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Syxty sorriso & altre storie (Yard Press 2017) è un volume che raccoglie immagini e testi selezionati da Flora Pitrolo (che ha come background una ricerca dottorale sul teatro postmoderno italiano)[1] dall’archivio privato di Antonio Sixty, performer e regista gravitante intorno all’Out Off di Milano nei primi anni 80, allo studio Alchimia, al mondo della moda. L’ipotesi che motiva e struttura la raccolta dei documenti pubblicati nel volume è enunciata dalla curatrice: «Credo che proprio l’insistenza sul banale, sul superficiale e sul riproducibile come metodo – come infrastruttura portante – ci racconti più dell’Italia di quegli anni di quanto non ci raccontino le drammaturgie più rispettabili, non solo rispetto alle immagini in circolazione a quei tempi ma anche e specialmente rispetto al rapporto con quelle immagini».[2]

Nel libro di Sixty la sua produzione direttamente spettacolare non trova spazio di racconto e documentazione: vi si ritrova il contesto, che rinvia, nella sua dimensione iconografica, parte rilevante del volume alla produzione di immagini tipiche del postmodernismo teatrale. Riferire su questo prodotto editoriale comporta quindi la necessità di reimmergersi in quegli anni e in quelle atmosfere, di ritornare sulle tendenze e le ideologie che avevano nutrito il fenomeno della Nuova spettacolarità. Il volume raduna documenti d’archivio autentici con la loro aura d’epoca (fogli scritti a mano sbiaditi dal tempo), ma quella cultura riallestita e riproposta non viene né interrogata, né problematizzata, in quanto si offre come una parata delle figure ricorrenti – che sono diventate stereotipi – attraverso le quali è stata raccontata la Nuova spettacolarità.

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Una versione più breve di questa intervista è già apparsa su Sentieri selvaggi

 

D: Come è avvenuto il suo incontro con Anna Piaggi, e poi la scelta di dedicarle un documentario?

R: Il film è un ritratto postumo. L’avevo incontrata qui a Milano, la si notava. Insieme ad un’amica costumista dopo che Anna Piaggi è mancata ho avuto occasione di visitare il magazzino dove sono stati depositati tutti i suoi abiti, cappelli e accessori. E mi hanno colpito, non solo per la quantità. Lì mi è venuta la curiosità di tracciare un ritratto di questa donna eccentrica. Mi ha incuriosito la sua personalità originale, quello spirito libero che l’ha portata a dire sempre quello che pensava in un contesto rigido e severo com’è il mondo della moda. Non si è mai affiliata ad uno stilista in particolare, ad esempio. Ha sempre avuto una propria visione della moda che insieme alla sua particolare femminilità ha espresso nel modo di apparire. Come nei miei precedenti film, diversi da questo perché più impegnativi, anche questa volta c’è il tentativo di capire una donna che ha mantenuto la propria autonomia, indipendenza e originalità in un contesto che ha regole precise. Ancora quindi una donna libera e controcorrente, anche nella vita privata.

D: Prima di questo documentario conosceva già il mondo della moda?

R: No, né posso dire di conoscerlo adesso, benché abbia avuto contatti con diverse persone, tutte comunque amiche di Anna Piaggi, libere, stravaganti, originali. Ho tracciato un percorso dell’evoluzione della moda italiana dagli anni Sessanta ad oggi, che è nata principalmente negli atelier romani, e poi con il Made in Italy è diventata un’eccellenza nel mondo. È stato un passaggio non solo di costume, ma anche industriale, perché prima la moda si doveva ai sarti – che all’epoca non si chiavano stilisti o designer – i quali prima dell’avvento del prêt-à-porter lavoravano in modalità artigianale e su commissione. Con l’avvento di altre tecnologie del settore tessile e la diffusione del prêt-à-porter anche la comunicazione della moda è conseguentemente cambiata. Anna Piaggi ha iniziato a scrivere su Arianna, poi su Vogue e in precedenza ha fondato la rivista Vanity. Negli anni ottanta in queste riviste non si parlava tanto di un singolo abito o del colore di tendenza nella stagione in corso, quanto piuttosto di modi di essere e di apparire, di una visione della moda. E nel frattempo la moda è diventata accessibile a più classi sociali. Prima erano in pochi a farsi realizzare abiti in atelier, poi negli anni sessanta e settanta le donne, accedendo al lavoro, sono diventate più indipendenti e hanno iniziato così a potersi permettere ad esempio un abito Missoni alla Rinascente, e ad accedere ad un altro status. Nel mio film ci sono diverse immagini di repertorio che tracciano questo percorso cronologico. Anna Piaggi è stata testimone di tale cambiamento, non da stilista ma da giornalista, persona colta e attenta osservatrice della società. È diventata lei stessa una vetrina del cambiamento e delle provocazioni, di culto soprattutto all’estero in quanto attraverso il modo di vestire esprimeva una visione propria e un collegamento soprattutto con il mondo dell’arte. Le sue doppie pagine su Vogue sono diventare appuntamento fisso per coloro interessati alla moda come espressione di cambiamento sociale, seminando indizi, tracce, intuizioni.

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The essay explores the elements of experimentation, particularly visual, in Alina Marazzi’s movies, focusing on four films: Un’ora sola ti vorrei (2002), Per sempre (2005), Vogliamo anche le rose (2007), Tutto parla di te (2012). These works, albeit very different, share similar topics and a personal and diaristic approach. In their diversity, these films are marked by a form of poetic license, by moments of visual ‘freedom’ that move away from the ‘narrative’ to unleash the eye and guide it in enigmatic or metaphorical wanderings, free associations which rely on new takes, found footage, or seemingly arbitrary combinations of editing. The freedom of the gaze and its wandering seem to become a metaphor for a liberation from both social (particularly concerning the condition of women) and filmic conventions.

Il film[1] in questione, in particolare, più dei successivi, ha saputo calamitare tante e diverse attenzioni, e diversi approcci critici, per la sua intensa e sapiente orchestrazione di elementi: la memoria, la famiglia, la perdita, l’elaborazione del lutto, il ritrovamento, il disagio, la relazione madre-figlia, la condizione femminile. Ma anche per la componente specificamente filmica: i film di famiglia, i film amatoriali, le riprese di vecchie carte, il tutto amorevolmente e dolorosamente ricomposto con rumori e musiche, che intessono una storia di decenni attraverso l’intreccio di suoni e di immagini della più diversa provenienza. Una storia, quella raccontata nel film – lo si è sottolineato spesso – che da privatissima qual era riesce a presentarsi e ad agire in modo potente e delicato sullo spettatore, in tutta la sua universalità.

Un cinema in qualche modo ‘saggistico’ per le tematiche che implica e che esplicita; un cinema poetico, che si allontana dalla categoria un po’ generica del found footage e costringe a ripensare le terminologie, avvicinandosi alla forma del ‘diario filmato’.[2]

La varietà di sguardi e di approcci al film (fra cui quello psicoanalitico) e l’importanza dei temi – o, come si diceva una volta, dei ‘contenuti’ non avrebbe saputo attrarre tanta attenzione e scatenare tanta emozione se la tessitura formale fosse stata debole, frettolosa e incerta. Così non è stato, anche per l’addensarsi di una serie di elementi che l’autrice e la montatrice raccontano non solo nei numerosissimi incontri di presentazione del film ma anche nel libro che accompagna il dvd:[3] una gestazione lunghissima, l’intimità (della vicenda, ma anche quella stabilitasi nella convivenza con le immagini stesse), una adesione sofferta e partecipata, l’apporto di competenze e conoscenze adeguate alla delicatezza del tema, la ricchezza e qualità dei materiali trovati e il loro completamento con nuove riprese. Una tela, un arazzo a cui si è lavorato con la minuziosa attenzione a ogni dettaglio e con una capacità di temperare l’emozione con la lucidità, l’adesione esistenziale profonda con la necessità di un distanziamento, per così dire, anche ‘estetico’, teso a rendere ancora più efficace e autentica quell’adesione emotiva.

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