Syxty sorriso & altre storie (Yard Press 2017) è un volume che raccoglie immagini e testi selezionati da Flora Pitrolo (che ha come background una ricerca dottorale sul teatro postmoderno italiano)[1] dall’archivio privato di Antonio Sixty, performer e regista gravitante intorno all’Out Off di Milano nei primi anni 80, allo studio Alchimia, al mondo della moda. L’ipotesi che motiva e struttura la raccolta dei documenti pubblicati nel volume è enunciata dalla curatrice: «Credo che proprio l’insistenza sul banale, sul superficiale e sul riproducibile come metodo – come infrastruttura portante – ci racconti più dell’Italia di quegli anni di quanto non ci raccontino le drammaturgie più rispettabili, non solo rispetto alle immagini in circolazione a quei tempi ma anche e specialmente rispetto al rapporto con quelle immagini».[2]
Nel libro di Sixty la sua produzione direttamente spettacolare non trova spazio di racconto e documentazione: vi si ritrova il contesto, che rinvia, nella sua dimensione iconografica, parte rilevante del volume alla produzione di immagini tipiche del postmodernismo teatrale. Riferire su questo prodotto editoriale comporta quindi la necessità di reimmergersi in quegli anni e in quelle atmosfere, di ritornare sulle tendenze e le ideologie che avevano nutrito il fenomeno della Nuova spettacolarità. Il volume raduna documenti d’archivio autentici con la loro aura d’epoca (fogli scritti a mano sbiaditi dal tempo), ma quella cultura riallestita e riproposta non viene né interrogata, né problematizzata, in quanto si offre come una parata delle figure ricorrenti – che sono diventate stereotipi – attraverso le quali è stata raccontata la Nuova spettacolarità.
Nel testo di Alessandro Mendini – figura centrale a Milano in quegli anni – leggiamo una sintesi efficace di quell’estetica: «Le opere fisiche che ne derivano sono messaggi istantanei, cartoline, polaroid, scenari provvisori. I loro progetti sono precisi, schedati, professionali, urlati e ricchi di messaggi. Out Off, crolli nervosi, falsi e criminali movimenti, AGIP, futurismo fino agli antipodi del nostro mondo, la New Zealand con UFO, lavatrici e indigeni. Ecco: il messaggio. Messaggi volutamente distorti, fragili per definizione, tragici per la loro strutturazione ma energetici per vocazione. È la visione e la cronistoria ermetica che fa prevalere la profondità del superficiale, l’autenticità dell’incertezza sulla retorica modernista dei valori assoluti».[3]
Il volume non riporta la produzione di Sixty, ma per inoltrarci nel suo mondo (e quindi uscire dalla gabbia del testo) ci sembra significativo riproporre la descrizione di due sue performance per mano di Mimma Valentino nel volume Il Nuovo teatro in Italia 1976-1985:
A via Sabotino Antonio Syxty presenta Eloise, leggero vento Eloise, spettacolo ispirato al mondo della moda. Il performer dell’Out Off riproduce, infatti, uno studio fotografico, illuminato a giorno e arredato in maniera essenziale: fondali a contrasto e sedie di tela. Al centro della scena è lo stesso Syxty che dapprima manda degli strani segnali, poi inizia a contorcersi, indossando e smettendo abiti casual; parallelamente due giovani modelle fanno ginnastica. Lo spettacolo è preceduto dalla lettura, da parte del performer, di alcune lettere, indirizzategli dalle sue ammiratrici, e dall’annuncio che dei suoi nemici, nel tentativo di screditarlo, hanno messo sul mercato un suo sosia, o forse cento o mille.[4]
Nella seconda performance: «Antonio Syxty alla Galleria propone Kennedyne, lavoro ispirato al mondo patinato della moda. La performance ricostruisce, infatti, tre momenti di un servizio fotografico: dapprima il “coverboy” dell’Out Off, vestito con giacca a vento e bermuda, simula, davanti a due fondali, pose da fotomodello professionista, elargendo sorrisi rivolti ai flash fotografici e sciogliendosi in tic ossessivi. Nella seconda situazione Syxty sistema una modella in pose da copertina; infine la stessa ragazza “di plastica” si prepara per essere fotografata davanti a un telo giallo».[5]
Il volume, dunque, squaderna un paesaggio connotato fortemente dall’iconografia che ha marcato, in Italia, il territorio della Nuova spettacolarità e motiva una revisitazione dei suoi topoi concettuali e visuali. Ci pone pertanto la domanda: possiamo considerarli come delle sopravvivenze che hanno intriso un immaginario oltre la breve stagione del teatro postmoderno? Antonio Syxty è stato una incarnazione della cultura postmoderna che ha prodotto un formidabile sistema auto-mitizzante, una cultura in grado di attingere a fonti disparate: lo sport, la moda, l’intrattenimento popolare. Il suo teatro si inscrive nei primi anni Ottanta nella cornice della Nuova spettacolarità, con spettacoli-icone come Crollo Nervoso dei Magazzini Criminali, Tango glaciale di Falso Movimento e Eneide di Krypton, che vanno componendo un’estetica riconoscibile, segnata dal mixage di musiche eterogenee, di attori-danzatori, di spazi che esaltano la bidimensionalità della superficie su cui proiettare immagini prelevate dai mass media, cinema compreso. L’accezione teatrale del postmoderno implica una nuova tendenza all’insegna della spettacolarità, che decretava la fine delle neo-avanguardie mettendo al centro concetti come nomadismo, principio dell’erranza dei soggetti, pratiche basse, superficie, perdita di centro; o ancora dialettica, conflitto, antagonismo, utopie, rivoluzione, sovversione. Il sentimento della fine, vissuto come lutto non risarcibile e provocato dalla sconfitta delle rivoluzioni, trovava nel pensiero postmoderno una sorta di ri-significazione e inversione di senso: la catastrofe, invece che come perdita, veniva magnificata come orizzonte di senso e tradotta in una epistemologia che disegnava un mondo di macerie, con le quali convivere non all’insegna del lutto, ma dell’edonismo, dell’eccitazione sensoriale, delle basse frequenze che ottundono il pensiero logico a favore dell’immersione e del flusso.
A rileggere a distanza di tempo gli enunciati della cultura postmoderna, assimilati dai Magazzini, da Falso Movimento o ancora dai gruppi più giovani come Syxty, Taroni Cividin, Tradimenti Incidentali e altri, ci colpisce l’adesione senza riserve a tali parole d’ordine che funzionavano come un rivestimento di superficie, una divisa da indossare, un maquillage alla moda, ma anche una liberazione dai vincoli dell’avanguardia per abbracciare la cultura di massa e i suoi simboli. La nuova spettacolarità postmoderna non si rivolgeva più al pubblico dei teatri underground ma privilegiava le tecnologie capaci di coinvolgere un’audience più vasta rispetto a quella dell’evento dal vivo. L’istanza perseguita dal teatro postmoderno era andare al di là dello spettacolo teatrale e della sua natura effimera, sperimentando formati riproducibili (film, dischi, video), tendendo nello stesso tempo verso una dimensione popolare.
Ritroviamo nelle pagine del libro di Sixty la ‘metropoli’ come figura concettuale generatrice di un immaginario popolato da autostrade di notte, pompe di benzina, luci dei fari delle automobili, motel (dove si svolge la conversazione fra Sixty e Bartolucci), film visti in tv con i divi hollywoodiani – quel paesaggio delle metropoli[6] che avvicina Los Angeles a Hong Kong e fa coesistere senza conflitti il villaggio maori con lo shopping center, il deserto e i grattacieli, vivendo l’interscambiabilità del genere maschile e femminile, componendo una iconosfera in cui la modella si affianca a Superman e l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy si trasforma in un film. È una omologante idea di metropoli come mescolanza che rende impossibile distinguere luoghi e identità; niente più città, ma un unico agglomerato senza confini, uno spazio senza centro, senza passato e senza storia.
Cinema, televisione, pubblicità, sport, fumetti (fino ad allora estranei alla scena teatrale), fantascienza, una miscellanea di media e di generi producono diversi formati che oltrepassano lo spettacolo teatrale per sperimentare e mettere in circolazione dischi, video, riviste. Il formato ‘performance’, peculiarità della pratica di Antonio Sixty, al limite fra lo spettacolo e l’installazione, trovava nella discoteca il suo ambiente altro dove alla musica si sovrapponevano immagini in diapositive mentre il frequentatore passeggia, parla, balla. Proprio in questo contesto la musica diventa centrale, si trasforma in melange di citazioni diverse che spaziano dalle canzoni di moda e di consumo (i Bee Gees di Saturday night fever) alle suggestioni del repertorio d’ambiente, la cui icona era Brian Eno, senza dimenticare le suggestioni di un rock mitologico esercitato da personalità come Jimi Hendrix o Janis Joplin, Lou Reed o David Bowie.[7]
La fotografia, nel restituire il reale in immagine, codifica quel fascino per il banale che trasforma il vissuto in fiction, in set fotografico e cinematografico: si esiste allora solo se si è riprodotti.
Si alimenta in tal modo un’attitudine che giunge a mitizzare il sistema della moda – le manequin, le sfilate, le pose fotografiche – il divismo, non certo in funzione della dimensione ‘fattografica’ del documento diretto, né perché critica il mondo degradato della modernità capitalistica.
Alcuni parametri come la messa fuori gioco dell’alterità, l’indistinzione fra soggetto e oggetto hanno operato efficacemente e trasformato le pratiche cognitive, artistiche, sociali di fine millennio mettendo in crisi il principio di rappresentazione, la dialettica tra la scena, gli attori e gli spettatori.[8] Il paradigma della performance si è imposto come pertinente a questa condizione perché «riproduce un evento senza origine, che non differisce qualitativamente dai mille eventi ‘non estetici’ che si danno nella metropoli».[9] La produzione di Sixty si inscrive in questo paesaggio concettuale.
Paradossalmente, le teorie postmoderne – mutuate nell’Italia dei primi anni Ottanta da Baudrillard, Lyotard e Jameson – hanno fornito ancora un contesto unificante entro il quale la produzione artistica e quella estetica procedessero affiancate, in una cornice teorico-filosofica con la quale interagire, in entrambe le direzioni. L’estrema eterogeneità delle forme e la decostruzione di ogni criterio regolatore offriva al teatro di quel periodo una libertà estrema, sul terreno della sperimentazione e dell’espressione. I successivi anni Novanta soffriranno per essere invece privi di un centro e comunque ‘postumi’, sopravvissuti alla fine delle ideologie.[10]
SYXTY SORRISO & ALTRE STORIE
Conceived and curated by Flora Pitrolo
Art direction and design by Giandomenico Carpentieri
Texts by Flora Pitrolo, Joe Kelleher, Alessandro Mendini
Yard Press, 2017
1 F. Pitrolo, What Was Before isn’t Anymore Image, Theatre and the Italian New Spectacularity 1978-1984, London, University of Roehampton, 2014.
2 F. Pitrolo (a cura di), SYXTY SORRISO & ALTRE STORIE, Milano, Yard Press, 2017, p. 368.
3 Ivi, p. 370.
4 M. Valentino, Il Nuovo Teatro in Italia 1976-1985, Corazzano (PI), Titivillus, 2014, p. 185.
5 Ivi, 191.
6 Cfr. Paesaggio metropolitano, a cura di G. Bartolucci, M. Fabbri, M. Pisani, G. Spinucci, Feltrinelli, Milano, 1982.
7Cfr. M. Petruzziello, Anni Ottanta: per una introduzione ai dischi del teatro in Contesti 80, https://nuovoteatromadeinitaly.sciami.com/; O. Ponte di Pino, ‘Postmoderno’, in Il patalogo, n. 6, Ubulibri, Milano 1983, pp. 166-169.
8 Si vedano a tal proposito le domande poste da Bartolucci a Jean Baudrillard in Paesaggio metropolitano, p. 63.
9 M. Ferraris, ‘Su un’estetica postmoderna’, in Paesaggio metropolitano, p.30.
10 Per i temi qui trattati cfr. V. Valentini, Nuovo teatro made in Italy, Roma, Bulzoni, 2017 e il sito collegato https://nuovoteatromadeinitaly.sciami.com/ .