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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →

In Un anno con tredici lune (1978) Fassbinder accentua l'importanza della dialettica tra interni ed esterni e inquadra con grande precisione l'inquieta smania di amore della protagonista Elvira. Il contributo prova a rileggere i modi della messa in scena alla luce della poetica dello spazio di Bachelard, nel tentativo di sottolineare l'importanza della casa come luogo di rifrazione del sé, oltre che come dispositivo della visione.  

La dialettica dei sentimenti propria della ricerca artistica di Rainer Werner Fassbinder trova nella articolazione degli spazi uno dei nodi concettuali più interessanti, tanto da suggerire di rileggere la sua produzione nel segno di una vera e propria ‘cartografia’ dei luoghi. La lucida riflessione sui caratteri delle passioni umane, quasi sempre condizionate dal determinismo materialista della società, offre un’ampia gamma di soluzioni architettoniche, grazie anche alla continua tensione fra le città e le case, che non era sfuggita al giudizio di Deleuze. Per il filosofo francese, infatti, Fassbinder «elaborava i propri esterni come città-deserti, i propri interni sdoppiati negli specchi, con pochissimi punti di riferimento e una moltiplicazione di punti di vista senza raccordo» (Deleuze 2000, p. 145). La perentorietà di questa considerazione, di fatto uno dei pochi passaggi dedicati al regista tedesco, permette di ricavare un primo livello della topografia del suo cinema, cioè l’attrito fra dentro e fuori, pubblico e privato che si esplica a partire dalla frizione fra le trame del complesso urbano, spesso castranti nei confronti degli individui, e i dettagli delle stanze e dei palazzi, frazioni di soggettività divise e in lotta.

Riprendendo il modello spaziale elaborato da Bachelard, è possibile considerare le case disseminate lungo i bordi del cinema di Fassbinder come «strumento di analisi per l’anima umana» (Bachelard, p. 28). Lungi dall’essere l’emanazione di una condizione felice, come vorrebbe la poetica di Bachelard, le case fassbinderiane servono piuttosto a vivisezionare l’intimità dei personaggi, a far emergere il giogo di costrizioni e ricatti, di desideri e mancanze che ogni opera incarna. Nonostante il tratto per lo più claustrofobico dei film del regista, si pensi allo spazio millimetrico de Le lacrime amare di Petra von Kant o all’angustia mentale e materiale che opprime Veronika Voss, gli ambienti costruiti permettono di far deragliare la quarta parete e si trasformano in piccoli, e precisissimi, teatri anatomici. Fedele alla poetica del Kammerspiele, Fassbinder elegge gli interni domestici come elementi matrice di una visione certamente cupa, feroce, dell’esistenza, vissuta dalla maggior parte dei personaggi come traiettoria della disperazione, del disinganno, tipica della disposizione melodrammatica che resta alla lunga l’insegna più credibile dell’intera sua opera. L’esiguità dei mezzi di produzione non ha mai interferito con la pienezza dei segni espressivi, debitrici della lezione di Sirk per ciò che attiene al registro delle emozioni, e così ogni testo filmico ridisegna la simmetria (o la sproporzione) fra interni ed esterni attraverso sintagmi visivi e codici diegetici stratificati e a tratti debordanti. Proprio la concentrazione degli spazi e degli arredi, la veemenza dei destini e delle colpe, fanno sì che gli effetti della composizione di scene e sequenze obbediscano a una misura, a un equilibrio fra pieni e vuoti, tagli e raccordi, attese e tradimenti. A suggerire il nesso tra ‘relazioni pericolose’ e luoghi dell’abitare è in fondo lo stesso autore, come si legge tra le righe di una delle sue dichiarazioni più famose: «Sognare un amore vero è proprio un bel sogno, ma le stanze hanno sempre quattro pareti, le strade sono quasi tutte asfaltate e per respirare c’è bisogno dell’ossigeno» (Fassbinder 2005, p. 21). L’amore ha a che fare con il perimetro della realtà, con le funzioni dell’esistere, con la logica delle sensazioni e dei corpi, e in questa tassonomia si infrange l’archetipo della rêverie teorizzata da Bachelard. La chiusa geometria delle stanze non esclude però la permeabilità dei punti di vista, e così grazie a un calcolato sistema di soglie le case di Fassbinder si trasformano in vere e proprie ‘macchine per vedere’, in dispositivi mobili che esaltano la densità delle immagini. Guardare l’altro, o l’immagine raddoppiata e sfocata di sé stessi, significa attivare un meccanismo di compensazione, un’istanza che giunge a sublimare perfino i dolori più accesi, perché in fondo quello del regista è un cinema della compassione.

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Questo numero monografico di Arabeschi inizia un confronto fra arte e teatro nel decennio Sessanta in Italia, un periodo caratterizzato dall’intensificarsi di sconfinamenti fra linguaggi artistici. La ricerca, tanto nelle arti figurative quanto nel teatro, converge in quegli anni nell’interesse comune per la contaminazione tra linguaggi (visivo, teatrale, musicale) e codici (visivo, gestuale, musicale, sonoro, verbale), rinnova il rapporto con lo spazio e contemporaneamente inaugura una nuova dimensione di relazione (dell’autore con l’opera, del fruitore con l’opera e dell’autore con il fruitore). Si afferma la dimensione della ‘presenza’ in chiave anti-rappresentativa. 

This monographic issue of Arabeschi begins a comparison between art and theatre in the 1960s in Italy, a period characterised by the intensification of cross-fertilisation between artistic languages. Research, both in the figurative arts and in the theatre, converged in those years in the common interest in the contamination of languages (visual, theatrical, musical) and codes (visual, gestural, musical, sound, verbal), renewing the relationship with space and, at the same time, inaugurating a new dimension of relationship (of the author with the work, of the spectator with the work and of the author with the spectator). The dimension of ‘presence’ is affirmed in an anti-representational key.

 

 

Questo numero monografico di Arabeschi nasce da un’idea comune delle due curatrici: avviare un confronto fra discipline su un territorio della ricerca nel contemporaneo, il decennio Sessanta in Italia, caratterizzato dall’intensificarsi di sconfinamenti ed erosioni dei confini fra linguaggi artistici. La ricerca, tanto nelle arti figurative quanto nel teatro, converge in quegli anni nell’interesse comune per la contaminazione tra linguaggi (visivo, teatrale, musicale) e codici (visivo, gestuale, musicale, sonoro, verbale), per un rinnovato rapporto con lo spazio e una nuova dimensione di relazione (dell’autore con l’opera, del fruitore con l’opera e dell’autore con il fruitore), e per l’affermazione della dimensione della ‘presenza’, in chiave anti-rappresentativa.

È allora che le arti visive sviluppano una declinazione particolare del gesto, della materia, del corpo, dell’azione, dell’esperienza, mentre il teatro inizia a infrangere il suo legame con il testo e con il quadro scenico, mettendo in discussione l’intera gerarchia dei codici linguistici. In entrambi i campi della ricerca si reinventano le forme, gli spazi, i vocabolari. Si evidenzia ad esempio, tanto nell’ambito delle arti visive quanto nel teatro, una vicinanza alla realtà (quella delle cose, del quotidiano ma anche quella della politica e dei temi sociali), lo sviluppo di nuove forme espressive come l’happening, capace di soddisfare la fuoriuscita dal quadro (opera e scena), l’aspirazione ad aprirsi alla comunità (invitando il pubblico a una partecipazione attiva), l’esperienza di nuovi luoghi e spazi di incontro tra opera e pubblico. Tutto con, sullo sfondo, un decennio complesso, proveniente contemporaneamente dalle ceneri del dopoguerra e dal nuovo volto moderno del Paese.

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Attraverso due opere letterarie che intrecciano l’autobiografia al racconto di memoria collettiva, si ripercorre la costruzione dell’identità di genere dello scrittore ‘prostituto’ Francesco Grasso intrecciata strettamente all’identità di un quartiere, a partire dai confini che separano ed escludono tanto uno spazio fisico quanto uno spazio identitario. In questa ricostruzione si vuole dimostrare come la parola scritta acquisisca un valore ‘sovversivo’ perché permette a chi scrive di svelarsi proprio nell’atto estetico in cui il corpo è invisibile, a differenza delle altre opere audiovisive (cinema, web serie, teatro), dove la visualità a cui il corpo è esposto spinge a una rivelazione che finisce per essere un doppio velarsi.

Through two literary works that intertwine autobiography with the collective memory, the gender identity’s construction of the writer 'prostitute' Francesco Grasso is closely traced back to the neighborhood’s identity, starting from the boundaries that separate and exclude so much one physical space as an identity space. In this reconstruction we want to demonstrate how the written word acquires a 'subversive' value because it allows the writer to reveal himself precisely in the aesthetic act in which the body is invisible, unlike the other audiovisual works (cinema, web series, theater), where the visuality to which the body is exposed leads to a revelation that ends up being a double veil.

 

 

1. Le altre e il quartiere per parlare di sé

Francesco Grasso – che utilizza il nome Franchina non soltanto nella sua vita da travestito ma anche quando diventa personaggio di un film, di uno spettacolo teatrale, di una web serie, di un’intervista televisiva, di una canzone – comincia a scrivere nel 2000, in seguito alla grande retata che chiude le case del quartiere San Berillo nella città di Catania dove si prostituisce, dando così vita alla sua prima opera Davanti alla porta. Testimonianze di vita quotidiana nel quartiere catanese di San Berillo, pubblicato nel 2010 (con una seconda edizione nel 2012) dal Museo Civico Etno-Antropologico e Archivio Storico “Mario De Martino”, a cui farà seguito Ho sposato San Berillo, pubblicato nel 2018 da Trame di quartiere.

Le due opere si presentano entrambe come un insieme di piccoli quadri che hanno la duplice veste di scrittura autobiografica, centrata anzitutto sulla ricostruzione dell’identità di genere e di orientamento sessuale dell’autore, e di restituzione della dimensione spaziale in cui tale identità e tale orientamento hanno avuto modo di essere esplicitati, tracciati, costruiti, vissuti. A seconda di come vengano di volta in volta intrecciati e gerarchizzati questi due propositi, al lettore potrà apparire ora più forte il ‘patto autobiografico’ ora più incalzante il carattere ‘topo-cronachistico’ che mette in luce strutture temporali più complesse dell’immediata visione retrospettiva della scrittura autobiografica.[2] In tutt’e due le opere c’è di certo la volontà di raccontare qualcosa che si è vissuto: in Davanti alla porta i tratti autobiografici sono da rintracciare come pennellate leggere che impregnano l’intero sfondo dei 15 brevi racconti di «esperienze, sensazioni ed emozioni, fatti drammatici, comici, paradossali [vissuti] insieme alle altre»;[3] in Ho sposato San Berillo, invece, il racconto di sé diventa dipinto materico ordinato secondo un percorso cronologico e rintracciabile già, oltre che nell’imperante prima persona del titolo, da altri due elementi paratestuali: i titoli dei capitoli e l’uso del corsivo. Scorrendo l’indice di Davanti alla porta ci si rende subito conto di come non ci sia traccia dell’autore, quasi a dar l’impressione che l’opera abbia una sorta di carattere antropologico (Il quartiere, La legge Merlin, I clienti, Persone ed episodi, La discriminazione, L’igiene, La femminilità, etc.). In Ho sposato San Berillo, per contro, troviamo alcuni titoli dei capitoli eloquentemente riferiti all’autore/personaggio (Non lavarti con troppa frequenza, La strada ha scelto me, Una Franchina e un Michele, Se ho amato qualcuno, io non lo ricordo). All’interno poi dei capitoli in cui l’autore narra di sé si trova una distinzione tra una prima parte e una seconda, quest’ultima caratterizzata dall’uso del corsivo, al fine di rendere esplicito al lettore che dalla narrazione cronachistica di eventi autobiografici si passa alla riflessione e alle considerazioni dell’autore.

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Syxty sorriso & altre storie (Yard Press 2017) è un volume che raccoglie immagini e testi selezionati da Flora Pitrolo (che ha come background una ricerca dottorale sul teatro postmoderno italiano)[1] dall’archivio privato di Antonio Sixty, performer e regista gravitante intorno all’Out Off di Milano nei primi anni 80, allo studio Alchimia, al mondo della moda. L’ipotesi che motiva e struttura la raccolta dei documenti pubblicati nel volume è enunciata dalla curatrice: «Credo che proprio l’insistenza sul banale, sul superficiale e sul riproducibile come metodo – come infrastruttura portante – ci racconti più dell’Italia di quegli anni di quanto non ci raccontino le drammaturgie più rispettabili, non solo rispetto alle immagini in circolazione a quei tempi ma anche e specialmente rispetto al rapporto con quelle immagini».[2]

Nel libro di Sixty la sua produzione direttamente spettacolare non trova spazio di racconto e documentazione: vi si ritrova il contesto, che rinvia, nella sua dimensione iconografica, parte rilevante del volume alla produzione di immagini tipiche del postmodernismo teatrale. Riferire su questo prodotto editoriale comporta quindi la necessità di reimmergersi in quegli anni e in quelle atmosfere, di ritornare sulle tendenze e le ideologie che avevano nutrito il fenomeno della Nuova spettacolarità. Il volume raduna documenti d’archivio autentici con la loro aura d’epoca (fogli scritti a mano sbiaditi dal tempo), ma quella cultura riallestita e riproposta non viene né interrogata, né problematizzata, in quanto si offre come una parata delle figure ricorrenti – che sono diventate stereotipi – attraverso le quali è stata raccontata la Nuova spettacolarità.

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«Si possono comunicare le ragioni e il senso del fotografare solo incidendo sull’immagine, evidenziando le linee costruttive, i contrasti e le profondità. Ma soprattutto annotandoci sopra. È un bisogno fisico di riappropriazione». Così Mario Piazza sintetizza l’operazione di Gabriele Basilico nell’Introduzione al suo ultimo libro, Leggere le fotografie. In dodici lezioni (Milano, Abitare e Rizzoli, 2012). Il volume, quasi un saluto dell’autore ai lettori di poco precedente alla sua scomparsa, raccoglie la serie di lezioni precedentemente pubblicate, su iniziativa di Stefano Boeri, sulla rivista di progetto Abitare, con l’aggiunta di due inedite. Ma cosa si intende per ‘lezione’? L’utilizzo dei propri scatti a scopo didattico non ha rappresentato per Basilico il pretesto per una riflessione di tipo manualistico sulle scelte tecniche; il fotografo ripercorre la sua intera produzione e, selezionando le opere più significative, rilegge e commenta il contesto in cui esse sono nate, i momenti di svolta e gli influssi fondamentali della propria formazione. Ciò che viene offerto al lettore è un appassionante racconto visivo e verbale, cronologicamente ordinato, della carriera di un maestro italiano, in una forma innovativa: Basilico, nel tentativo di illustrare un metodo, ‘sporca’ le foto, scrive su di esse «come se ogni “lezione” fosse un layout di un possibile progetto o la traccia di una discussione, una memoria o un post it…» (p. 131). Quasi un gioco, dunque, ma la leggerezza non sottrae valore al messaggio, lo rende solo più godibile, anche quando si tratta di annotazioni tecniche; del resto, le poche presenti nel testo sono relative alle funzioni della fuga prospettica, o all’ordine che lo spazio assume attraverso il punto di vista centrale, con alcune esemplificative riproduzioni di riprese frontali.

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