manifesta eteroglossia, permette tuttavia di mettere in mostra e potenziare le tensioni rappresentate e così facendo ancora una volta di operare, almeno nella scrittura, la rimozione del filtro che scherma chiunque voglia entrare in relazione con il quartiere e le sue molteplici identità ponendo e rafforzando i limiti fissati dalla sua storia e dalla sua peculiare geografia.

Da un punto di vista narratologico, il contributo di Michele all’opera di Francesco Grasso se da una parte denuncia l’incapacità della scrittura di organizzarsi intorno a delle strutture narrative compiute, dall’altra dimostra la maturazione rispetto alla prima opera per cui l’accostamento di sequenze narrative in forma di ricordo viene superato da un tentativo di costruzione di personaggi e punti di vista, per quanto ancora lontano da un vero e proprio intreccio narrativo. Se il rivolgersi ai lettori da parte del narratore può denunciare ancora più che una scelta stilistica un’acerba confidenza con lo strumento letterario – quasi si trattasse della trasposizione di un atto performativo di Franchina – è vero anche che sono sintomo di un’evoluzione narrativa i due capitoli posti ad apertura e chiusura di un’ipotetica prima parte dell’opera (prima cioè della comparsa di Michele),[22] nei quali la narrazione si sviluppa in seconda persona, ammettendo così all’interno la presenza di un ‘tu’ che chiaramente non è rivolto al lettore empirico, bensì a un personaggio interno all’opera facilmente identificabile con il cliente. Ci sembra questa più che una scelta stilistica la risposta ad un’urgenza narrativa che non sa compiersi altrimenti e che – seguendo la nostra ipotesi di lettura – è corrispettivo di quel tentativo non del tutto compiuto che lo scrittore tenta di fare nella direzione di una rimozione totale del filtro che rende immobile lo spazio e il tempo del quartiere sospendendolo all’interno dello spazio pubblico e percorribile dell’intera città. È a questo cliente ipotetico che lo scrittore si rivolge in apertura descrivendo il suo letto e la sua vita come «un grande palcoscenico»[23] e invitandolo a guardare oltre la ‘scena’ per scoprire la verità che è nascosta dietro l’atto performante. In chiusura, dopo aver rivelato un’altra confessione («Quante offese mi hanno gettato addosso per tenermi a distanza dalla vita degli altri, quella cosiddetta ‘normale’. E quanta violenza ho subito in questo quartiere squallido e angusto, e tuttavia raro luogo di testimonianza di vera umanità»),[24] torna a rivolgersi al cliente ipotetico per garantirgli, e garantirsi, la sua completa fedeltà a un luogo che è parte intrinseco della sua identità: «Quando tu lo vorrai, allora, se è di me che avrai bisogno ancora, mi troverai qui anche domani, qui, ancora, ad aspettarti malinconica, sul gradino consumato di questa soglia».[25]

Il cerchio si chiude su un confine temporale e spaziale e sullo sfondo di quello stesso sentimento che ha partorito l’urgenza della scrittura. Qui sembra condensarsi il senso ultimo dell’atto metonimico che dà il titolo alla seconda opera. Qui lo scrittore svela come la complessità della sua identità possa ‘sposare’ l’identità di uno spazio complesso. Seguendo il pensiero della Muraro, ci sembra che proprio nel titolo Ho sposato San Berillo possa finalmente, seppur in maniera ancora non del tutto completa, prendere corpo una rivoluzione simbolica, perché la parola permette a Francesco Grasso di ‘mettere al mondo il mondo’[26] attraverso l’astrazione del linguaggio metaforico che non vuole opporre le parole alle cose ma per converso restituire il nesso materiale che tra queste si instaura, la ‘prossimità’ spaziale e temporale di ciò che viene simbolizzato. Questo può dare davvero inizio alla creazione di un ‘atto spaziale sovversivo’, per il bene di Francesco-Franchina e di San Berillo.

 

 

 


1 Si vedano in particolare: D. Bell, G. Valentine, Mapping desire: Geographies of sexualities, Londra, Routledge, 1995; G. Ingram, A. Boutilhette, Y. Retter, Queers in space, Washington, Bay Press, 1997; S. Ahmed, Queer Phenomenology: Orientations, Objects, Others, Duke, Duke University Press, 2006, S. Antosa, Queer crossings. Theories, bodies, texts, Milano-Udine, Mimesis, 2012; S. Antosa, Gender and sexuality. Rights, language and performativity, Roma, Aracne 2012.

2 Cfr. P. Lejeune, Il patto autobiografico [1975], Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 11-14.

3 F. Grasso, Davanti alla porta, Scordia, Edizioni del Museo, 2012, p. 12.

4 F. Grasso, Ho sposato San Berillo, Catania, Trame di quartiere, 2018, p. 13.

5 «Con l’attesa dei clienti unita al silenzio e ai ricordi passati, è maturato dentro di me il desiderio, tanto forte quanto la mia angoscia, di riportare su carta quelle esperienze […] Il mio intento è quello di suscitare emozioni nel lettore e di lasciare una testimonianza per le generazioni future» (Davanti alla porta, p. 12); «Scrivere di me e del mio mondo, a detta di molti squallido, è diventato non solo un piacere narcisistico, ma anche una terapia per la mia anima. Tutti i miei amici e conoscenti, in questi ultimi 5 anni, mi hanno suggerito sempre di continuare a scrivere, forse perché si ritrovavano in ciò che scrivevo, o forse perché volevano scoprire sino in fondo quanto del mio essere puttana c’era di nascosto in loro» (Ho sposato San Berillo, p. 12).

6 La puntata è consultabile a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=dTn1q7XBEvU

7 M. Bachtin, Estetica e romanzo. Un contributo fondamentale alla scienza della letteratura [1975], Torino, Einaudi, 1979, p. 397.

8 È possibile che tali materiali si trasformino presto in volume, a riprova della vocazione autoriale di Grasso, della necessità della scrittura come pratica di costruzione del sé.

9 F. Grasso, Ho sposato San Berillo, p. 13.

10 Ivi, p. 81.

11 Ivi, p. 19.

12 P. Marcasciano, L’aurora delle trans cattive. Storie, sguardi e vissuti della mia generazione transgender, Roma, Edizioni alegre, 2018, pp. 101 e 49.

13 S. Antosa, Identità queer e spazi della comunità tra teoria e fiction: i casi di Jeanette Winterson e Sarah Waters, in F. Anello, S. Antosa, L.A. Callari, R. Lagalla, G. Lavanco, Educare la comunità, Milano, Franco Angeli, 2014, pp. 151-161.

14 Si vedano in particolare gli studi di Lefebvre e Harvey, utili a dare una lettura sulla gentrification, fenomeno che va preso in considerazione anche per il quartiere San Berillo. Per una lettura agile seppur non esaustiva del tema si ritiene interessante il recente articolo di C. Caciagli, ‘Le città nell’epoca neo-liberista’, Jacobin Italia (13 gennaio 2019), https://jacobinitalia.it/le-citta-nellepoca-neo-liberista/?fbclid=IwAR0ExHQ6M2zc033QKbAjgTTL5dp9UtpvCE_6dCGq4ZFB2mrjdXzYVJrZXKs [accessed gennaio 2019].

15 P. Marcasciano, L’aurora delle trans cattive, p. 45.

16 F. Grasso, Davanti alla porta, p. 77.

17 Durante le repliche dello spettacolo sono accaduti due eventi significativi che qui si riportano a titolo di esempio per supportare il nostro discorso: una prostituta, abitante del quartiere, durante il finto funerale inscenato interviene in lacrime insorgendo contro gli speculatori e i violentatori del quartiere e dichiarando che quello era il funerale di San Berillo, mentre un ragazzo straniero ha interrotto gli attori sostituendosi a loro al centro della scena e rivolgendosi al pubblico per convincerlo che Dio e Allah sono la stessa cosa. Gli organizzatori, gli attori, i registi si sono resi subito conto sia durante che a chiusura degli spettacoli di come gli spettatori fossero rimasti turbati e spaventati di queste interruzioni, le quali però erano parte di quella stessa realtà che si stava raccontando nello spettacolo ma che fuori dalla cornice prevista risultava straniante agli occhi degli spettatori.

18 F. Grasso, Ho sposato San Berillo, p. 27.

19 F. Grasso, Davanti alla porta, pp. 39-40.

20 F. Grasso, Ho sposato San Berillo, p. 80.

21 Ivi, pp. 85-86.

22 Si fa riferimento ai capitoli Si apre il sipario e Sulla soglia, mentre si esclude qui volutamente un terzo brano (Una vita senza limiti) dove il cambio repentino dalla narrazione in terza persona alla seconda è dovuta all’inserimento nel testo di una lettera scritta in occasione del funerale della persona di cui si parla.

23 Ivi, p. 11.

24 Ivi, p. 73.

25 Ibidem.

26 Il riferimento è al celebre titolo di una pubblicazione del 1990 della comunità filosofica femminile Diotima: Mettere al mondo il mondo. Oggetto e oggettività alla luce della differenza sessuale.